L’opera prima di Matilde Vigna / Il senso delle cose
Nel 1951 una donna aggrappata ostinatamente a un albero per giorni, mentre il Po si portava via cose e persone, aveva un senso. E ce lo aveva perché lasciare alla furia dell’acqua la propria terra, le mura di casa, la farina per la polenta, i mobili e la biancheria ricamata a mano ereditati da generazioni e tenuti con cura come e più dell’oro, significava perdere tutto. Allontanarsi da sorelle, fratelli, vicini di casa, disperdendosi in una fuga verso l’ignoto, oltre l’Adige, significava perdere tutto. Settanta anni fa gli oggetti, i luoghi, le relazioni non erano sovrastrutture, erano un destino: tenevano insieme un’identità, una vita. Alla storia di sradicamento forzato di questa donna, nella sua opera prima come autrice e regista, Matilde Vigna ne intreccia un’altra, il racconto di una fuga diversa, attuale, volontaria, in cui la certezza di quel senso delle cose vacilla, perché il destino oggi ha tutta un’altra forma. Lo spettacolo, prodotto da ERT/Teatro Nazionale, s’intitola Una riga nera al piano di sopra, ed è un piccolo gioiello.
In poco meno di un’ora l’attrice, sola in scena nello spazio da camera del Teatro delle Moline di Bologna, racconta due autunni. Quello del 1951, quando la piena del Po rompe gli argini travolgendo il Polesine: e gli uomini tentano di calarsi nell’acqua legati a delle corde “per mettere dei tronchi a puntellare l’argine da sotto”; e tutti, donne, bambini, anziani a portare terra “per fare soprassogli, a mettere le coronelle”, trascinando sacchi di juta riempiti di sabbia; ci provano fino alla fine, ma non basta, perché l’acqua continua a scavare anche sottoterra, travolge animali, persone, case; e allora si sale tutti al piano di sopra, si portano finanche i maiali al piano di sopra, “maiali enormi, al piano di sopra, maiali pesanti, agitati” e poi “cani e gatti abbandonati al piano di sopra, il fieno la legna la farina da polenta, al piano di sopra, i mobili, al piano di sopra”. Si porta su tutto quello che si ha, quello che conta.
Si aspetta, si bestemmia, si prega, si spera. Ma a un certo punto bisogna fuggire, bambini in braccio e anziani in spalla. Migliaia di profughi smistati verso Verona, Ferrara, Montagnana, con un panino al salame, un pacco di vestiti e duemila lire. Famiglie disgregate. Il Polesine distrutto. Ma appena l’acqua torna nel suo letto, si torna indietro per ricostruire abitazioni, ponti, strade, ferrovie, scuole; si alzano gli argini di quattro metri. È il momento di “lavorare, asciugare, dimenticare”, di riprendersi la propria casa. Di case e città l’altra donna del monologo ne ha invece avute tante, nessuna per sempre. L’autunno è quello del 2021, e la giovane in fuga è evidentemente lei, un’artista, una trentenne cool, indipendente, con decine di traslochi alle spalle, appartamenti rigorosamente a un passo dalla stazione dei treni, “che se c’era un appartamento dentro la stazione io prendevo quello”, per essere sempre pronta ad andare.
Lo spettacolo ha una struttura semplice, con passaggi drammaturgici e sonori dolci e sorprendenti tra le due storie che si avvicendano, tenute assieme dalla voce antica, piena di sfumature di Matilde Vigna – particolarmente vivide, emozionanti, quando raccontano il passato, un po’ meno sottili nell’ironia autobiografica che connota i passaggi sul presente. Quello che davvero convince, oltre al fatto che Vigna si conferma attrice strepitosa (d’altronde ha già vinto un Premio Ubu come migliore attrice under 35 nel 2019, e il Premio Duse come attrice emergente nel 2021), è che in questa sua prima prova come autrice, sostenuta dalla Dramaturg Greta Cappelletti, dal bellissimo progetto sonoro di Alessio Foglia e dalle luci di Alice Colla, l’artista evoca con la precisione della poesia un sentimento ambiguo che risuona profondamente in certe generazioni di cui tutti parlano ma di cui pochi sanno veramente qualcosa.
Le generazioni Erasmus, le chiamano, quelle che studiano, leggono, s’interessano del mondo, e continuamente se ne vanno, viaggiano, cambiano vita, hanno amici in tutti i continenti, trascinano bagagli su e giù per treni e aerei, ma non per necessità, per filosofia: la filosofia del volere di più dalla vita, del prendersi tutto quel che c’è da prendersi, del solcare i mari del futuro fantastico che spetta ai coraggiosi, dell’aprirsi all’alterità, agli incontri, all’infinitezza delle opportunità, dei sapori, delle visioni, delle culture. Un paese ci vuole, sintetizzava in modo insuperabile Pavese. Aveva ragione. Lo dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, il fatto stesso che quasi tutti gli artisti e le artiste, anche i più avventurieri, tornano sempre in qualche modo all’esperienza dell’infanzia per attivare la propria creatività. Per adesione o per contrasto, facendo del dialetto la propria lingua di scena, recuperando ricordi, andando a fondo di storie di un passato che neppure conoscono. Ma quanto vale una radice?
Quanto ci imprigiona dentro un destino e quanto invece ci serve per riconoscerci, riposarci dentro un’identità, almeno una, per imprecisa, incompleta che sia, oggi che pure della disidentità abbiamo fatto una filosofia di vita? Quanto è difficile trovare l’impossibile equilibrio tra la necessità di mettersi in viaggio, di andarsene via lontano, fino a cambiare città, Paese e lingua, per prendersi il meglio, vivere esperienze speciali, ribaltare a ogni costo il destino che c’è scritto dentro una terra, un cognome, una storia, un corpo – e il piacere caldo, invece, di sapersi a casa, parte di uno spazio che ci appartiene senza doverlo conquistare, dentro una lingua che ci conosce nelle sfumature più remote, dentro il bene di chi ti conosce da quando sei nato, dentro sapori d’infanzia: che sì, bello e importante provarne mille altri, apprezzare ogni specialità di ogni posto che incontriamo, ma quelli lì di quando si è piccoli, quel pan biscotto secco “duro come la terra del nostro orto, insapore come la polenta”, che piace solo a chi è venuto al mondo in mezzo alla nebbia, per Matilde, nata in provincia di Rovigo, non smetterà mai di essere più buono di qualunque altra cosa. Perché sa di casa.
Nel suo ultimo libro intitolato Le non cose (Einaudi 2022) Byung-Chul Han spiega che il rapporto con gli oggetti, con quello che ci ancora a un’identità, dice molto della (infelice) esistenza contemporanea. Secondo il filosofo coreano, la nostra incapacità di affezionarci autenticamente agli oggetti, di creare un rapporto libidico con le cose del cuore, sarebbe il segno della nostra predilezione per esperienze esotiche, fugaci e superficiali, e dunque della nostra incapacità di legarci a cose e persone, perché nel mondo delle infinite possibilità i legami sono inattuali e “sminuiscono la possibilità di fare esperienza, ovvero la libertà nel senso consumistico del termine”. Han ha in parte ragione, ma le cose non sono così semplici.
In questa fame di esperienze, che comunque, ricordiamolo, ci emancipa dal destino che portiamo scritto sulla nuca, da qualche parte si annida anche un’autentica nostalgia di quella libido, di quei legami eterni. Nell’autunno piovoso del 2021, quando va via per sempre dalla casa in cui viveva col compagno, la trentenne dello spettacolo, esperta di valigie leggere e arredamenti spartani, fa fatica a lasciare ogni cosa, porta via quello che può, finanche le rose secche, le presine e il tappetino del bagno. Forse un momento dopo anche questa roba finirà negli scatoloni in cui si accumulano le mille cose vecchie che non servono più, e lei certamente continuerà a viaggiare per il mondo, ma sta di fatto che adesso, nella casa nuova, quella per sempre, quella comprata col mutuo, quella che è ancora tutta un cantiere, come le case del Polesine nel ’52, le piastrelle per la prima volta Matilde le sceglie con cura: avranno una riga a fiori. E forse ci sarà la carta da parati, e dentro le stanze ci saranno i mobili della nonna. Sul davanzale, intanto, le scarpe di tutta la famiglia ad asciugare, mentre le campane suonano a festa per festeggiare le terre emerse.
Le fotografie dello spettacolo sono di Mario Zanaria.