Capitolo terzo
Massimo, così si presenta il renaiolo, tracima in una tiritera che ripercorre la storia cittadina. Scaltro, usa lo strumento ruffiano dei ponti che stiamo attraversando, o attraverseremo, come segnalibri.
Ecco il Ponte Santa Trinita. E tira giù aneddoti dalle spallette.
Fiorisce intanto ai lati il luccichio degli apparati elettronici. Una brigata così scomposta merita forse l’obbiettivo di qualcuno.
Lui rispolvera la vita acquatica dei fiorentini d’antan. Intensa, coatta alle necessità. Da subito, nelle sue parole, i fiorentini si mascherano come da indù di un Gange per abluzioni da farsa ottocentesca. Molto adatto alla mia danese. Che bascula da una parte all’altra della barca, rischiando di rovesciare tutto.
Mi volto verso il ponte. Noto lo svenire avventato degli studenti sul muricciolo, un bikini che si sporge cadaverico, un parasole metallizzato. Chi sta oggi fuori dai ponti non esiste, viene spazzato via dalla visuale. I palazzi, quelli, si alleggeriscono, la città: due fogli immobili al vento, che ci contengono, una possibilità.
Traducimi, dai, mi fa Massimo, con sgarbo.
Traducimi, per la bella signora, dai.
Bercia dal fondo della barca, e rema. M’ha visto giovane, “imparata”, pensa che per me la traduzione a un’ipotetica lingua universale forestiera sia come portare calzini di spugna sotto gli stivali, qualcosa di connaturato all’età. Come per lui la seduzione da gigione. Quando gli parlo, mi risponde per interiezioni, pare sordo - la mossa della sordità l’ho vista fare per spocchia a molti anziani.
E dunque, bella mia – ed io traduco – i tedeschi avevan bombardato (: sospira.) E la testa della Primavera lì, della statua di Santa Trinita, non si trovava, spezzata dal cannone (: simula scoramento.) Finita nelle profondità. Finché, un bel giorno, era il ‘61, un renaiolo… (: si sorprende come un clown.)
Francesco Natali, Narrarno
Rivolti alla statua, cerchiamo quella venatura, il taglio della decollazione. È una modella divina sfregiata in un incidente stradale, immalinconita a vita. La mia traduzione perde subito accoratezza, diventa sciapa, il caldo mi svoglia. È la mia testa, decollata, che si raffredda, sviene nel fondale del fiume. Lì sotto vede forse, cieca nel marmo, gli oggetti della mia vita passata, l’amarcord da pre-esiliata in UK.
La danese, gli zigomi ritti, assolati, assorti, non mi ascolta, sorride a Massimo tipo vecchia fiamma, un misto di pietà e piacere. Confronta le rughe strizzate di lui con le crepe, i dettagli dei ponti: le arcate, i pignoni, dove, dice il renaiolo, c’erano persino delle cappelle per pregare.
Una città con troppi ponti, così mi aveva detto Andrea, al nostro primo crepuscolo fluviale.
Teneva i piedi nudi in una flora sommersa nel fiume, che pareva un ricordo ebbro infestato di zanzare, un pediluvio mnemonico. Io rincorrevo il cane di un’amica, sua balia. Quello l’aveva presa in pieno nella corsa.
Una città con troppi ponti, per questo una città di tante solitudini, aggiunge. Se non ci fossero i ponti, la gente si sforzerebbe di più.
Immagino che tu non sia di qui, le dico. Ma hai inteso un po’ un punto.
Il cane tira verso l’acqua, attratto da quell’alga cerebrale. Io stringo il guinzaglio per non rischiare che mi si tuffi giù.
Sono di passaggio, mi mormora Andrea, vado verso quel grande raduno autunnale in Austria, che, saprai, non si può perdere. Ho deciso di fermarmi un po’, a prendere fiato.
Ha i capelli medusei, il naso un po’ schiacciato da boxeur, la pelle di una chiara mandorla, le sopracciglia tristi da ragazza ebrea. Fa sempre un gesto come a domare un ciuffo invisibile. Non so di quale grande raduno parli.
Francesco Natali, Narrarno
Ognuno sognerebbe il proprio alter ego dell’altra sponda, sbirciando dietro le tende di un palazzo, continua lei.
I colori e i sapori dell’una sarebbero modello dei colori e dei sapori dell’altra.
L’inverno di una sponda sarebbe il refrigerio dell’estate dell’altra.
(Maledetto però il cane che già sguazza in acqua… Grandi urla per recuperarlo... Faccio la figura della cittadina isterica… e fuggo via.)
I giorni seguenti ritorno più volte attratta agli argini. Lei non c’è, o meglio non c’è mai dal mio lato. Sempre saluta, dall’altro lato. Si schiarisce la vista, scosta il ciuffo immaginario. Forse sta giocando. Ma ha ragione, penso: mi dà una gran smania d’incontrarla. Rimango assisa sulla mia sponda, al crepuscolo. Senza i ponti, questa città sarebbe divisa in due. Ma un argine sarebbe il desiderio dell’altro. Alcuna invidia, alcuna prosopopea, alcun cagarsi addosso l’un l’altra. Due storie che si sognano sarebbero meglio che una sola, sebbene inveterata.
Vengo risvegliata da una perentoria fortezza: più di 100 finestre risguardanti, 200 teste inferocite e sudate, un brusio immane, ottuso sopra le nostre teste.
Siamo faccia a faccia col Ponte Vecchio.
Pare pronto a far fuoco, un galeone che incombe sulla nostra piccola imbarcazione anarchica.
Ci abbandoniamo alla battaglia, sicuri della disfatta.
(3 – Continua)
La versione cartacea ed in italiano di questo capitolo è apparsa originariamente questa settimana su «Corriere della Sera - Corriere Fiorentino». La sua traduzione in inglese è di Johanna Bishop.