Coraggio intellettuali, ancora uno sforzo!
Pasolini era un puritano. Il suo riferimento principale non era la società letteraria o intellettuale, i ricchi e i potenti, bensì i poveri, gli oppressi. La sua morte violenta, la notte tra il 1° e il 2 novembre 1975, segna la fine di questo tipo d’intellettuale. I poveri, gli emarginati, come ha scritto Zygmunt Bauman in Il declino degli intellettuali (1987), hanno perso la loro attrattiva in un mondo dominato dalla figura del consumatore. Oggi i poveri si fanno la guerra tra di loro, danno fuoco ai ghetti, danneggiano se stessi con la droga e l’alcool, sono poco attraenti come gli stessi “consumatori in difficoltà” (Bauman). Nessun scrittore, o pensatore, possiede il coraggio della disperazione che animava Pasolini.
L’altro giorno su un giornale italiano campeggiavano le foto di Martin Amis e Ian McEwan. Parlavano di se stessi e della propria vita: due borghesi, forse due piccoli borghesi, ma anche due bravissimi scrittori, che sono intervenuti sull’attualità con scritti saggistici e romanzi. Ma dove era la speranza nelle loro parole? Nessuna loro frase conteneva qualcosa del genere. Del resto, la loro legittimità come intellettuali – lo sono, nonostante tutto – gli deriva da fattori su cui non esercitano nessun controllo: fama, ricchezza, vendite, riconoscimento pubblico. Sono dei super-consumatori in un universo di consumatori generalizzati.
L’avvento del web ha creato una nuova realtà, una doppia realtà. Da un lato, la democrazia della Rete ha spodestato i grandi intellettuali, ha tolto loro importanza in quanto pedagoghi e coscienza critica della società – Pasolini e Sciascia erano questo, e non solo questo. Dall’altro, la Rete cerca in modo spasmodico voci autorevoli, chiede di orientarsi in un mondo postmoderno, o ipermoderno, esploso, dove non c’è più un centro, ma una miriade di centri e sottocentri: il labirinto reticolare della contemporaneità.
Una realtà pulviscolare costituita di nicchie tra di loro non comunicanti. Nessuno possiede più la “teoria” che abbracci tutto lo scibile, che orienti i comportamenti, fissi le mete future dell’umanità. Ci sono i cosiddetti guru. Sono pochi, e sovente il piacere della Rete è quello di schernirli, abbassarli e persino di abbatterli. La parola chiave nel web 2.0 non è più autorevolezza bensì “reputazione”. Tutto diventa opinione, anche l’opinione rispetto a chi ha un’opinione.
L’intellettuale non è scomparso. Non è più un Philosophe, è invece un “esperto” in un mondo dove la tecnologia trionfa su ogni sapere umanistico (e la Tecnica viene confusa con la Scienza). Siamo all’intelligenza della folla; la conoscenza è proprietà della Rete, e non più di un singolo, sia esso Diderot o Hegel, come sostiene David Weinberger in La stanza intelligente. Il sapere è più incerto ma più umano, più instabile ma più trasparente. Allora quale spazio resta agli intellettuali in un mondo pulviscolare, globalizzato, fluttuante? Quello di essere degli interpreti, ovvero di leggere i significati del mondo (oggetti, persone, parole, immagini, idee), leggerlo in modo giusto, perché ci sono interpretazioni giuste e interpretazioni sbagliate. Occorre discernerle.
Nel mondo dei consumatori, come dice Bauman, il compito dell’intellettuale è quello di mediare la comunicazione tra “province delimitate” o “comunità di significato”, tra le realtà che nella Rete pensano in termini di novità e di futuro e che sperimentano comportamenti critici. Non più proclamare la Verità, come nell’epoca dei puritani. Lavoro difficile, faticoso e ingrato. Qualcuno lo dovrà pur fare. Coraggio intellettuali, ancora uno sforzo!
Questo pezzo è apparso in precedenza su La Stampa