Cento anni di radio
Lunedì 6 ottobre 1924, ore 21. Gli appassionati della comunicazione senza fili, detti anche “sanfilisti”, intercettarono una voce femminile. Fecero fatica a riconoscerla, anche perché i loro apparecchi ricevevano segnali disturbati da continui rumori e intermittenze. Ad alcuni il tono e il timbro suonarono completamente nuovi. Ciò nonostante, le parole arrivarono più che chiare ai destinatari: “URI. Unione Radiofonica Italiana! Uno, R. O., stazione di Roma, lunghezza d’onda: metri 425. A tutti coloro che sono in ascolto, il nostro saluto e il nostro buonasera”. Era l’annuncio introduttivo del “concerto di inaugurazione della prima stazione radiofonica italiana, per il servizio delle radio audizioni circolari”. Stava per iniziare l’esecuzione di “Haydn dal quartetto opera 7 primo e secondo tempo”.
Per lungo tempo si è creduto che quella voce appartenesse a Maria Luisa Boncompagni, “lettrice e dicitrice” dell’URI. Ma una scoperta fatta nelle teche Rai alla fine degli anni Novanta ci consente di sapere che le cose andarono in maniera diversa. Fu in realtà la violinista Ines Viviani Donarelli a prendere la parola, prima di eseguire in prima persona la partitura del celebre compositore austriaco insieme a tre colleghi. Possono sembrare particolari secondari, ma in realtà sono rivelatori di tendenze più ampie che caratterizzarono l’età aurorale della radiofonia. L’esordio del nuovo medium fu segnato dalla centralità di una figura femminile, ma anche da un’estrema flessibilità dei ruoli: Ines Viviani Donarelli svolgeva anche la funzione di protagonista del programma, in veste di musicista. Sono indizi utili per entrare nelle abitudini di una comunità – quella degli amanti della radiodiffusione – ancora molto piccola, ma entusiasta, animata da spirito pionieristico, curiosa di sperimentare le possibilità offerte da un dispositivo complesso, ancora troppo costoso e difficile da utilizzare.
È trascorso esattamente un secolo da quel giorno e la macchina mediatica della rievocazione si è già messa in moto, con trasmissioni come Cento, Pezzi da cento, o puntate speciali di Techetechetè. L’editoria italiana ha colto l’occasione per celebrare questo anniversario con racconti, memorie, interviste, ristampe, raccolte documentarie (merita una menzione Cent’anni di compagnia di Savino Zaba, pubblicato da Rai Libri, con una prefazione di Renzo Arbore e conclusioni di Claudio Cecchetto). Anche la saggistica ha svolto la sua parte, tenendo in considerazione gli impatti sociali, culturali e politici prodotti dal mezzo radiofonico nell’ultimo secolo. Fra i volumi più interessanti si può di certo annoverare Radiodays. La radio in Italia da Marconi al web (Bologna, Il Mulino, 2024) dello storico Andrea Sangiovanni, che prova a tenere insieme le dimensioni nazionali e globali del fenomeno, analizzando gli incroci fra i progressi tecnico-scientifici, le politiche governative, le richieste del mercato e i bisogni comunicativi concreti delle persone.
Le prime domande importanti riguardano proprio l’invenzione degli apparecchi che consentirono di trasmettere e ricevere i segnali all’inizio del Novecento. L’autore chiarisce fin dalle prime pagine che il contributo dei singoli individui – in primo luogo quello di Gugliemo Marconi – può essere analizzato solo in rapporto a un processo molto più ampio. A essere coinvolta fu un’intera collettività in movimento, capace di procedere per piccoli passi e di affrontare cambiamenti graduali, ridefinendo di volta in volta i suoi obiettivi. Nel progettare il telegrafo senza fili, del resto, lo stesso Marconi aveva in mente una comunicazione di tipo tradizionale, capace di connettere due soggetti distanti l’uno dall’altro, e non indirizzata a una moltitudine. Per diversi anni la stampa specializzata si mostrò scettica di fronte allo spreco di una quantità notevole di energia, con il solo scopo di permettere ad alcuni messaggi di viaggiare “con futile ostinazione verso lo spazio celeste”. I nuovi itinerari della radiofonia furono quindi tracciati grazie agli impulsi di altre invenzioni concomitanti, tipici delle “fasi esplosive” della storia dei media: si pensi ad esempio al fonografo, al grammofono, alla telefonia circolare (usata anche per trasmettere opere teatrali e musica attraverso il telefono), al kinetoscopio e al cinematografo, che perseguivano scopi affini, consentendo la riproduzione meccanica, la conservazione e il consumo di contenuti audio e video, sia negli ambienti domestici che nei luoghi pubblici.
Un’altra questione importante sul piano storiografico è legata alla cronologia: il debutto della radio italiana coincise con la definitiva torsione totalitaria del fascismo. La prima trasmissione dell’Uri arrivò a pochi mesi di distanza dal delitto Matteotti, in un clima ormai avvelenato dalla repressione e dall’uso indiscriminato della violenza. Gli indizi sarebbero sufficienti per ipotizzare la presenza di legami forti fra le trasformazioni politiche e quelle mediatiche, ma non dobbiamo farci tentare dall’idea di giungere a facili conclusioni. Gli studiosi sono ormai concordi nell’affermare che la simultaneità fu casuale, lontana da qualsiasi pianificazione. Per dirla tutta, Mussolini era piuttosto diffidente verso i nuovi apparati tecnologici e non riconobbe, almeno nell’immediato, i benefici che potevano derivarne per il regime.
Il governo fascista – lo ha notato anche Peppino Ortoleva (Media-storie, Roma, Viella, 2020) – ereditò dalle epoche precedenti diverse innovazioni tecnologiche riguardanti “la vita dei suoni, il loro distaccarsi dalle fonti originarie per fissarsi su nuovi supporti o per propagarsi attraverso lo spazio”. Tuttavia la persistente incertezza sull’affidabilità dei dispositivi contribuì a fare in modo che la fiducia nella radio rimanesse limitata per tutti gli anni Venti. L’intenzione di centralizzare le competenze sull’elaborazione e trasmissione dei contenuti cominciò a palesarsi nel 1927, con l’istituzione dell’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche (Eiar), intenzionato a raggiungere un pubblico molto più ampio. Ma solo nel corso del decennio successivo furono riconosciute le potenzialità culturali e politiche del nuovo mezzo di comunicazione, che si mostrava utile per coniugare propaganda e intrattenimento.
A metà degli anni Trenta nacquero i primi grandi successi radiofonici, come il “radioromanzo comico” intitolato I quattro moschettieri, scritto da Angelo Nizza e Riccardo Morbelli, fondato su un sapiente incrocio fra suggestioni letterarie, cinematografiche e teatrali. La trasmissione mostrò una notevole capacità di incidere sull’intero paesaggio mediale italiano: oltre a interagire con altre figure iconiche dell’immaginario letterario come Sherlock Holmes, Sandokan e Tarzan, i moschettieri resi celebri da Alexandre Dumas invasero giornali, album di figurine, libri e dischi. Meno trionfali furono i percorsi dell’informazione. Se da un lato il regime investì parecchio nella formazione di nuove professionalità (risale ad esempio al 1936 la nascita del Centro di Preparazione Radiofonica per la formazione artistica e tecnica del personale), dall’altro lato il pubblico rimase tiepido verso le trasmissioni di contenuto politico. Significativi sono i risultati di un sondaggio dell’Eiar completato nel 1940: senza farsi intimorire dal controllo delle autorità, gli ascoltatori palesarono uno scarso interesse per le cronache e i commenti dei fatti del giorno, orientando le loro preferenze verso i drammi, la musica leggera o l’opera. In sostanza, la “coscienza radiofonica nazionale” si sviluppava anche in maniera autonoma, non riducendosi a essere un puro riflesso delle scelte del governo fascista.
Una fluidità addirittura maggiore – lo spiega in maniera eloquente Andrea Sangiovanni in Radiodays, facendo leva su una ricca tradizione di studi – caratterizzò l’uso della radio durante la seconda guerra mondiale. Nonostante le strategie belliche fossero connesse in maniera stretta agli sviluppi della comunicazione e alla diffusione delle notizie, le iniziative prodotte all’interno del corpo sociale riuscirono a giocare un ruolo importante. Mettendosi in ascolto, le persone speravano di conservare una forma di contatto con padri, figli e fratelli dispersi sui vari fronti. Si diffuse in maniera capillare l’abitudine a sintonizzarsi su emittenti clandestine. Coscienti dei cambiamenti in corso, gli stessi poteri politici cominciarono a praticare giochi di simulazione per influenzare le popolazioni, provando talvolta a prendere la parola al posto dei nemici e a condizionare i loro canali informativi (“black broadcasting”). Le pressioni volte a riaccendere la voglia di combattere, comunque, non riuscirono a offuscare un desiderio che, fra tutti gli altri, conservava il suo primato fra il pubblico: ascoltare notizie sulla fine del conflitto (nel brano Avrai del 1982, Claudio Baglioni avrebbe mostrato la persistente vitalità di questa idea, augurando al figlio appena nato di avere una radio “per sentire che la guerra è finita”).
Le trasformazioni degli anni successivi furono tumultuose. In un quadro normativo ancora in piena evoluzione e segnato dall’esigenza di garantire un’informazione pluralista (la Rai consolidò la sua struttura fra il 1944 e il 1954, raccogliendo l’eredità dell’Eiar), lo sport e lo spettacolo conquistarono un’attenzione mai avuta prima. Milioni di italiani si fermarono ad ascoltare le imprese di Coppi e Bartali. Acquisirono popolarità i giochi a premi come Botta e risposta condotto da Silvio Gigli, o le trasmissioni itineranti come Il microfono è vostro di Nunzio Filogamo, che faceva tappa in diverse città italiane per raccogliere le esibizioni di cantanti, musicisti o attori dilettanti.
Fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, la musica raggiunse le 6000 ore di trasmissione, approfittando anche degli avanzamenti dell’industria discografica e della popolarità del Festival di Sanremo, insieme a grandi eventi itineranti come il Cantagiro. Le tre emittenti di Stato si concentrarono su specifici campi di azione, andandosi a occupare rispettivamente di informazione, intrattenimento e cultura alta. La forza crescente della televisione stimolò sostanziose riorganizzazioni dei palinsesti: la radio cominciò a dirigere le sue mire verso gli spazi lasciati vuoti dal piccolo schermo, cercando di intercettare anche ascoltatori distratti e occasionali, che erano impegnati in altre faccende o si spostavano in auto da un luogo all’altro.
Già fra il 1968 e il 1969 si intravidero i segni di un cambiamento radicale del mezzo radiofonico e dell’intero paesaggio mediatico. I concerti dell’isola di Wight e il celebre raduno di Woodstock andarono oltre la semplice dimensione spettacolare: furono giganteschi riti identitari messi in scena da una gioventù che intendeva farsi riconoscere per le sue idee e per i suoi stili di vita, contrapponendosi alle vecchie generazioni e ai loro valori. Da quella stessa voglia di partecipazione presero ispirazione le radio libere, che si moltiplicarono con grande velocità in diversi paesi. Nel Regno Unito queste emittenti cominciarono a trasmettere da navi ormeggiate al di fuori delle acque territoriali e indussero i governanti a imporre nuove regole al mercato (l’atto legislativo più noto è il “Sound Broadcasting Bill”). In Italia la loro fortuna crebbe grazie a un’originale combinazione fra radicamento territoriale, spinte movimentiste e ragioni commerciali. Il cambiamento fu infatti stimolato – lo ha ben chiarito anche Fausto Colombo (Il paese leggero, Roma-Bari, Laterza, 2012) – dal bisogno di organizzare proteste o esprimere dissenso, ma anche dalle crescenti pressioni di operatori privati, desiderosi di sfruttare i nuovi spazi a loro disposizione per fini economici.
Con l’approssimarsi e l’inizio del nuovo millennio, la radio ha attraversato diversi momenti di crisi. In Video killed the radio star (1979), Bruce Wolley e i The Buggles la diedero addirittura per morta, decretando frettolosamente la vittoria di altri mezzi di comunicazione. Non si può negare che la radio sia apparsa, almeno a tratti, pronta ad accettare il suo lento e inesorabile declino. È stata ritratta dal cinema con toni nostalgici, come simbolo di un tempo felice e perduto (come in Radiofreccia di Luciano Ligabue del 1998, Lavorare con lentezza di Guido Chiesa del 2004, I Love Radio Rock di Richard Curtis del 2009). Gli stessi esordi delle “web radio”, attraverso le voci dei loro fondatori, sono stati accostati – con similitudini fin troppo intuitive – alla nascita delle vecchie emittenti libere, ispirate dalla voglia di offrire al pubblico prodotti nuovi o controcorrente, superando i limiti imposti dal sistema politico, economico e mediatico. Nella loro estrema parzialità, queste ricostruzioni hanno finito per occultare le grandi trasformazioni favorite dall’avvento di internet, che hanno toccato l’identità più profonda del medium.
È quindi necessario far emergere con chiarezza un nodo cruciale: le previsioni apocalittiche legate all’ascesa del podcast si sono rivelate in buona parte infondate. La radio è in piena salute e gli scenari futuri appaiono ancora aperti, tutti da disegnare. Le poche coordinate certe che abbiamo a disposizione sono ricavabili dall’osservazione del presente. I programmi sono diventati consumabili anche con l’ascolto asincrono. Gli autori e i produttori hanno sfruttato la possibilità di stringere nuovi rapporti con un pubblico trasversale, non più vincolato dai ritmi imposti dai palinsesti e dalle trasmissioni in diretta. Il baricentro della comunicazione – spiega Andrea Sangiovanni in uno dei passaggi più densi di Radiodays – si è spostato ulteriormente verso le platee di ascoltatori, che hanno potuto sfruttare email, commenti sui social network e messaggi WhatsApp per contribuire alla trasformazione dei contenuti. La radiofonia ha mantenuto una porzione consistente della sua identità e ha saputo adattarsi bene ai cambiamenti tecnologici, dimostrandosi fedele alla sua funzione “interstiziale”, interagendo con gli altri settori dell’industria culturale, andando a riempire con i suoi prodotti gli spazi vuoti del paesaggio mediale. Pur avendo alle spalle una vita molto lunga, la vecchia e cara radio sta dimostrando di avere “ancora tanta strada da fare”.