Biennale Danza: la città risvegliata
Occupano lo spazio con levità nella grande sala delle colonne di Ca’ Giustinian. Sulle note del Bolero di Ravel si slanciano a due a due, a tre, soli a scoprire lo spazio, a giravoltare, a creare immagini con leggerezza e farle svanire, proiettati e risucchiati dalla forza magnetica di una porta. Sei bambine e un bambino. Compunti, qualcuno con un indecifrabile sorriso (compiacimento? scherzo? gioco? impegno?).
Cristina Rizzo, Bolero. Photo Akiko Myiakepg
Bolerò di Cristina Rizzo è la prima istantanea che cogliamo dalla Biennale Danza di Venezia diretta da Virgilio Sieni, un vero festival quest’anno, dopo l’esperienza principalmente laboratoriale del College nel giugno 2013. Poi incontriamo in Campo Sant’Angelo un incantato angolo definito Boschetto: due Cappuccetti rosso (Ramona Cuia e Sara Sguotti) si celano tra erba e cespugli di una scenografica macchia tra le pietre. Si imitano, si invidiano, si inseguono, si specchiano l’una nell’altra, con movimenti lenti. Guardano stupite il pubblico.
Fanno guardare il loro smarrimento in quel surrogato di bosco urbano, tradotto in pose intrecciate, in improbabili equilibri, slogamenti e ricami dei due corpi. Fuggono nel “campo”, inquadrandosi tra antiche architetture, trascinandosi sul ponte. La favola calamita, almeno per un attimo, gli occhi dei turisti di passaggio. Una signora araba, che mostra solo gli occhi, tira fuori il tablet e riprende.
Ramona Cuia e Sara Sguotti, Boschetto. Photo Andrea Avezzu
Teatro Malibran: Sabura Teshigawara in Lines danza la sospensione tra la vita e la morte, il flusso delle generazioni sulle note straziate, antiche, dense del violino di Sayaka Shoji, che sembra evocare da un palco avvolto in perenne bruno crepuscolo corpi furiosi, spezzati, irrigiditi verso l’entropia. Al protagonista maschile, nervoso, potente, si associa delicata fino all’evanescenza di figura a china Rihoto Sato, in uno spettacolo che troppo spesso si riavvita sulle proprie spire, per riprendere slancio solo nel finale e vorticare in una sarabanda di lotta contro l’immobilità e il buio.
Sabura Teshigawara, Lines. Photo Akiko Myiakejpg
Biennale Architettura all’Arsenale: nella prima sezione, intitolata Monditalia, peculiarità e orrori del Belpaese da sud a nord, tra vari spezzoni di pellicole cinematografiche, modellini, pannelli esplicativi, fotografie, ambienti scenografati Virgilio Sieni ha voluto sistemare palcoscenici per i workshop della Biennale Danza e per le prove del suo Vangelo secondo Matteo interpretato da professionisti, non vedenti, artigiani, cittadini, persone comuni, con la corale di Carpi e le donne che vivono sotto l’Ilva di Taranto, immigrati africani e filatrici di pomodori di Pezze di Greco.
Si vedrà in tre stazioni, dal 4 al 18 luglio. Intanto incontriamo Giuseppe Comuniello, attore non vedente, tra uno schermo che rimanda sequenze di Nostra signora dei turchi di Carmelo Bene e un altro che proietta Le occasioni di Rosa di Piscitelli. Prima si muove con un lungo cappello a cono da mago; poi traccia una strada tra pupazzetti di plastica, costruendo tra di essi un vero labirinto di sentieri per la sua azione; più tardi lo troveremo intento a esplorare l’equilibrio e gli spostamenti del gesto, incuneato tra varie strutture di sostegno.
Giuseppe Comuniello, Photo Akiko Myiakepg
Alle sue spalle scorre un filmato con due pupari palermitani che muovono i loro eroi di legno fuori dal classico teatrino, facendoli danzare, guardandoli, ascoltandoli, ponendoli a giacere come addormentati, in un muto, emozionante misterioso dialogo amoroso.
Mondo novo
Questi flash credo diano il senso del progetto di Sieni, intitolato Mondo Novo. Si tratta di un festival che non si può guardare con l’attenzione rivolta solo agli spettacoli di richiamo, che pure ci sono. È un laboratorio diffuso, che intende segnare in vari modi la città e risvegliarla. La invade con il gesto, con i corpi, provando a insinuare la difficile arte dell’ascolto, della visione attenta, capace di cogliere non l’oro dell’apparenza ma il lato interno delle cose, i fremiti della vita nascente o carica di memorie. I processi, gli sviluppi, il futuro.
Non a caso inizia e continua con la sezione Vita nova, coreografie per ragazzi dai dieci ai quattrodici anni, sempre commoventi, capaci di sorprendere con la loro fresca profondità che appare insieme studiata e inconsapevole, naturale e giocata. Si confronta con maestri internazionali nella sezione Aperto, con prime assolute o italiane. Invade le piazze con Agorà, coreografie come esiti di laboratori residenziali di media durata.
Vira nella favola con Boschetto e ritorna alla sfida immaginativa con Invenzioni, spettacoli di maestri creati in residenza sulla Laguna. Avvia progetti futuri con Prima Danza e dichiara il proprio interesse a dialoghi non descrittivi con altre arti attraverso i workshop nella mostra di architettura e con la sezione Aura, in cui importanti coreografi traducono e tradiscono famosi quadri veneziani.
Festival patchwork, potremmo definirlo, dove la parola significa qualcosa di più della citazione e della composizione di materiali difformi di memoria postmoderna; supera l’interdisciplinarietà, la multidisciplinarietà, l’indisciplinarietà per riflettere sul gesto come stratigrafia e progetto, come caratteristica che definisce la persona, la sua appartenenza sociale, la sua irriducibile diversità, le sue fragilità, il suo desiderio. Il festival chiede di ascoltare il corpo e il suo movimento, di metterli in relazione con i luoghi per avanzare un’ipotesi inedita, pulsante, di comunità da ricostruire.
Venezia è attraversata nelle sue vene; la creazione coreografica, senza eclettismi, è indagata nella sua storia recente e nelle sue possibilità, in una sua particolare declinazione.
Concentrazione coreografica
“Senza eclettismi” perché la posizione di Sieni è chiara. Non è un caso che il Leone d’oro vada a Steve Paxton, allievo di Merce Cunningham, personalità di ricercatore del movimento e del gesto. La danza di Paxton ha esplorato a fondo la pelle attraverso la contact improvisation; ha fuso, in composizioni di grande rigore fisico e intellettuale, minimalismo, arte povera e postmoderno, come si è visto nell’ancora intenso, sorprendente per certi versi, Bound del 1982, affidato alla reinterpretazione di Jurij Konjar, una serie di quadri staccati, connessi dal senso di stupore per un quotidiano che apre strane porte di astrazione e di deriva immaginativa.
Jurij Konjar, Bound. Photo Nada Zgank
Neppure è un caso che sia insignito del Leone d’argento uno sperimentatore di ritmi, intrecci, trame e trance fisiche come Michele Di Stefano con le sue geografie e antropologie atmosferiche.
Di Stefano, Corderie. Photo Akiko Myiake
Non si vedono video e schermi in scena, se non un televisore rimasto senza immagini nel trash apocalittico di Enzo Cosimi, Sopra di me il diluvio prima trancia, uno sprofondamento tribale tra ossa di plastica e poltrone anni 60 di una figura ermafroditica interpretata con spigolosa generosità da Paola Lattanzi, tra troppo prevedibili nebbie furori e spaesamenti, tra le luci sempre sorprendenti di Gianni Staropoli.
Sopra di me il diluvio. Photo Cosimi
Pochi sono gli oggetti in scena in quello che si vede. Quasi tutto è affidato alla forza costruttiva, immaginativa, gnoseologica dei corpi e dei gesti. Anche la narratività è limitata. Poche didascalie ironiche compaiono nelle creazioni neodada di Burrows e Fargion, suoni sottili (una pianola, un mandolino) e azioni che sembrano mimare qualcosa che abbia a che vedere con il titolo, per esempio nello spettacolo dedicato alla Madonna con bambino e gloria di cherubini rossi di Giovanni Bellini, The Madonna Project.
Si capisce dopo un po’ che l’azione di quell’impassibile Buster Keaton seduto a un tavolino che è Burrows, tutta di scatti e apparentemente funzionali ghirigori di braccia, mani, volto, significa solo la convulsione o la distensione dell’azione stessa. Quando ti sembra di intravedere un’azione di cucina, passa poi a un gesto di fabbrica o a suonare un piano o a scacciare qualcosa o a qualche indecifrabile azione lavorativa o ideogramma, che ti sembra sempre di riconoscere ma che non sapresti ben collocare, in un alfabeto assolutamente inventivo, ironico, decontestualizzante.
Alla coreografia tornano da qualche anno i Kinkaleri con il progetto All!, per una strada solo apparentemente semantica. Inaugurano un alfabeto in cui a ogni lettera corrisponde un gesto. Agendo, si può “parlare”. Insegnano agli spettatori questo codice, che poi però diventa, quando lo eseguono loro, pura danza, che rapisce, che nessuno riesce a tradurre “all’impronta” mentre avviene vorticoso, come pure teoricamente sarebbe possibile fare. Anche qui annullamento della semantica nel momento in cui sembrerebbe si voglia rafforzare.
Sono messi tra parentesi tanta danza e tanto teatro danza anni ottanta, novanta, duemila. Viene accolta la non danza di Jérôme Bel, che da qualche tempo ama lavorare con i non professionisti. La qualità e il risultato però sono molto diversi da quelli che raggiunge Sieni, che sa trarre bellezza dal movimento di persone normali, esaltando i gesti quotidiani, memoriali, trasportandoli in altra dimensione.
L’effetto di Senza titolo e di Mondo Novo di Bel è stridente. Nel primo mette in scena i fallimenti di giovani allievi alle prese con figure del balletto classico (la piroetta, l’equilibrio in punta su un piede), giocando sui tipi fisici, sulle inabilità, in un catalogo felliniano, patetico, a tratti crudele. In Mondo novo, ispirato dall’affresco di Giandomenico Tiepolo rappresentante un baraccone di attrazioni da fiera, costruisce una specie di karaoke di danze: uno dei danzatori-allievi alla volta guida, gli altri imitano come sanno, come possono, danze alla Bollywood, tarantelle siciliane, coreografie da musical fatto in casa su New York, New York… Anche qua si mette in scena il luogo comune, l’inadeguatezza, con un effetto di smontaggio, di rifiuto dello spettacolo, ormai datato, da Bel stesso esplorato in mille modi.
Diverso è il senso del progetto di Sieni: costruire possibilità, aprire spazi, intrecciare diversità, interrompere il flusso del tempo quotidiano per figurare l’utopia di una città disgregata, venduta, che ridiventa polis. Questo è il senso più profondo di questa Biennale, aldilà di episodi più o meno riusciti. Deludente, per esempio, è per lunghezza e ripetitività nel finale Sacré Sacre du Printemps, variazioni su Stravinskij di Laurent Chétouane, esplorazione dell’altro che non viene sacrificato come nel balletto originale, ma viene assorbito con le sue differenze e proprietà, arrivando a un’ultima parte troppo insistita, con la ripetizione didascalica di un appello al pubblico a partecipare alla costruzione di un futuro di accettazione totale delle peculiarità, con una gestualità che sfocia nella mozione retorica.
Se vogliamo individuare, aldilà dei singoli spettacoli, un’altra linea su cui occorre lavorare ancora, è quella dei laboratori: a volte il gesto dei partecipanti viene preso per quello che è, inserito in un contesto che riporta alla poetica del maestro ma che non si adatta (magari solo per brevità del tempo di lavoro) al livello di chi si ha davanti. Sieni, ripeto, agisce diversamente, nei suoi lavori: riesce a far volare signore che si avvicinano al quintale, a recuperare la poesia del gesto carico di esperienza di anziani che hanno lavorato tutta una vita, a scovare sorprendenti profondità e leggerezze nei movimenti di giovanissime allieve di scuole di ballo.
La Biennale Danza, al momento di questa cronaca, è a metà del cammino. È tutta da seguire ancora questa settimana, con Roy Assaf, Raffaella Giordano, Jan Martens, Christian Rizzo, Dewey Dell, Meg Stuart tra gli altri, e ancora tante sorprendenti azioni all’aperto, tra la città che scorre. E poi nelle tre stazioni del Vangelo secondo Matteo, vera opera summa, costruzione di agorà, prefigurazione di quella nuova polis propiziata dall’ascolto delle caratteristiche, delle bellezze e delle fragilità dei corpi, dal lavorio continuo su di sé e con gli altri dell’arte.