Boncinelli e Ferrario: l'animale scontento

24 Luglio 2024

“La versione diffusa fino agli anni cinquanta del Novecento, e a volte ancora oggi perpetrata nei libri di scuola, descrive l’uomo della Preistoria come cacciatore e raccoglitore. In realtà, studi più recenti basati sui resti di ossa umane appartenenti anche a diverse specie del genere Homo hanno dimostrato che per la stragrande maggioranza della nostra storia evolutiva siamo stati più occupati a difenderci dai predatori, che non a predare a nostra volta. Con ogni probabilità, questo continuo sfuggire ha fatto sì che noi fossimo preoccupati, oltre che occupati”.

Non cacciatori e raccoglitori, ma raccoglitori e… cacciati. A volte basta una singola riflessione per confermarci nella scelta di un buon libro da leggere. Al recensore, sarebbe sufficiente quella appena riportata per consigliare con convinzione la lettura de L’ANIMALE INQUIETO. Storia naturale della scontentezza, scritto a quattro mani da Edoardo Boncinelli e Marco Furio Ferrario, e appena pubblicato da il Saggiatore. Dopodiché, di ragioni e riflessioni ce ne sono ben di più. Ne anticipiamo un’altra, di stretta attualità “social”.

“Di solito le teorie del complotto si presentano come elaborazioni piuttosto complicate, probabilmente per una convergenza degli effetti opposti del sapere e dell’ignoranza. Per generare la sensazione di piacere legata alla comprensione di qualcosa, queste teorie hanno cioè bisogno di simulare lo sforzo che solitamente il processo di capire richiede: devono dunque essere complicate, ovvero composte di tanti parti singolarmente semplici da capire. Non possono essere complesse, cioè essere davvero difficili da capire, poiché altrimenti verrebbero meno al loro scopo. Devono risolvere la sensazione spiacevolissima, avvertita da chi si rivolge loro, di avere a che fare con l’ignoto, e lo fanno offrendo una spiegazione sistematica, iscritta in un quadro apparentemente perfetto e completo. Poco importa se ciò avviene a discapito non solo della consistenza, ma anche della semplice ragionevolezza del sistema: i complottisti mancano del tutto di senso del ridicolo, anche perché per poter fare ironia è necessaria una certa indeterminazione tra segno e significato – ma del resto il complottista è proprio colui per il quale il terrore dell’indeterminato diventa quasi patologico”. Fine delle anticipazioni. Che già giustificano il passaggio in libreria.

Se è vero che gli esseri umani non chiedono tanto, chiedono di più, siamo tutti un poco scontenti e questo L’animale inquieto, è una “morfologia della scontentezza, dalle sue origini ai suoi effetti sulle attività umane collettive e individuali”. Partire dalle definizioni è sempre una buona pratica. Per scontentezza si può intendere la “mancata realizzazione delle aspettative” che deriva dalla capacità di confrontare il presente con qualcos’altro, che può essere un presente diverso da quello di cui si fa esperienza, il passato conservato nella memoria, il futuro nascosto in sempre nuove aspettative. Per comprendere la nostra natura inquieta, bisogna interrogarsi sul senso di inadeguatezza, su quello di colpa per non essere stati all’altezza, sul narcisismo, il delirio di onnipotenza e il senso d’inferiorità.

Al centro della riflessione di Boncinelli e Ferrario c’è l’evidenza per cui se percezione, memoria, elaborazione e previsione costituiscono quelle che si definiscono le colonne portanti di ogni esperienza vivente, nella nostra specie vi è un’estensione di questi domini che è incommensurabile rispetto a qualsiasi altro essere vivente. Noi possiamo memorizzare un passato estremamente remoto e immaginare un futuro sempre più lontano. Il nome che gli autori danno a questa capacità è: estensione del dominio temporale. Dimensione alla quale si aggiunge quella dello spazio. L’estensione del dominio spazio-temporale è la potenzialità che ci distingue dal resto della natura. Ed è quella che ci rende consapevoli della finitudine, della limitatezza del nostro orizzonte temporale: la nostra eterna inquietudine e la conseguente scontentezza, partono da qui. Se altre forme di vita hanno un dominio di questa estensione piuttosto limitato, è difficile e molto meno frequente quello che per noi è l’incessante atto di “confronto” tra quello che è stato e quello che è/sarebbe potuto essere/potrà diventare. La scontentezza è proporzionale al numero di confronti, a tutte le volte in cui ci capita di avvertire l’insoddisfazione conseguente la mancata realizzazione di ciò che era lecito o sperabile ci attendessimo.

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È la scontentezza derivante dal simbolico, dalla acquisita capacità di astrazione. Che però, ovviamente, ha anche i suoi lati positivi. L’inquietudine, vissuta al meglio, funziona da pungolo verso il costante miglioramento, ci spinge sempre a cercare qualcosa di più. Vero è che rischiamo di “finire vittime delle nostre stesse astrazioni”, ma è così che viviamo. E la declinazione virtuosa consiste nel rimodellare il mondo materiale per adattarlo al nuovo concetto di finalità con cui ci siamo co-evoluti.

Il vantaggio di libri ben scritti – perché pensati meglio – come quello che consigliamo al lettore, dipende dalla capacità euristica di un concetto che, insieme ad altri, permette una ricapitolazione della storia naturale: sono testi inerentemente divulgativi, grazie ai quali ripartiamo dall’alba della vita arrivando all’inquietudine – a questo punto meglio tollerata – della nostra. Dopo le preliminari definizioni, infatti, gli autori ripercorrono le radici biologiche e quelle culturali della scontentezza, altrimenti detta ansia, spleen, agitazione, tedio esistenziale. Si parla di Stato, di Giustizia, di Economia e Mercati, di Informazione e Democrazia, di Salute, Diritti e Ricchezza, di Guerra e altri mali. Ci sono, letteralmente, centinaia di citazioni, che anche a leggere quelle sole, già se ne ricaverebbe conoscenza aggiunta e piacere della lettura. (“Sono nato senza chiederlo, e morirò senza volerlo. Almeno lasciatemi vivere come desidero”: attribuita a Jim Morrison). C’è anche un bonus track, alla “Parte nona”.

E ci sono suggerimenti e strategie per superare la scontentezza. In fondo lo stress di cui parliamo spesso, anche in conversazioni da bar sport, potrebbe avere una valenza positiva: “la scontentezza potrebbe essere una funzione di ordine superiore sistemica ed emotiva, utile a prevenire degenerazioni estreme di stress in patologie. Essa ci spingerebbe all’azione prima che le condizioni di contorno generino circoli viziosi, come dire: meglio il cambiamento della stasi!”. Come ci confrontiamo con la scontentezza? A volte con “distrazioni endogene e esogene”, ovvero: immaginazione, droghe e altre rimozioni. Spesso facendo leva sull’“effetto contesto”, che è il modo più corretto di intendere, sulla scorta degli straordinari studi di Fabrizio Benedetti, ciò che comunemente s’intende con placebo. E siccome i rapporti sociali si sviluppano all’incrocio/intreccio tra biologia, biografia e comunità, l’accudimento – che poi possiamo nominare come amore, amicizia, cura – può essere di fenomenale importanza nello spostare il peso della scontentezza dalla funzione di sofferenza a quella di motore di una possibile evoluzione positiva. Si tratta, in alcuni momenti dell’esistenza, di “viaggiare di bolina” facendo tesoro della conoscenza, e dell’arguzia, per volgere il vento contrario in forza propulsiva. Ci si può appoggiare a pratiche meditative, più tipiche delle filosofie e dei modi di esistenza orientali, che non a caso provano a riportarci nel “qui e ora”, riassorbendo quell’estensione spazio-temporale che, abbiamo visto, è alla base della nostra inquietudine. Fa capolino anche David Foster Wallace, la cui parabola di vita potrebbe sembrare di poca o discutibile ispirazione, ma che nella sua prolusione al Kenyon Collge dell’Ohio, il 21 Maggio 2005, suggeriva come non farsi cambiare da tutto ciò che non si può cambiare: “Imparare a pensare significa in realtà imparare a esercitare un certo controllo su come e cosa pensare. Significa essere abbastanza coscienti e consapevoli da scegliere a che cosa prestare attenzione e scegliere come costruire il significato dell’esperienza […] E sostengo che questo è ciò che dovrebbe essere il valore reale, senza stronzate, dell’educazione: come evitare di vivere la vita adulta […] da morti, privi di sensi, schiavi della propria testa e della propria impostazione predefinita”. 

Tradotto: quante volte pensiamo e agiamo come fossimo una versione di Chat-GPT? 

La felicità – ammoniva Totò, in un’intervista a Oriana Fallaci – è fatta di attimi di dimenticanza. E nell’accorciare la distanza tra aspettative e vissuto, in parte promessa dallo sviluppo delle realtà virtuali, può nascondersi qualche estensione imprevista, una possibilità di comprensione “altra”, ancorché difficilmente spiegabile: “Forse i paradossi quantistici e i misteri dell’universo saranno sì compresi dall’intelligenza artificiale, libera dai limiti biologici del nostro cervello. Occorre però domandarsi: questa riuscirà a spiegarceli?”. Quello che è certo, per gli autori, è che la realtà virtuale costituirà un ponte tra il desiderio e la realtà materiale.

Nelle Critica del Giudizio – ricordano Boncinelli e Ferrario – Kant associa l’umorismo e l’ironia al piacere che la nostra mente deriva dal sentirsi capace di superare la contraddizione tra un’aspettativa e la realtà che la disattende. L’ironia, non il riso, quello che Eco, per bocca di Guglielmo da Baskerville, considera “proprio dell’uomo”. Non lo è: la risata è propria di molte altre specie. Il riso è una forma di comunicazione universale, l’ironia, invece, una strategia culturale, un grooming a distanza: è l’invenzione dell’accudimento, è la controparte della scontentezza, la capacità di sorridere delle contraddizioni. Se nell’antica Grecia, la tragedia era la rilettura del mito in cerca di assoluto, e la commedia era l’ironia della nascente politica, nel dramma tragicomico c’è il passaggio costruttivo dal ridere di qualcuno al ridere con qualcuno: “l’ironia è paradossale e la vita, che è un paradosso, andrebbe sempre persa con ironia”.  Nella conclusione, gli autori azzardano una conseguente metafora: “possiamo dire che la vita è un grande motore i cui pistoni sono mossi allo scoppio della scontentezza. Ma nessun motore può funzionare senza l’olio […] Se la scontentezza è il nostro carburante, l’olio motore lo possiamo trovare nell’ironia”.

Molti anni fa, a metà circa di un intervento di Remo Bodei previsto nel programma di una edizione di Spoletoscienza, un inquieto Dado Boncinelli, al solito teatralmente ruvido e borbottante, si avvicinò al mio orecchio sussurrando: “Io, quando parla Remo, imparo sempre qualcosa”. Negli ultimi anni, qualche volta mi è venuto di pensare che “Dado”, il professor Edoardo Boncinelli, avesse pubblicato qualche libro di troppo. Mi sbagliavo. Ogni volta che Dado scrive un libro, c’è sempre qualcosa da imparare. È un Maestro. In circolazione non ce ne sono tantissimi. E che Marco Furio Ferrario, da ex allievo, lo possa già affiancare come co-autore, è una bella notizia e una promessa di cui essere più che contenti.

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