Elefanti nelle stanze e altri inciampi
C’è, nella lingua inglese, un modo di dire magnificamente visivo e vagamente coloniale: “An elephant in the room”. Serve a indicare una verità talmente macroscopica e indigesta che tutti preferiscono far finta di niente o minimizzarla. L’idea di base è che un elefante in salotto, in camera da letto o in cucina non può essere ignorato; se le persone raccolte nella stanza pretendono di non vederlo è perché, astenendosi dall’ammettere la sua presenza, sperano di non doversi misurare con un problema vistoso percepito come destabilizzante.
Noi abbiamo l’abitudine di ricorrere a meccanismi più abrasivi e non metaforizzare troppo: i nostri elefanti – intendendo con ciò i tabù e le verità storiche ingombranti, scomode, divisive –preferiamo rimuoverli, negarli o semplicemente dimenticarli. In tal modo essi non assumono la corporeità pachidermica di cui sopra, bensì la parvenza volatile di fantasmi. Ci sono, ma non si vedono, e a volte, quando meno te lo aspetti, possono reincarnarsi. L’elaborazione, in altre parole, non fa per noi. Se una lingua non ha una parola o un’espressione per dire una certa cosa, è perché quella cosa non è stata pensata o maturata. Non la si può importare come un casco di banane o una Toyota.
Ecco perché la giornata inaugurale della Biennale Teatro veneziana di quest’anno, l’ultima diretta da Stefano Ricci e Gianni Forte, è come un sasso scagliato con ilare violenza in uno stagno di acqua ferma. In scena, duplicemente in scena – al mattino, in uno degli spazi recentemente ristrutturati di Forte Marghera, con una videoinstallazione da guardare a lungo, Elephants in Rooms; la sera, al Teatro Piccolo Arsenale, con un’opera-saggio, Creation (Pictures for Dorian) –, il collettivo anglo-tedesco Gob Squad, fondato a Nottingham nel 1994 e dal 1999 di stanza a Berlino, insignito del Leone d’argento 2024.
Composto da sette membri – Johanna Freiburg, Sean Patten, Sharon Smith, Berit Stumpf, Sarah Thom, Bastian Trost, Simon Will – che optano senza mediazioni per un’autorialità plurale che cancella ruoli, gerarchie, l’idea stessa di potere, questo gruppo di attori/attrici attivisti discende in linea retta da esperienze teatrali quali il Living Theatre di Judith Malina e Julian Beck o il Wooster Group di Elizabeth LeCompte. Produrre spettacoli, video installazioni, radiodrammi, film e interventi urbani significa per loro immergersi nella realtà e trasformarla, almeno un po’, proprio attraverso l’atto critico che ogni creazione comporta. I mezzi non possono più essere quelli del puro teatro, il cosiddetto teatro drammatico, perché nel frattempo la realtà è andata saturandosi della realtà parallela prodotta dalla televisione e dalle nuove tecnologie digitali. Portare in scena la prima significa misurarsi con la seconda, metterla a tema, utilizzarla e esserne utilizzati: un vortice visivo.
Ma andiamo con ordine. Elephants in Rooms, una videoinstallazione con quattordici schermi e altrettanti performer (i sette membri del collettivo e sette attori/attrici operanti in India e in Cina) è, delle due opere presentate a Venezia, quella da sorseggiare più a lungo e con la necessaria lentezza.
Nata in piena pandemia, quando i prudenti o disorientati governi occidentali avevano sigillato ogni spazio pubblico di incontro e condivisione (e il teatro non è per sua natura proprio questo?), si fonda su un dispositivo visivo nitido: quattordici individui soli nella propria stanza di fronte a una finestra. Un dentro inizialmente claustrofobico, che a poco a poco si fa claustrofilico. Un fuori visto attraverso un riparo di vetro che somiglia sempre più alla soglia kafkiana: se non la si varca è perché, quasi inavvertitamente, ci si affeziona al ruolo di carcerieri di se stessi. E il mondo là fuori fa sempre più paura. Solitudine, segregazione, ansia, sospetto, divisione, un attaccamento ossessivo al proprio spazio e ai gesti minuti della quotidianità. Su ogni schermo o ‘quadro’ digitale una vicenda e una strategia di sopravvivenza individuali. Noi che guardiamo – seduti sui divanetti, sui pouf o sui tappeti che integrano l’opera video dei Gob Squad – ci riflettiamo in quegli schermi e in quei gesti per via di esperienza condivisa. Ci siamo variamente passati. Forse siamo ancora impigliati nei postumi di quell’esperimento di iperconnessa disincarnazione di massa: una letale letargia dei corpi mirata a salvarli.
C’è, in ognuno di quei loculi diversamente arredati e accessoriati di libri, oggetti, fiori, un elemento comune che piano piano si impone alla vista: una teiera e relativa tazza da tè, simbolo per eccellenza del rapporto di forza e di rapina che denota il dominio coloniale. Un circuito ad anello talmente chiuso da risultare invisibile. Di elefanti nella stanza ce ne sono tanti e ogni cultura e paese ha i propri, ma qui il più ingombrante “Quello di cui non parliamo quando prendiamo il tè è la tratta degli schiavi. E di quanto sia tutto così bianco da queste parti”. Il bianco come colore di una presunta superiorità ormai scaduta. Il bianco di un’etichetta che vieta di esprimere i propri sentimenti, che interdice le lacrime e impone un manierismo garbato fondato sull’autorepressione e l’ignoranza di sé.
Sui quattordici schermi, con un montaggio che dà vita a una vera e propria coreografia, le performance attoriali (filmate con uno smartphone a Bangalore, Bayrischzell, Berlino, Dahme-Spreewald, Devon, Lanzarote, Mumbai, New York, Shanghai, Sheffield e Shenzhen) si intrecciano, si inseguono, si insinuano le une nelle altre, si svelano e invitano a vicenda. Quiete, silenziose, ordinate, d’un tratto si innervano d’ansia, prendono a vibrare, sembrano scontrarsi, sfociano in urlo, in pianto e invettiva. L’emozione repressa o negata non può che fare da esca alla violenza, la propria e l’altrui. E tuttavia, ancora una volta, i corpi in scena esigono/presuppongono altri corpi che, nell’osservarli, si osservino. Non si tratta di un semplice rispecchiamento, ma di una compresenza radicale: l’opera si dà in una triangolazione di sguardi.
Creation (Pictures for Dorian) riprende virtualmente da qui. Su una scena nera e pressoché vuota salvo un mazzo di fiori e una lampada a piede, due performer dichiarano, ciascuna a suo modo, che un’opera non può nascere che dalla rivolta contro ogni forma di binarismo. L’esempio è chiaro, quasi didascalico: una di loro traccia su un blocco l’abbozzo di un ritratto. Ha scelto a caso uno spettatore, lo guarda e lo ‘raffigura’, affermando un capovolgimento di ruoli e la necessità di un fare insieme. La seconda compone e scompone il mazzo di fiori, lo aggiusta, lo osserva e, intanto. teorizza il ‘triangolo’ magico che impedisce al teatro di farsi consumare e di consumare come gli spettacoli a senso unico. Tutto nasce da una relazione triadica: il pubblico (C) guarda l’attore/autore (A) che guarda il proprio mazzo di fiori/opera d’arte (B). Ma che cos’è, esattamente, un’opera d’arte? Chi la definisce tale? Perché la cornice ha avuto un ruolo così importante nella storia dell’arte occidentale? Basta inquadrare il mazzo di fiori e proiettarlo ingigantito sulla parete di fondo della sala, isolandolo dal suo contesto e relegando al fuori scena ciò che il quadro non contiene, per stabilire un ordine di valore? Il valore è dunque definito da un’inclusione o da un’esclusione?
Via via le questioni teoriche si complicano, perché sulla scena non resteranno il mazzo di fiori e la sua duplicazione tecnica. L’opera d’arte annunciata, anzi la materia prima dell’opera d’arte a venire, si rivela infatti un gruppo di attori e attrici nostrani, che i Gob Squad hanno scelto per montare insieme a loro la versione veneziana dello spettacolo. E le Pictures for Dorian – pictures in inglese sta per quadri, ma anche immagini, scatti, fotografie e film – interpellano senza mezzi termini il corpo, quella parte transeunte di noi che invecchia, decade e muore, e che tuttavia appare e dice di noi al di là delle maschere e dei travestimenti che sappiamo indossare.
Ironici, sapienti e precisi, anche se qua e là eccessivamente verbosi e preoccupati che il loro messaggio arrivi a destinazione, i Gob Squad governano con mestiere implacabile una drammaturgia in cui le riprese video in tempo reale funzionano da esca e da schermo tra loro e il pubblico. Un teatro del rischio, dell’improvvisazione calcolata, della passione di chi crede nel cambiamento e ha coraggio. In un incontro pubblico a Ca’ Giustinian immediatamente successivo alla cerimonia di premiazione, alla domanda “qual è oggi per voi l’elefante nella stanza?”, una di loro ha risposto con voluta e fermissima sfrontatezza: “la rinascita del fascismo”.
Nell’ultima immagine una scena di Creation (Pictures for Dorian) di Gob Squad
Le foto che illustrano il pezzo, salvo altra indicazione, sono di Andrea Avezzù, courtesy La Biennale di Venezia.