Che lavoro fanno le startup

21 Febbraio 2014

La diffusione delle startup e dei progetti di innovazione sociale, unita alla narrativa entusiasta che ne accompagna la crescita, ha determinato l’emergere di un discorso che si articola nei tratti di uno “scarto generazionale” fra un vecchio modo di lavorare, fatto di posto fisso e orari prestabiliti, e un nuovo modo di lavorare, che “imprenditorializza” il lavoratore inducendolo ad essere più indipendente e autonomo. Ma come è fatto questo “nuovo” lavoro? Che tratti ha? Che logiche vivono al suo interno?

 

“Il lavoro non si cerca, si crea”: questo è quel che si sente dire ormai molto spesso, da più parti. E in parte è senz’altro vero, vista la crisi delle istituzioni tradizionali e del lavoro in generale, ormai a brandelli dopo vent’anni di liberismo (nel migliore dei casi) o di niente (nel peggiore dei casi). Istituzioni che hanno risolto il problema che stava covando sotto la cenere partorendo espressioni come “bamboccioni”, guardando il dito invece della Luna. Un portato che si somma all’atavica incapacità del capitalismo italiano (salvo alcune felici eccezioni) di generare lavoro senza l’intervento di mamma-stato a incentivarne le mosse.

E così arriviamo all’oggi, agli sconfortanti dati sulla disoccupazione giovanile e a fenomeni di scoraggiamento come quello dei Neet. È in questo humus che nasce e prolifera il fenomeno startup come iniziativa imprenditoriale che vuole essere anche sociale e culturale, “nuova” in quanto in grado di immaginare un ecosistema socio-economico dove vivere e lavorare secondo regole diverse, basate su un’etica fatta di reti di relazioni, collaborazione e condivisione.

 

Ma cosa sono le startup, nel quotidiano? Sono iniziative e progetti più o meno grandi che nascono spesso su carta e senza una sostenibilità economica , tra i quali solo una minoranza “ce la farà” e diventerà un’impresa o un progetto in grado di creare profitto, generare posti di lavoro e realizzare un impatto sociale sostenibile. Quest’ultima caratteristica è molto importante ma ancora problematica, non esistendo ancora in questo senso né una misura condivisa, né un equivalente di valore. La combinazione di queste logiche rende questo sistema sociale una “economia della reputazione” in quanto è proprio la reputazione che si è capaci di creare nelle “reti giuste”, e quindi la capacità di mobilitare capitale sociale, a trasformare una startup in una impresa vera e propria in grado di attrarre capitale economico e di investimento.

 

Questo quadro induce a dinamiche che portano a lavorare gratis, spesso per molte ore al giorno, eppure felici, dentro una cornice di autosfruttamento che si sovrappone alla condizione precaria che non è contrattuale, ma esistenziale. La quale però, per certi versi sorprendentemente, in questo contesto quasi scompare. Sostituita dalla narrativa dello startupper, che da precario si fa changemaker, agente del cambiamento sociale e culturale.

Coloro i quali guardano dall’esterno questi fenomeni, spesso senza conoscerli, si chiedono: come vivono gli startupper? Quali condizioni di vita e di lavoro li contraddistinguono? Una componente centrale in questo senso è quello che viene chiamato welfare familiare. In questo contesto di autoimprenditorialità e lavoro gratuito, con lo Stato assente ingiustificato nel settore degli ammortizzatori sociali e ancora incapace di comprendere a dovere questi nuovi fenomeni, è spesso la famiglia a esercitare il ruolo di “reddito minimo” configurandosi come l’unica fonte di sostentamento dei nuovi imprenditori.

 

Un altro elemento importante è il sostanziale svuotamento dei luoghi di lavoro tradizionali. Il “nuovo” lavoro ha ormai scelto come luogo prediletto la Rete, tra Twitter e LinkedIn, nei blog e nelle piattaforme dedicate. Riappropriandosi infine della dimensione fisica attraverso gli spazi di coworking, dove le persone, incontrandosi fisicamente, mettono insieme conoscenze e esperienze, generando spesso nuove opportunità e nuove forme di capitale sociale.

In definitiva, nonostante le contraddizioni, le startup sono una speranza. Queste hanno una forte presa laddove agiscono in un contesto in cui la speranza sembra essersi persa da un pezzo, ostruita dalla condizione largamente precaria di una grande fascia di lavoratori, soprattutto giovani, e dalle colpe del legislatore che per due decadi (o forse più?) ha latitato di fronte ai problemi che covavano sotto la cenere, nascondendoli sotto al tappeto per guardare all’oggi (e al consenso elettorale facile) dimenticando il domani. In questo contesto lo startupper si rimbocca le maniche e fa da sé. Anche se, a ben guardare, questo è quello che la tradizione neoliberista voleva che facesse, avendogli sventrato la dimensione collettiva del lavoro da sotto i piedi, non chiamandolo più precario, ma “flessibile”.

 

Il movimento degli startupper genera speranza perché narra una storia diversa, immagina un mondo orizzontale dove i progetti migliori emergono grazie al merito e avranno successo. Un mondo dove l’impresa e il profitto si coniugano con il sociale, e il successo professionale di qualcuno avviene attraverso azioni che contribuiscono al bene comune, colmando una lacuna o contribuendo a risolvere un problema nella società. Anche se poi non è tutto eguale ciò che lo sembra, in quanto è utopistico (e in fondo anche un po’ folle) pensare che quell’orizzontalità non crei nuove inevitabili gerarchie, come quelle della reputazione, che non si vedono ma ci sono. Così da rendere quella condizione di uguaglianza forse di opportunità, non già di condizione.

Ciò che in ogni caso appare evidente è la distanza fra tutto questo mondo, che sebbene contraddittorio porta avanti istanze nuove, e quella politica che dovrebbe essere in grado di dare una visione d’insieme di questi fenomeni, fornendo le condizioni per il loro successo. Ma colpevolmente non lo fa. E quindi, “il lavoro non si cerca, si crea”. E d’un tratto sembra di essere tornati indietro, a prima della rivoluzione industriale.  

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