Judith Butler: inquadrare la guerra
Fine settembre 2024. Gaza e il Libano del Sud sono bersagliati dai bombardamenti israeliani. La Cisgiordania è smembrata e desertificata dagli insediamenti coloniali. Il conflitto Ucraina/Russia è spavaldamente in corso da oltre due anni. L’Occidente soffia sul fuoco fornendo armi ad alcuni dei cosiddetti contendenti. La diplomazia è ridotta a una farsa ipocrita o lievemente patetica.
La guerra mediatica – digitale, cartacea, televisiva – infuria. Perché ci sia guerra guerreggiata bisogna infatti che la ‘società civile’ sia persuasa che si combatte per lei. Non solo in suo nome, ma a difesa dei suoi valori e del suo stile di vita, finanche per proteggerla. Se chi opera nei teatri di guerra può usare impunemente le armi e lo strumento della coercizione violenta, è perché altrove, dove si presume che regni un qualche tipo di pace, si è disposti a lasciarsi convincere che tutta quella morte e tutta quella distruzione, tutto quel dispendio di risorse e di vita, è il prezzo giusto da pagare per continuare a vivere come viviamo.
Storditi, distratti dalla nostra personale vulnerabilità o di essa inconsapevoli, sempre più precari e tuttavia non propensi ad ammetterlo, guardiamo la guerra in televisione, ne leggiamo, ne guardiamo le immagini spesso false, truccate, artificiali senza saper più distinguere il vero dal falso, senza capire dove siamo noi con il nostro corpo, la nostra vita, la nostra responsabilità riguardo ad altri luoghi, altri corpi, altre vite. Il bombardamento mediatico, cui partecipano come a un festino social media sempre più rozzi e ideologici, non ha forse proprio questo obiettivo? Fare tabula rasa della nostra coscienza, che è capacità di pensarsi parte minima ma non insignificante di un tutto. Nel migliore dei casi accusiamo un dolore, uno strazio, un barlume di identificazione, su cui presto prevale un sentimento di impotenza, disperazione, sgomento. Sentimenti autentici e tuttavia meticolosamente indotti: l’indifferenza o il vero e proprio razzismo degli uni si creano con gli stessi strumenti che in altri causano depressione, passività, un terribile senso di disfatta. Le guerre su schermo producono assuefazione.
Ogni giorno i morti si contano a centinaia, anzi non si contano neanche più, tanta è ormai l’irrilevanza dei corpi, di quei corpi e – a guardare bene – anche dei nostri, apparentemente così tutelati, curati, istruiti, svagati, intrattenuti. La forma del morire resta tuttavia diversa. Nei luoghi del conflitto aperto non si fa quasi in tempo a nascere, condannati a priori da un regime globale che classifica ancor prima che si venga al mondo. Se non si è degni di essere pianti da morti, come si potrebbe essere degni di vivere? Se non si è degni di esistere, come si potrebbe meritare la tenerezza pietosa del lutto?
Da noi, in quell’Occidente che ci ostiniamo a considerare democratico, libero e ricco, i corpi sono altrettanto, se pur diversamente, a perdere. Non si riesce più a morire in modo dignitoso, quando è il momento, accanto alle persone che ci sono care. Né si riesce a vivere in modo dignitoso, progettando la vita invece di rincorrerla. E abbiamo disimparato a far crescere i piccoli da creature senzienti in mezzo ad altre creature senzienti, con quell’attenzione che il vivente – che non è destinato all’immortalità – richiede.
Questo preambolo per annunciare l’uscita – tardiva eppure tragicamente tempestiva – di una raccolta di saggi che Judith Butler congedò nel 2009, subito dopo la cosiddetta prima guerra di Gaza nota come “Operazione piombo fuso”, intitolandola Frames of War. When Is Life Grievable? A pubblicarla oggi, in un’edizione prefata da Olivia Guaraldo e curata da Giacomo Mormino che ne firma anche l’ottima postfazione e, insieme a Serena Demichelis, la traduzione, è la casa editrice Castelvecchi. Titolo: Regimi di guerra. O della vita che non merita lutto.
Nei quindici anni trascorsi da allora i frames – fotogrammi, ma anche inquadrature e cornici – segnalati e messi a tema da Butler sono andati solidificandosi in regimi discorsivi, in apparati visivi e auditivi così rodati da essere impercettibili e dunque impenetrabili, impermeabili, sfuggenti. Oggi – a distanza di altre ‘quattro guerre di Gaza’, l’ultima delle quali ha tratti genocidari evidenti, dopo una pandemia che ci ha trasformati in silenti atterrite monadi, alle prese come siamo con un utilizzo sempre più accelerato dell’Intelligenza Artificiale – la rappresentazione della guerra e dei suoi effetti differenziali sulle popolazioni e sui luoghi che esse abitano prevede e produce anche uno spazio ‘non oppositivo’ per lo sdegno, l’empatia, la protesta di chi in quei luoghi non vive e probabilmente non andrà mai. Le fotografie giunteci dal carcere iracheno di Abu Ghraib nel 2004 o le poesie arrivate fino a noi dal campo di prigionia di Guantánamo di cui Butler scrive in uno dei suoi testi, “Sopravvivenza, vulnerabilità, affetto”, sono alla base di una tecnica comunicativa disciplinante e a forte contenuto di persuasione. Il documento che smaschera o la fotografia che rivela, non meno della dettagliatissima documentazione fornita da anni dalla Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite o dalla Corte penale internazionale, sono sempre più spesso considerati semplici strumenti di contropropaganda. Come tali il regime mediatico li ingoia e li disattiva, provvedendo a svilirli o a cambiare pagina e farceli dimenticare.
Nel suo Regimi di guerra Judith Butler ci ricorda con passione civile e furore politico che nel mondo post-11/09, affollato di guerre preventive, umanitarie, salvademocrazia, ci sono popolazioni che godono di piena cittadinanza e del diritto alla tutela che ne consegue e popolazioni ‘spendibili’, la cui vita sembra non essere del tutto tale. Da questa constatazione, che si pone non dogmaticamente come tesi da dimostrare, prende corpo una vera e propria indagine rivolta non solo a portare alla luce i fatti che corroborano quella tesi (guerre, torture, carestie, povertà, asimmetrica distribuzione dei diritti), ma anche le ragioni che li sottendono e le complicità, l’indifferenza e perfino la dolente passività che li rendono possibili e spesso li legittimano. Da lì la sua speciale attenzione ai mezzi di informazione di massa, che i poteri forti dello stato utilizzano come cassa di risonanza e strumento di persuasione in forme e misura inedite. Attraverso una serie di interrogativi e di esempi sempre più incalzanti, Butler ci porta a prendere atto che le immagini e i racconti di cui i media ci nutrono quotidianamente sono ormai parte della macchina bellica. Lì infatti si crea il discorso che giustifica le imprese ‘democratiche’ del primo mondo nei confronti di popolazioni e minoranze non conformi alla norma dell’umano vigente in Occidente. Raffigurate come minaccia alla vita umana così come noi la conosciamo, quelle popolazioni e quelle minoranze sono prese di mira in nome nostro, per difendere la vita dei “pienamente vivi”. Questa disparità, afferma Butler, incide in profondità sui nostri sentimenti, determinando quando e perché proviamo orrore, indignazione, senso di colpa, senso di perdita e legittima indifferenza, sia nel contesto bellico sia, sempre più spesso, nella vita di tutti i giorni. Ecco perché le sue ‘inquadrature di guerra’ si allargano a poco a poco a includere il ‘fuoricampo’: il trattamento riservato ai migranti, la criminalizzazione dell’Islam, lo slittamento semantico che riduce ogni forma di resistenza e di lotta al termine ‘terrorismo’, la violenza che pervade lo stato di pace in cui presumiamo di vivere, l’irrigidimento morale che spinge a non interrogarsi sul perché delle cose.
Il 19 ottobre 2023, quattordici anni dopo, in un articolo pubblicato sulla “London Review of Books”, Butler scriverà:
«È relativizzare domandarsi che cosa precisamente condanniamo, quale dovrebbe essere la portata di tale condanna e quale sia il modo migliore di descrivere la formazione politica o le formazioni politiche cui ci opponiamo? Sarebbe strano opporsi a qualcosa senza capirlo o senza descriverlo bene. Sarebbe strano credere soprattutto che tale condanna comporti il rifiuto di capire, per paura che la comprensione possa servire solo a relativizzare e a indebolire la nostra capacità di giudizio. E se sul piano morale fosse essenziale estendere la nostra condanna a crimini altrettanto scioccanti che vanno al di là di quelli ripetuti e messi in primo piano dai media? Quando e dove deve cominciare e cessare il nostro atto di condanna? Non è necessario che la nostra condanna politica e morale si accompagni a una valutazione critica e consapevole della situazione, senza avere paura che informarsi e comprendere ci trasformi, agli occhi degli altri, in complici immorali di crimini atroci?»
Interrogare, interrogarsi, non avere paura di farlo, non accodarsi al sentito dire, non accettare il comfort dei luoghi comuni. Guardare bene le cause, il funzionamento e le conseguenze dei conflitti. Non stancarsi, non deprimersi, non accontentarsi di fare, non cercare consolazioni. Manifestare il proprio lutto. Continuare a pensare. Inquadrare la guerra.