Conversazione con Armando Punzo / Che il cielo esista, anche se il nostro posto è l’inferno
In una lettera diffusa nella notte tra il 20 e il 21 giugno Armando Punzo ha annunciato di aver lasciato la direzione artistica di VolterraTeatro, uno storico festival internazionale di ricerca artistica che il regista della Compagnia della Fortezza dirigeva da vent’anni. Nella lunga e dettagliata lettera che in poche ore è rimbalzata su tutti i canali di comunicazione, scuotendo l’Italia del teatro e della cultura, sono riportate le ragioni di una scelta radicale ma inevitabile, dettata dal venire meno delle condizioni minime per la gestione di una manifestazione artistica che possa essere definita tale e che tale non è più quando viene affidata tramite uno scellerato bando che arriva a un mese e mezzo dall’inizio del festival, con richiesta di preventivo al ribasso economico (chi offre di meno vince, indipendentemente dal progetto), rispetto a un budget irrisorio di circa 40.000 euro.
Negli ultimi anni, nonostante le difficoltà fossero già enormi e logoranti, ti ho visto assolutamente risoluto nel proteggere il progetto di VolterraTeatro e de I teatri dell’Impossibile: il festival andava fatto e fatto bene, in ogni caso. La domanda allora non è perché hai lasciato, ma perché sei rimasto fino a ora.
Ho sempre pensato che il festival andasse protetto dal rischio che scadesse in qualcosa di diverso da ciò che era miracolosamente diventato anno dopo anno, perché era importante per Volterra, per il pubblico, per la Compagnia della Fortezza. Ho creduto moltissimo al progetto de I Teatri dell’Impossibile: ho creduto sinceramente che fosse possibile mettere insieme il meglio del meglio della ricerca in tutti i campi del sapere umano. Quando nella mia lettera dico che sognavo un cortocircuito tra innovazione e tradizione lo dicevo in senso letterale. Far confliggere e dialogare le sacche di conservatorismo e le punte estreme di ricerca, in un paese di divari incredibili come l’Italia, mi sembrava straordinario. E per molti anni ci siamo riusciti. Adesso però siamo scesi troppo in basso ed è il momento di dire basta.
La tua rinuncia può sembrare un atto di coraggio in difesa dei principi di etica, dignità professionale: in effetti lo è. Ma al di là di questa pulsione morale e politica, io intravedo l’intransigenza candida di un ventenne di fronte all’impossibilità di fare quello che più desidera al mondo. Come a dire: se non ha più il senso che deve avere, che cosa lo faccio a fare?
Non sono un politico, un tecnico della cultura, o un operatore. Io, fondamentalmente, sono un artista. So tenere conto di tutti gli aspetti pratici e tecnici in base ai quali si stabilisce se sussistano o meno le condizioni materiali per fare un festival, ma il discrimine fondamentale è nell’artista che dice: attenzione, forse ci sono altri orizzonti da frequentare, anche ignoti da far paura, ma bisogna alzare lo sguardo e guardare da un’altra parte, perché altrimenti diventiamo impiegati della cultura, e a me proprio non interessa, non mi muove dentro: sento che non sono nato per fare questo. E sinceramente penso anche che i risultati delle operazioni tecniche, quando pure sono eccellenti rispetto ai parametri scritti sulla carta, siano sempre disastrosi. Se valutiamo i risultati solo dal punto di vista dei numeri forse in certi casi si può parlare di successo, ma per me la valutazione che conta riguarda il come si sia arrivati a quel risultato, a quali motivazioni e passioni abbiano mosso le persone che vi hanno preso parte: a fare la differenza è la partecipazione “da artista” di tutti. Quello che noi volevamo è che le persone venissero in una città storicamente segnata come Volterra che però per alcuni giorni non era più la Volterra di sempre, ma un luogo altro, un luogo ideale che si sovrapponeva alla città reale.
Ignorando per una volta tutta la retorica che abbiamo interiorizzato sulla cultura, pulendoci la bocca dal burocratese da bandi europei, perché secondo te un festival che si occupa di ricerca e sperimentazione è un servizio pubblico che merita fondi della collettività?
Il festival, le manifestazioni artistiche, le “cose culturali” non sono assolutamente niente di per sé. Il fatto che VolterraTeatro abbia maturato una tradizione trentennale, e che una amministrazione ci investa dei soldi ogni anno non ha alcun valore intrinseco. Tutto ciò che viene speso, anche da noi stessi, per giustificare ed esaltare i festival – indotto economico, aumento del turismo eccetera... – secondo me non vale nulla. Ha valore l’idea. L’idea che ci sia un luogo in cui riunire delle sensibilità eccezionali che messe insieme possano mettere in circolo pensieri diversi da quelli ordinari. Si sente parlare di amore per il Festival VolterraTeatro come se il contenitore vuoto avesse un valore a prescindere dall’idea. Ma cosa si ama? Cosa c’è da amare se non ci sono più i principi che gli danno senso? Cosa c’è da amare se è diventato una gara al ribasso? Un festival è uno spazio ideale che ha a che fare con l’uomo, non con le amministrazioni pubbliche, a meno che esse non sposino questo tipo di idee, e che non siano consapevoli del fatto che un festival non serva ad altro che a se stesso, cioè che la cultura, il teatro non servano ad altro che alla cultura e al teatro, cioè all’uomo. Ogni volta che questo obiettivo viene smarrito o messo in discussione, si determinano situazioni che conducono inevitabilmente a un deterioramento e a una fine. Il sostegno economico è fondamentale ma deve essere la conseguenza della convinzione del valore che ha per le persone il poter incontrare uno spazio risicatissimo che nella vita di ogni giorno non abbiamo, uno spazio potenziale. Siamo circondati e soffocati da spazi esistenti e concreti. Quello che si può costruire con un festival è un luogo fragilissimo, delicato, lieve, che se non è compreso semplicemente non esiste. Puoi investire centinaia di migliaia di euro, ma non basterebbe. Un artista si aspetta una condivisione di questo livello rispetto all’idea, non un dispensatore di denaro. Tutti gli altri elementi che si parano intorno all’idea non gli devono interessare. Chi si compromette, chi va a giocare sugli altri tavoli si è perso irrimediabilmente.
Se da un lato sei come un ventenne che insegue visioni utopiche, dall’altro sei sempre estremamente lucido. La tua insofferenza rispetto alle situazioni è esplosa ogni volta nel momento più opportuno, quando invece di un potenziale distruttivo ne ha generato uno creativo. L’insofferenza verso il teatro che avevi intorno ti ha portato a rinchiuderti in un carcere e a fondare la Compagnia della Fortezza, il rischio che la Compagnia rimanesse confinata dentro il carcere e non riconosciuta per l’intrinseco valore artistico ti ha portato a cercare strategie per forzare un sistema rigidissimo e cominciare la stagione delle grandi tournée. Anche adesso stai mettendo un punto a un capitolo per aprirne un altro…
Il mio essere sereno non significa che non mi importi nulla di quello che è stato. Il passato rimane, tutto quello che hai fatto resta, ma io non posso stare fermo. Ed è quello che mi muove: immaginare qual è la prossima mossa per fare di più. Per la prima volta la Compagnia della Fortezza non sarà presentata nell’ambito del festival ma di un progetto nuovo intitolato Hybris. Questo può sicuramente creare sconcerto in chi ci guarda, ma non in me perché è un processo naturale, cui sono arrivato tranquillamente. Come ho spiegato nella lettera io mi rendo disponibile per il futuro qualora dovessero ripresentarsi le condizioni, ma se ci fosse un passo in avanti reale, non un semplice reperimento di qualche risorsa in più. Adesso voglio puntare ancora di più su quello che è stato il cuore di VolterraTeatro, la produzione cardine, il progetto della Fortezza.
La lezione che ne ricavo è che è inutile rimanere attaccati alle cose sterili, bisogna rischiare tutto, con intelligenza, e trovare il modo di rilanciare in direzioni fertili. Siamo già circondati da troppi morti che camminano. Occorre sottrarsi alle logiche di poteri e poterini, perché una fortezza vuota, di per sé, non ha nessun valore.
Del potere io non saprei davvero cosa farmene. Ho bisogno che le cose mi corrispondano dentro. Se questo accade, anche se messo fortemente in difficoltà, posso dare il meglio di me. Ma non posso essere da solo. Il teatro è una questione comunitaria. Il festival era la casa di tutti, non la mia casa privata. Quando ho assunto la direzione esclusiva di VolterraTeatro, nel 1996, ho detto agli artisti che ho invitato le stesse cose che dico in carcere ai miei attori: c’è un posto, adesso, che possiamo abitare, mettiamoci insieme e cerchiamo di farci forza a vicenda per far crescere delle idee. E non era una strategia motivazionale per far venire a Volterra artisti a basso costo, è proprio quello in cui credo e che vorrei vedere sempre accadere, ma perché avvenga c’è bisogno dei cittadini e della politica. Io ho sempre lavorato per creare una comunità di riferimento, perché la mia idea da sola non basta, occorre che ci siano altre persone che la condividano.
Quando invece ci si scontra contro un muro cosa si può fare?
Scontrarsi contro un muro può fare anche bene, perché è importante ricordarsi che cosa c’è fuori, ogni tanto, ma deve essere una eccezione. Per me in genere, considerato anche dove lavoro, le mura sono assolutamente trasparenti, bisogna imparare ad attraversarle, ad aggirarle. Di fronte a ogni muro dobbiamo farci venire un’idea straordinaria. Non bisogna mai farsi ridurre in un angolo, né dalle circostanze né da noi stessi e dai nostri stessi limiti, perché nell’angolo alla fine ci muori. Quando è arrivato l’invito a presentare un preventivo al ribasso per il festival ho intravisto, anche negli occhi dei miei collaboratori, una scintilla, la voglia di investire le nostre vite in qualcosa di sconosciuto ma vivo. A me questo rischio piace molto perché ci mette in gioco, e se governato tira fuori le energie migliori. Come nel nuovo spettacolo ispirato a Borges cui stiamo lavorando, dove i due protagonisti, Lui e Il bambino, si lasciano alle spalle tutta la vita conosciuta per andare verso un luogo che non conoscono, per muovere verso spazi periferici e inesplorati nell’uomo, per frequentare l’infrequentabile. Dove andranno? Non lo so, davvero non lo so, ma proprio questo non sapere niente mi motiva.
Che il cielo esista, anche se il nostro luogo è l’inferno, dice Borges…
Parole di un visionario assoluto. Tu hai i piedi nell’inferno, ma è come se non lo sentissi. Sei consapevole di essere in un posto, ma proietti il tuo sguardo in avanti, senza mai interrompere questo movimento, perché riconoscere che sei all’inferno significa viverci, dargli corpo, credito, e cominciare a credere che quella sia l’unica possibilità che ti è data. È difficile essere così radicali nella nostra misera vita. Io, proprio io, so che potrei non essere capace di sostenere le visioni che mi si formano dentro come artista, posso rincorrerle, mi presto con il mio limitatissimo corpo, con cervello, nervi, sangue, a un pensiero più grande di me, ma non è detto che io riesca, come uomo, a realizzarlo nella mia vita, per me stesso. Ovviamente la mia sfida di sempre è quella di riuscire ad andare sempre il più possibile di pari passo con l’idea.
Ma che consistenza hanno gli ideali su cui stiamo investendo le nostre vite?
Io sono sicuro che non sto sprecando la mia vita, che non sto sbagliando nel rinunciare alle opportunità che ti vengono offerte da quella che viene definita realtà per frequentare spazi ideali. Ma non è vero che decido io, è che non sono in grado di non prestarmi a questa idea. Sono popolato, come tutti, da voci che mi sussurrano: fermati, cosa fai? Ma per fortuna quei sibili malefici sono minoritari.
Credi davvero possibile che uno spettacolo o un festival possano abbassare il volume di queste voci anche negli altri?
Moltissimo! Se non ci credessi quanto ci credo smetterei.