L'inquietudine di Teju Cole
Parto da qui, perché raramente un testo ha avuto immagine più pertinente e complessa ad accompagnarla nel suo multiplo trapasso linguistico fuori dai territori che gli hanno dato origine. Teju Cole, nato negli Stati Uniti da genitori nigeriani e cresciuto a Lagos, in Nigeria, da oltre trent’anni è tornato a vivere in America, anzi in quella non-America che è New York, e oggi abita a Cambridge, nel Massachusetts, dove insegna scrittura creativa presso il dipartimento di Inglese della Harvard University.
Stati Uniti, Nigeria, New York, New England.
E in mezzo una molteplicità di viaggi materiali e mentali: in Europa, in Africa, nella musica, nell’arte, nella fotografia e – qui per la prima volta in modo esplicito – nella voragine storico-politica del Middle Passage, la tratta transatlantica degli schiavi, e del persistente razzismo che avvelena il suolo e la società statunitensi.
Tunde, il protagonista, è una trasparente controfigura dell’autore. È un intellettuale/artista nero che ha trovato casa (accolto? accettato? ammesso?) in una delle università più prestigiose della costa orientale americana. Potrebbe quasi dimenticare il colore della propria pelle, l’eccezionalità ed eccentricità della propria posizione nel quadro delle gerarchie sociali vigenti. È ‘al centro’, ma è lievemente ‘scentrato’. Non sono i suoi pari, colleghi e amici, a ricordarglielo. Potrebbe tranquillamente sentirsi uno di loro. È uno di loro.
Eppure c’è qualcosa che glielo impedisce, un rumore di fondo, un’atmosfera, minuscole lacerazioni nel tessuto della memoria, graffi sulla superficie all’apparenza compatta di quell’universo di privilegio. Ecco, nel mondo che Tunde ha conquistato lasciandosene conquistare, nell’orizzontalità omologante della scena accademica che si considera punto d’arrivo supremo di un incessante progresso storico, ci sono irruzioni improvvise, squarci impercettibili, continue epifanie. A irrompere, a volte in forma di sintomo fisico, è ciò che del passato è stato cancellato, sepolto, talora farisaicamente riportato alla luce e celebrato, il fuori scena che permane e preme ai bordi, che crea pericolanza. A irrompere può essere altresì l’altrove, il non lì, la materialità di luoghi separati, paralleli, inconciliabili attraversati dal proprio disorientato corpo, per sempre in bilico, spezzato, irricomponibile.
Che cosa vediamo dunque quando guardiamo un quadro come La nave negriera (Mercanti di schiavi che gettano in mare i morti e i moribondi – Tifone in arrivo) dipinto da J. M. W. Turner nel 1840? Per domandarselo, esattamente a metà del libro, Cole passa dall’onnisciente narrazione in terza persona dei primi quattro capitoli alla prima persona di Tunde, invitato a tenere una conferenza al Museum of Fine Arts di Boston, dove l’opera è conservata. Già, perché non può essere passato sotto silenzio che il soggetto dello sguardo sia proprio lui, nigeriano americano – modo edulcorato per dire nero –, che la sua posizione nella costellazione ‘geografica’ dei saperi non sia esattamente la stessa di chi ha per antenati uomini e donne liberi anziché schiavi. Davanti a questo dipinto incandescente, turbolento, ipnotico, l’indottrinamento di cui cultura alta e formazione accademica sono strumento essenziale s’incaglia. Lo stesso titolo debordante, eccessivo della tela turneriana apre un baratro di sgomento.
Avendola pronunciata mi rendo conto di essere turbato dalla parola «schiavo», che colpisce ancora l’orecchio come una frustata. C’è chi schiavizza e c’è chi viene schiavizzato. Ma non c’è nessuno la cui essenza, o vera natura, sia quella di «schiavo». Una persona può essere schiavizzata, può essere intrappolata in quella situazione di morte in vita nota come «schiavitù», ma non per questo è uno schiavo. La schiavitù è qualcosa che le sta accadendo o che le è accaduto. Per questo motivo credo che un titolo più accurato sarebbe Schiavisti che gettano in mare i morti e i moribondi.
È possibile guardare quest’opera impantanandosi in discussioni sulla tecnica con cui è stata dipinta, senza collocarla nel suo contesto storico e politico, senza leggerla alla luce dell’oggi? Senza chiedersi come si traccino – e si conservino integri ed efficienti anche dopo la loro apparente scomparsa – i muri di separazione, le barriere che segregano, le geometrie opportunistiche della supremazia bianca?
Tunde guarda, osserva, guarda ancora, guarda fuori dalla cornice, guarda gli spettatori che osservano, si domanda quale sia il fuori campo, chi lo abbia determinato, che cosa la visione esponendo celi.
In quel medesimo capitolo, chiave di volta dell’intero impianto narrativo, ad essere interpellato è il linguaggio stesso, strumento disattivato di fronte ad ogni «storia che non può essere raccontata». Nasce da questa impossibilità, dal fallimento del linguaggio – ci ricorda Teju/Tunde – un poema come Zong!, che la poeta e avvocata canadese nera M. NourbeSe Philip scrive affermando che quella storia non può essere raccontata, ma deve essere raccontata e si può raccontare solo non raccontandola. Sarà una storia che si farà raccontare in un «linguaggio di grugniti e lamenti, di gemiti e balbettii. […] uno spruzzo di frasi frammentarie, parole libere e fluttuanti, morfemi isolati». Un testo simile a una rete, privo di continuità, di linearità, interrotto, lacerato, dove non è facile individuare un inizio e una fine, capisaldi inesistenti in una storia irraccontabile. Zong! non è una requisitoria, una denuncia, un atto d’accusa. È molto di più. È una durissima invenzione linguistica. Philip si rinchiude nel «magazzino di parole» del documento legale britannico che nel 1783 stabilisce torto e ragione nel caso Gregson contro Gilbert, entrambi bianchi, rispettivamente proprietario della nave carica di schiavi che ha fatto naufragio e assicuratore, e lo fa a brandelli, mandando all’aria il senso e la logica di un atto giudiziario che mette il profitto al di sopra della vita. Nelle sue mani e attraverso la sua voce quei termini giuridici ‘oggettivi e neutrali’ esplodono in lacerti di frase, nella materia corporea del dolore.
Da lì in avanti Tremore è pura vibrazione, inquietudine, disappartenenza. L’azione si è spostata a Lagos, città perduta, città dello smarrimento. Teju non è più in grado di narrare e Tunde non sa più dire di sé, di sé nel mondo. Tacciono entrambi, o meglio cedono la parola a una pluralità di voci locali. L’atto di scrittura si fa quasi fotografico: capta in una serie di istantanee ad altissima definizione lo spirito del luogo, le sue strade senza uscita, le sue frustrazioni, la sua problematica americanizzazione, il venir meno della speranza, ma anche la splendida resistenza dei corpi, quella strana energia che permette di sopravvivere allo sfacelo e lucrare sulla corruzione dell’anima. In una città che «annega e brucia», cupa, post traumatica, dove la notte è per i sogni e il giorno per l’impotenza, non c’è modo di restare.
Per Tunde tuttavia non c’è neppure modo di tornare. Si può tornare a casa in America, alla feroce pax americana così intrisa di non detto e di represso? Il tremore di cui scrive Cole, sintomo lieve di qualcosa che va muovendosi nel profondo, può risultare impercettibile o avere esiti distruttivi, come i terremoti evocati a più riprese nel libro. La maggior parte dei terremoti si verificano nelle zone di faglia, dove le placche tettoniche – le grandi lastre di roccia che costituiscono lo strato superiore della Terra – si scontrano o scivolano l’una contro l’altra. È questo scivolamento di un mondo contro l’altro, ma anche lo scontro che avviene costantemente al loro interno, a causare la personale vertigine di Tunde, la presa d’atto che l’altrove e il prima sono dentro di noi, non persi in una geografia lontana o in una temporalità ormai spenta.
In copertina, edizione italiana di Tremore, il nuovo romanzo/ saggio/ memoir/ diario di viaggio dello scrittore, fotografo e storico dell’arte Teju Cole (trad. it. Gioia Guerzoni, Einaudi 2024), campeggia la riproduzione di un’opera di Lucio Fontana: Concetto spaziale. Olio, squarci e graffiti su tela, oro. 1984.