L’Estate effimera degli anni Ottanta
Risale al 1977 la prima edizione dell’Estate romana, una rassegna di spettacolo e arte ideata dell’assessore Renato Nicolini, già attivo come architetto, con delega alle attività culturali nella giunta di sinistra guidata dallo storico dell’arte Giulio Carlo Argan. Gli intenti sono espliciti fin dalle fasi iniziali, caratterizzate dal bisogno di sperimentare nuove forme di coinvolgimento della popolazione nella vita urbana. Nicolini intende rompere le barriere tradizionali che dividono i contenuti “alti” da quelli popolari, conferendo dignità al concetto stesso di “consumo culturale” e considerandolo come possibile fattore di rinnovamento politico. L’esordio è affidato al cinema: lo schermo si accende all’interno della Basilica di Massenzio il 25 agosto e centinaia di spettatori accorrono per vedere Senso di Luchino Visconti (film uscito nel 1954). L’immediato successo suggerisce all’amministrazione comunale di proseguire sulla stessa strada. Nelle aree monumentali della città e nelle grandi piazze vengono allestite proiezioni di altre famose pellicole, insieme a incontri letterari, spettacoli teatrali e musicali di grande richiamo.
Un corposo libro di Marco Gualtieri – L'Estate romana (1977-1985): la città, la politica, l'effimero (Pacini, 2023) – ricostruisce oggi le principali tappe di questa avventura, che sposta l’attenzione dei media e dei partiti sul rapporto fra culture politiche e bisogni delle masse, offrendo alle amministrazioni locali italiane nuove potenziali “fonti di consenso e legittimazione”. In un’epoca di “feroce dislocazione abitativa imposta alle fasce di reddito più fragili”, l’Estate romana prova a invertire la rotta e a ricomporre un tessuto urbano “frantumato e disomogeneo”. Mettendo da parte i modelli pedagogici protesi verso l’indottrinamento del pubblico, la rassegna cerca di superare “la separazione fra spettatore comune e spettatore colto”, valorizzando la “libertà dell’esperienza personale” nella fruizione dei contenuti.
Renato Nicolini costruisce la sua ascesa politica muovendosi nei dintorni del Partito Comunista, ma restando fuori dalla consueta vita d’apparato. Come altri militanti della sua generazione, può contare su una formazione poliedrica, costruita su consumi mediali di diverso tipo, che spaziano dal cinema al teatro, dalla poesia ai romanzi di fantascienza, dai fumetti alla televisione. Comprende l’importanza assegnata dalla nuova economia post-fordista al tempo libero e all’intrattenimento, tanto prorompente da mettere talvolta in secondo piano l’impegno profuso nel lavoro. E guarda con interesse al movimento del 1977, ai linguaggi delle radio libere, alla “felicità sovversiva” degli indiani metropolitani, fino a intercettare – almeno negli intenti – la loro domanda di immediatezza espressiva, con la speranza di poterla orientare “verso un percorso di istituzionalizzazione”.
Questi impulsi danno vita a un evento che cresce di anno in anno, coniugando eclettismo e gigantismo. Si moltiplicano gli schermi, i palchi e gli allestimenti. La dimensione codificata del festival culturale è attraversata da “un’aria da festa popolare”, che autorizza il pubblico a manifestare apertamente la sua felicità di fronte allo sguardo curioso dei media, nella consapevolezza di essere parte integrante dello spettacolo. Ci sono tv, radio, personaggi famosi e giornali di ogni tipo, dal “Manifesto” a “Novella 2000”. Noti cineasti come Sergio Leone e Bernardo Bertolucci manifestano la loro sorpresa di fronte al successo dell’iniziativa. Lo stesso Nicolini si compiace dei risultati raggiunti, sottolineando l’importanza del “contagio” che consente l’incontro fra persone molto diverse fra loro, per abitudine ed estrazione sociale: i giovani con lo spinello si godono gli eventi accanto alle tipiche famiglie romane “con plaid, nonni, ragazzini, pentole di pasta, sfilatini con la frittata e fiaschi di vino”.
Proprio gli impulsi partecipativi assumono un ruolo cruciale nel progetto dell’Estate romana, che intende allontanarsi dalle dinamiche puramente trasmissive che caratterizzano la “festivalizzazione” delle grandi città occidentali. La rassegna – il libro di Marco Gualtieri lo mette bene in rilievo – intende valorizzare le capacità degli individui di costruirsi percorsi creativi all’interno di un magma di contenuti disordinati, privi di una coerenza intrinseca o di senso unificante, anche a rischio di sembrare il frutto di una giustapposizione casuale. La messa in scena convive con forme di appropriazione spontanee, indisciplinate, per niente inclini a obbedire a regole precostituite. Molti critici evidenziano l’intenzione della giunta capitolina di sedare la violenza urbana degli anni Settanta, cercando un’alternativa efficace all’uso conflittuale dello spazio urbano. È tuttavia evidente la presa di distanza da qualsiasi velleità disciplinante, almeno nelle prime edizioni: la nuova strutturazione dello spazio non è pensata per dare ordine, ma per “organizzare i modi in cui le forme culturali si propongono agli spettatori”, in modo da riuscire a “socializzare l’immaginario”. In altre parole, si tiene in considerazione la possibilità che i partecipanti seguano traiettorie impreviste e siano pronti a fermarsi in luoghi inaspettati, a interagire con gli artisti o con gli altri spettatori.
Uno dei momenti più significativi della fase asimmetrica, e forse anche più creativa, delle Estati romane è il Festival internazionale dei poeti che si svolge sulla spiaggia libera di Castelporziano dal 28 al 30 giugno del 1979, organizzato da Ulisse Benedetti, Simone Carella e Franco Cordelli, col sostegno dell’assessorato di Nicolini. Sono previsti interventi di grandi personalità letterarie italiane e straniere, ma il palinsesto, per quanto privo di rigidità, finisce per essere sconvolto da un clima di caos. Dario Bellezza litiga con il pubblico, Dacia Maraini abbandona il microfono in lacrime, tanti giovani provano a occupare la scena per recitare i loro versi. Solo la presenza di alcune stelle della “beat generation” come Allen Ginsberg e Lawrence Ferlinghetti riesce a placare gli animi. Ma è una calma apparente. A prevalere è il desiderio di prendere la parola e di catturare l’attenzione dei presenti. L’epilogo dell’evento è carico di valore simbolico: il palco collassa sulla sabbia, non potendo più sostenere il peso delle persone che vogliono calcarlo.
L’ingresso negli anni Ottanta segna una svolta per l’Estate romana, come per l’intera società italiana. La manifestazione assume dimensioni faraoniche, perdendo alcuni tratti distintivi della sua ispirazione iniziale. Grazie alla moltiplicazione dei punti di proiezione, che accolgono pellicole hollywoodiane, cartoni animati giapponesi, o retrospettive sulle commedie prodotte nella penisola da famosi cineasti. Le radio e le televisioni private influenzano lo spettacolo grazie alla forza dei loro modelli di consumo culturale, orientati a catturare consenso per massimizzare i profitti della raccolta pubblicitaria. Il grande cambiamento in corso trova una sua sintesi nella formula giornalistica del “riflusso”: un “dispositivo analitico” – così lo definisce Marco Gualtieri – che costruisce la “cornice interpretativa di un passaggio difficile, […] sbrigativamente racchiuso nell’immagine di un affannoso ripiegamento nel sé e nei problemi del quotidiano, nella rincorsa all’individualismo e all’affermazione sociale al di fuori dei circuiti della mobilitazione politica e delle sue tensioni idealistiche”. Lo stesso spazio dedicato ai letterati cambia pelle in modo radicale. L’ormai famoso Pier Vittorio Tondelli, reduce dal successo di Altri libertini (1980), racconta in una sua cronaca l’esibizione degli scrittori come “un dopocena letterario”, “un dessert culturale a sorpresa”.
Anche il calcio fa irruzione nella rassegna con la coppa del mondo giocata in Spagna nel 1982, che regala un inaspettato trionfo alla squadra italiana guidata da Enzo Bearzot. Il pubblico dell’Estate romana si raduna davanti agli schermi per le partite degli azzurri e si trattiene per intere notti a festeggiare, occupando le stesse piazze che nell’epoca precedente erano stati scenari di violenze e conflitti. Il “Corriere della Sera” celebra “l’effimero” – un termine chiave per descrivere i programmi di Nicolini – innalzandolo a segno linguistico dei nuovi tempi (17 luglio 1982). Nello stesso periodo, si moltiplicano gli spazi dedicati al cibo esotico, alla cura del corpo e al benessere fisico. Prendono vita incontri di ballo che sfruttano il successo di Saturday Night Fever. E si inaugurano surreali rassegne celebrative dedicate a “Quegli indimenticabili, inarrivabili, interminabili anni Ottanta” (1983). Un’epoca ancora agli inizi si proietta verso uno “scatenamento revivalistico” che appare già come “ultima spiaggia emotiva” per una produzione che, non volendo rischiare con nuovi contenuti, preferisce rassicurare il pubblico con il “già visto”.
Le reazioni politiche a questi sviluppi sono significative e il libro di Marco Gualtieri le analizza nel dettaglio. Il Partito Comunista è costretto ad abbandonare i richiami all’austerità. Il timore di cadere nelle imposizioni pedagogiche raccontate in film come Il secondo tragico Fantozzi (1976) – con il “fanatico cultore” impegnato a imporre pellicole sofisticate a chi vorrebbe godersi una partita di calcio – raggiunge ormai anche i militanti tradizionalisti, che cominciano a dare ascolto ai più giovani e si convincono a prendere le distanze dai sentieri paludati del lavoro accademico, aprendosi ai consumi culturali delle masse. Dal canto suo, la Democrazia Cristiana critica un “trionfo del consumo” che dimentica il consumatore, spesso incapace di sviluppare una comprensione adeguata dei contenuti. L’estrema destra denuncia l’aggressione al decoro cittadino, descrivendo i frequentatori delle notti effimere come “poco virili, effeminati, di dubbia moralità”. Ma anche socialisti e repubblicani abbracciano posizioni critiche, sottolineando l’incapacità politica di guidare i flussi di spettatori o la necessità di sviluppare strategie politiche lungimiranti, volte a favorire l’occupazione giovanile nel campo dell’industria della cultura e dell’intrattenimento.
Perplessità forti emergono anche fra gli intellettuali, che sentono venir meno la loro “capacità di mediazione […] tra pubblico e opere”, sentendosi sempre più confinati “nel perimetro dei domini specialistici”. Carmelo Bene esprime senza remore il suo dissenso, parlando di un “vuoto generale che si cerca di colmare col foulard del festaiolo”. Alberto Arbasino riduce l’Estate romana a una mera riproposizione della vecchia formula della “festa-consenso”, mai cambiata attraverso i secoli. Più indulgente è invece il giudizio di Umberto Eco, che apprezza il superamento della tradizionale dicotomia fra autonomia e organizzazione, leggendo la rassegna come un tentativo di assorbire le creatività conflittuali del 1977. Altrettanto rilevante è la posizione di Beniamino Placido, che saluta con sollievo l’evoluzione di una città aperta alla bellezza, non più condannata “alla ferocia, alla diffidenza, al sospetto”.
Le perplessità e le critiche aperte forniscono ulteriori motivazioni a Renato Nicolini, che anche nella fase di irrigidimento e declino si trova a difendere con determinazione la sua creatura, descrivendola non come un mero adattamento ai cambiamenti in corso, ma come un progetto di natura trasformativa. La stessa storia italiana – afferma l’ideatore dell’Estate romana, costruendo una vera e propria apologia del suo operato – può essere riscritta prestando la dovuta attenzione a tappe fondamentali della parabola della grande industria mediatica, come la prima messa in onda di Lascia o raddoppia?, il primo numero di “Linus”, Italia-Germania 4-3, la prima puntata radiofonica di Alto Gradimento, la rottura del monopolio Rai, l’arrivo di Oreste De Buono alla guida del “Giallo” di Mondadori, e forse anche la proiezione di Senso alla Basilica di Massenzio o il Festival di Castelporziano.
Con aperto afflato postmodernista – il libro di Marco Gualtieri ha il merito di cogliere, fra i tanti, questo nodo cruciale – l’assessore capitolino non si limita a sottolineare l’importanza dei consumi culturali popolari, ma guarda al rapporto che lega il prodotto mediale al mondo reale. Si chiede quanto il cinema, la musica, il teatro, la letteratura, la fotografia, il fumetto, la radio, la televisione possano dire di un’epoca che continua a risultare sfuggente agli occhi di chi prova ad analizzarla. E rileva, di conseguenza, il bisogno di costruire una nuova “storia della cultura”, fondata su abitudini e costumi divergenti, lontani dai riconoscimenti ufficiali, privi di coordinate precise o di ideali di riferimento. A venir meno, nella prospettiva di Nicolini, è l’idea stessa della “politica come totalità, come una ragione della vita” (riprendiamo alcune sue dichiarazioni rilasciate a “Panorama” nel 1984), insieme alla possibilità concreta di costruire attraverso il discorso politico-culturale “interpretazioni organiche della società”. La nuova scena – la stessa scena di cui l’Estate romana cerca di farsi interprete – è ormai abitata da “una pluralità confusa, contraddittoria, disomogenea di volontà, di espressioni […], di valori”.
In copertina, fotografia di Slim Aarons.