English food
La cucina inglese sta migliorando. La notizia non è nuova, anzi viene ripetuta da circa un secolo dai viaggiatori che tornano in Continente. Partiti con una montagna di pregiudizi, le informazioni delle guide, quelle di amici e congiunti e, negli ultimi anni, il fenomeno degli chef superstar (Jamie Oliver, Nigella Lawson) che hanno riempito le librerie e i canali televisivi, dovrebbero essere riusciti a dissolverli. Eppure, eppure...
È certo vero che a Londra, città che si candida ad essere quel che fu New York nel XX secolo, le occasioni di mangiar bene, di trovare buoni ristoranti (e qualche gastropub) sono ormai numerose e la tetraggine che si associa ai resoconti di pranzi in terra d’Albione non è più all’ordine del giorno. E nemmeno lo è la nota frase di Somerset Maugham: “per mangiare bene in Inghilterra bisogna ordinare il breakfast tre volte al giorno” (la stessa cosa veniva ripetuta da Saul Steinberg per l’America).
A me però il dubbio rimane. Intanto i migliori ristoranti sono etnici, non importa di quale etnia. Se si vuol mangiare la cucina inglese o si va nei club (dove, dalle poche esperienze, si mangia una corretta cucina di casa spruzzata da qualche accorgimento french style), o si va nei templi della cucina inglese (il roast-beef di Simpson’s in the Strand è ancora lì in saecula saeculorum), oppure si ha la fortuna di essere invitati a casa di amici british. Ottimo il breakfast, eccellente il tè, ma quando si tratta di veri e propri pranzi torna alla memoria una scena ricorrente di Frenzy (1972), l’ultima opera che Alfred Hitchcok girò in Inghilterra. La moglie di un ispettore di Scotland Yard, per rinfrescare il matrimonio, prepara al marito complicati manicaretti di cucina francese. La satira è impietosa; l’ispettore non vede l’ora di tornare al pub e alle sue abitudini alimentari.
Il punto è ben colto, come sempre, da George Orwell che in La strada di Wigan Pier mette tra le cause di una mancata rivoluzione del proletariato britannico i fish and chips, il salmone in scatola e le tavolette di cioccolato a poco prezzo. Gusti popolari? Antiquariato anni trenta? Secondo me no.
Per l’inglese di qualunque classe sociale il cibo è un nemico da distruggere nel minor tempo possibile (un riflesso colonialista?). Ecco quindi l’imperituro successo dei fish and chips, dei pasticci offerti nei pub (steak and kidney pie), dell’uovo al bacon con salsiccia e pomodoro assortiti (che poema quel pomodoro!), dell’enorme quantità di sandwich offerti in ogni occasione (vi ricordate quelli al cetriolo delle commedie di Oscar Wilde?). Anche l’arrosto della domenica (Sunday roast) è in fondo un invito a una guerra di sfondamento. Naturalmente le colonie, le immigrazioni, il mescolamento mondiale, hanno reso britannici molti altri piatti, ma la maggior parte delle volte, anche se le ricette sono seguite scrupolosamente, manca lo spicchio d’aglio, un po’ di cipolla, insomma il guizzo che distingue un buon piatto da una didascalia.
Ciò detto, a me piace moltissimo mangiare in Inghilterra, aggirarmi sotto i cieli di Turner alla ricerca di un posto accogliente. E allora se siete nella Londra dei turisti vi consiglio un paio di indirizzi dove si può anche trovare, by chance, qualche inglese. Uno è Wolseley in fondo a Piccadilly. Il nome deriva dalla (mica tanto) gloriosa casa automobilistica che qui aveva la principale concessionaria. Trasformato in impeccabile ma informale ristorante, varia la sua cucina dal breakfast al lunch, all’ high tea con gli scones e la whipped cream, fino a cene con menu più sussiegosi (e costosi). Per chi vuol portarsi a casa un souvenir alimentare il consiglio è allora Partridges all’inizio di King’s Road, dove ineguagliato resta The Gentleman’s Relish (Patum Peperium), una pasta d’acciughe ben pimentata da spalmare sul toast caldo e naturalmente distruggere il più in fretta possibile.
Una previsione infine: la cucina inglese continuerà a migliorare.