Speciale
Cambiare la narrazione del mondo
Perché l’Africa? Da parecchi anni lettera27 si dedica all’esplorazione di temi legati al continente africano e con questa nuova rubrica vogliamo aprire un dialogo con i protagonisti culturali che si occupano dell’Africa. Qui potranno esprimere opinioni, raccontare storie, stimolare il dibattito critico e suggerire idee per ribaltare i tanti stereotipi che circondano questo immenso continente. Ci piacerebbe aprire con questa rubrica nuove prospettive: geografiche, culturali, sociologiche. Creare stimoli per imparare, per essere ispirati, ripensare e condividere conoscenze.
Elena Korzhenevich,
lettera27
Qui l'articolo introduttivo della serie: Why Africa?
Credete che il cinema possa produrre un cambiamento reale? Uno spostamento di sguardo, di prospettiva? Noi di lettera27 siamo convinti che sia così. Crediamo nel cinema e nella sua potenza: ogni film ci fa fare esperienza di una realtà diversa o simile alla nostra ma attraverso altri occhi. Crediamo in quello che gli studiosi chiamano ‘meccanismo di immedesimazione’ e cioè che guardare un film vuol dire sentire le emozioni di qualcun altro, mettersi nei panni di un altro. Crediamo anche che questo immedesimarsi non sia un effetto momentaneo ma che guardare la realtà attraverso gli occhi di altre persone possa cambiare un po’ e per sempre il nostro modo di stare e agire nel mondo.
È per questo che sosteniamo uno dei nostri partner, l’Archivio delle memorie migranti (AMM), fin dalla sua nascita. Insieme, crediamo che il cinema documentario sia il linguaggio ideale per cambiare in modo diretto la percezione comune e stimolare il dibattito critico sulla questione complessa e controversa della migrazione. Al festival del cinema di Venezia, dove AMM era presente con l’assegnazione del premio Mutti-AMM, abbiamo intervistato due protagonisti d'eccezione che hanno regalato un nuovo punto di vista sulla migrazione con i loro film. Parliamo di Gabriele del Grande, il co-autore di Io sto con la sposa, per il quale lettera27 ha collaborato nell'impostazione strategica della campagna crowdfunding, e Dagmawi Yimer, il regista di Come un uomo sulla terra, Soltanto il mare e Va’ pensiero, che abbiamo sostenuto dal suo esordio.
Un’intervista doppia per due autori, due percorsi e due modi di fare cinema spesso diversi, qualche volta opposti, ma che proprio nella loro diversità ci permettono di approfondire la complessità e la ricchezza di modi e codici possibili per raccontare le storie di migrazione.
Dopo Venezia ci sono state tante e importanti tappe per entrambi gli autori e i loro lavori. Io sto con la sposa ha partecipato a festival internazionali, come IDFA e il Dubai Film Festival, ha girato l’Italia con le proiezioni dal basso e in alcune città ha segnato record di permanenza nelle sale diventando, anche per questo, uno dei casi cinematografici dell’anno. Va' pensiero ha intanto terminato un tour in diverse città d’Europa e ha presentato in questi giorni un’evoluzione del progetto in forma di kit didattico per le scuole.
Io sto con la sposa (2014) , screenshot dal film. Courtesy of Antonio Augugliaro, Gabriele Del Grande, Khaled Soliman Al Nassiry.
Qual è la visione dietro al vostro lavoro? Che tipo di cambiamento pensate di produrre con il cinema sulla migrazione?
Dagmawi Yimer: Il mio lavoro ha un vantaggio: può essere visto anche da chi non ha una particolare formazione, perché racconta semplici fatti e vite di persone comuni. I protagonisti del mio film non sono solo delle vittime, sono persone che hanno delle vite al di fuori dei fatti che li hanno coinvolti. Io cerco di raccontarle, provando a completare il racconto con il prima e il dopo le aggressioni. Cerco di dare corpo, volto e voce a persone che sono rimaste spesso nell’ombra rispetto al racconto dei fatti accaduti.
Gabriele Del Grande: Il mio lavoro è soprattutto un lavoro di racconto, di narrazione. Il cambiamento è soprattutto a livello di immaginario, cioè di racconto del mondo. L’idea è che prima di vivere dentro il mondo si vive dentro un racconto del mondo. Quindi, cambiare quel racconto, cambiare la narrazione del mondo significa produrre un cambiamento reale. Il lavoro che ho fatto in passato e che faccio ancora, come giornalista, come scrittore e adesso con questo film, è appunto questo, provare a raccontare in modo diverso delle storie, che sono le storie della frontiera, le storie della guerra e del Mediterraneo. Con uno slogan che spesso usiamo e cioè ‘Ribaltare l’estetica della frontiera’, che vuol dire uscire dal racconto da piagnisteo nel quale c’è sempre chiaramente una vittima e un gioco di potere di chi intervista quella vittima, parla al suo posto e la schiaccia dentro una prospettiva vittimista. Ribaltare l’estetica vuol dire, quindi, far parlare la vittima.
Non soltanto restituirle una soggettività, un nome e un ritratto ma farla diventare in qualche modo ‘un eroe’, cogliere la bellezza di quello che succede in certi contesti, anche quando sembra che di bello non ci sia niente. Io sto con la sposa fa questo tentativo: è un racconto che racconta sì il dramma – della guerra e della traversate in mare – ma lo fa con un filo di ironia, restituendo l’umanità ai vari personaggi, che significa ridere e piangere con loro nelle varie situazioni e ridefinire un po’ un ‘noi’, anziché scrivere la storia degli altri raccontare la storia di un ‘noi’, che è un noi un po’ più allargato. Sentirsi parte di un mondo un po’ più largo, di un mare, che è il nostro Mediterraneo. Nel nostro caso il ‘noi’ è un gruppo di amici italiani e siriani che vive un’avventura. C’è anche l’elemento del sogno, l’immaginarsi un mondo diverso, farlo esistere e far vedere quant’è bello. Questa è un’operazione culturale opposta a quello che si fa di solito, con le operazioni di denuncia, con tutta la retorica dei diritti umani.
Non voglio dire cosa sia meglio o peggio, semplicemente il nostro è un discorso completamente diverso: tentiamo di conquistare il pubblico facendolo affascinare da una bella storia anziché puntare il dito contro e dire ‘è colpa tua se il mondo fa schifo!’. La nostra è stata una scelta. Ad esempio, rispetto a Manar potevamo inserire i racconti di un ragazzino di tredici anni che ti dice dei morti per strada a Damasco e invece abbiamo messo nel film la gioia negli occhi di un ragazzino che dopo tre anni in guerra finalmente fa un concerto a Marsiglia. È molto più forte. La bellezza ti tocca di più rispetto ad una cosa che percepisci troppo lontana. Ti tocco su un universale, ti faccio riscoprire un’umanità che c’è: quella persona ha conosciuto un dramma ma è una persona come te.
Dagmawi Yimer a Firenze durante le riprese di Và Pensiero. Storie ambulanti (2013). Courtesy of AMM.
Perché il cinema è il modo migliore per cambiare l'immaginario simbolico sulle questioni di migrazione?
G.D.G.: La storia di Io sto con la sposa è un po’ particolare: ci siamo tutti ritrovati dentro un po’ per caso. Non abbiamo riflettuto sul fatto che il cinema potesse raggiungere più persone o meno. Sicuramente è un dato di fatto che il linguaggio del cinema sia più popolare della scrittura. Con un libro, se va bene, raggiungi 5.000/10.000 persone, con un film molte di più. Allo stesso tempo è molto più difficile fare un film. Però nel cinema puoi creare un cortocircuito di immagini, di stereotipi. Noi abbiamo messo insieme delle cose che non c’entrano niente, è per quello che tutti si ricordano questa storia. Ad esempio le 40 spose sul tappeto rosso a Venezia. Cosa c’entrano con Lampedusa? Abbiamo iniziato a fare una serie giochi con il simbolico per cui oggi, per chi conosce il film, il velo bianco è diventato il simbolo della libera circolazione, di una certa disobbedienza.
Sono cose che cozzano tra di loro e che per questo funzionano: c’è la sposa e Lampedusa, il finto matrimonio e la guerra in Siria, il bambino rapper e il passaggio a Ventimiglia sul Passo della Morte. In più c’è un altro elemento che funziona a livello visivo: vedere una persona in giacca e cravatta che ti racconta qualcosa fa un altro effetto. Lampedusa la associ a tutta la retorica della disperazione, dei barconi… e poi vedi uno in giacca e cravatta. È una cosa che stona, ma proprio perché stona con l’immaginario comune ti colpisce di più. Non l’avevamo pensata in partenza, ce ne siamo accorti a posteriori. Poi c’è anche il fatto che usiamo un linguaggio abbastanza pop. Il film sembra una fiction, non è un classico documentario, per le musiche, per come è girato e per come è pensato. Questo forse aiuta ad avvicinare un pubblico che avrebbe più difficoltà a seguire un documentario.
D.Y.: Come già detto in una precedente intervista con Vanessa Lanari, da una parte sono molto felice che vengano raccontate le storie di immigrazione, dall’altra ho il timore che il cinema possa amplificare gli stereotipi già esistenti. Se non si ha esperienza diretta dell’immigrazione si deve essere molto cauti, rendere il giusto racconto delle vicende che le persone vivono. Non si può raccontare l’immigrazione ma si possono raccontare le storie dei migranti.
Gabriele Del Grande durante una delle proiezioni di Io sto con la sposa (2014). Photo by Anna Piuzzi.
Chi sono le persone a cui vorreste arrivare con i vostri film?
D.Y.: Al momento mi interessano più di tutti gli studenti. Il film ha girato molto nelle scuole, grazie a proiezioni e presentazioni in tutta Italia. Nell’ultimo anno poi due giurie composte da studenti hanno premiato il film, al Mediterraneo Film Festival di Carbonia, in Sardegna, e al Sole Luna Festival, quindi è segno che i ragazzi riescono ad apprezzarlo.
Principalmente reagiscono con indignazione, ad esempio verso la storia della schiavitù. Quello però che mi è rimasto più impresso è il fatto che molti studenti associno il Va' Pensiero di Verdi alla Lega Nord. Quindi penso che oltre alla scoperta della cultura e della storia altrui si trovino anche a scoprire, grazie al film, parte della storia italiana.
G.D.G.: Non ci immaginiamo un target preciso. Più persone lo possono vedere meglio è. Anzi, ti dico una cosa molto bella: a Venezia c’era un nostro amico tunisino, venuto apposta da Tunisi per vedere il film, a cui è piaciuto molto perché, ci ha detto, ‘è uno dei pochissimi film che ho visto che è in grado di parlare alle due rive del Mediterraneo: è una storia che funziona qui ma funziona anche a Tunisi.’ È una cosa che ci piace molto. Questo mare nostro che è il Mediterraneo ha due rive e bisogna parlare a tutti. E questa cosa funziona anche perché è un gruppo misto quello che ha organizzato il viaggio. Il rapporto di potere non era legato al passaporto: avevamo dei siriani e dei palestinesi che erano tra gli organizzatori e ciò ha creato un clima molto alla pari.
Pensate che i modelli sostenibili di produzione come crowdfunding e co-creation potrebbero essere replicabili sul mercato? Qual è la vostra opinione sul tema? Come dovrebbe cambiare la mentalità dei giovani registi per rendere il cinema documentario più sostenibile?
G.D.G.: In alcuni paesi il crowdfunding c’è e funziona. In Italia è una cosa abbastanza nuova. Noi siamo stati i primi a fare una cosa del genere, nel senso che non ci sono stati crowdfunding così importanti per adesso. Se può essere un modello? Su alcuni temi sicuramente sì. Noi abbiamo toccato un tema che è molto sentito in Italia, c’è un pubblico di migliaia di persone che è molto sensibile a riguardo, c’è un movimento. Non voglio dire che sia stato facile, però ci sono state una serie di congiunture favorevoli: esisteva una comunità intorno al blog Fortress Europe, abbiamo trovato un modo intelligente di comunicarlo, era una storia che creava tantissima curiosità, la stampa si è appassionata perché era una storia mai vista prima. Quindi sicuramente ha funzionato, almeno in parte (il crowdfunding ha coperto una parte dei costi, poi ci sono altri costi che restano ancora da coprire). In generale diciamo che può funzionare, ma non mi sento di dire che è la soluzione ottimale.
Per esempio se per The look of silence, il bellissimo film che abbiamo visto a Venezia, avessero fatto un crowdfunding in Italia non avrebbe preso neanche un centesimo. Nel senso che ci sono dei temi che per quanto siano importanti interessano talmente poche persone che non è magari il crowdfunding il modo migliore per finanziarle. Da un lato è un’arma in più, dall’altro non è sempre utilizzabile. Ma è comunque un bene che ci sia perché si crea attesa verso il film, partecipazione… diventa una cosa collettiva. Ci sono 22.617 persone tra l’Italia e l’Europa che si sentono parte di Io sto con la sposa.
Non avevamo pensato al crowdfunding all’inizio. Pensavamo che avremmo trovato delle televisioni o delle fondazioni. Avevamo bussato ad un po’ di porte sicuri che avremmo trovato in poco tempo i fondi per chiudere il lavoro. Poi ci siamo trovati invece senza nessun tipo di finanziamento e con la voglia di farlo uscire perché ci rendevamo conto che era un bel lavoro. A quel punto abbiamo deciso di rischiare tutto e di provare a raccogliere i fondi necessari dalla rete, con una campagna di crowdfunding. Abbiamo chiesto a un'agenzia di comunicazione (Paper Plane Factory) di darci una mano a pianificare la migliore strategia e il 19 maggio siamo partiti! Anche quella è stata un po’ un’avventura. E lì si è messa in moto tutta una macchina che neanche noi ci aspettavamo. Quando abbiamo messo l’asticella a 75.000 euro non eravamo sicuri di arrivarci… poi siamo arrivati a 100.000… La cosa bella di questo film poi è questa: quanto tu racconti un sogno la gente si aggrega, si aggregano delle isole di bellezza. La gente vuole dare un contributo.
D.Y.: Io non credo che il crowdfunding possa sostituire la produzione classica perché è molto difficile ottenere il consenso. Dipende sempre dal tuo progetto ma anche da come viene fatto il lavoro di raccolta dei fondi, che deve essere molto serio. Nel caso di Gabriele Del Grande ad esempio, c’era un progetto molto forte e un messaggio anche politico. Questo riesce a suscitare partecipazione nelle persone. Nel caso di altri film, non solo legati all’immigrazione, può essere difficile coinvolgere le persone in un progetto di cui, come autore, non hai ancora niente in mano. Magari può essere utile per un lavoro di post produzione. Come nel caso di Io sto con la sposa che è andato a presentare un prodotto di cui c’era già maggior parte del girato. Un po’ come succede quando vai dal produttore. Allo stesso modo si può proporre in rete un prodotto semilavorato, facendo intervenire il crowdfunding in una fase intermedia della lavorazione del film.
Come dovrebbe cambiare la mentalità delle istituzioni? E dei produttori?
D.Y.: Tutto il cinema è in difficoltà. Pensa poi nel caso di film che non fanno guadagnare… non si può pretendere più di tanto dai produttori. D’altro canto il peso di alcuni argomenti, come l’immigrazione, è molto importante. Non si possono trascurare. Li devi raccontare. Certi film però nelle sale non circolano, non si staccano biglietti e quindi non c’è guadagno e non c’è rientro dei costi. Secondo me una possibile soluzione sarebbe la distribuzione attraverso i canali televisivi. Se le televisioni acquistassero i film documentari questo permetterebbe ai produttori di rientrare nei costi e investire in lavori successivi dello stesso genere.
Quali sono i festival e le occasioni di incontro più interessanti per chi produce documentari di sensibilizzazione civile e sociale?
D.Y.: Alcuni festival hanno un legame molto forte con il tema della migrazione. Per me sono dei festival ‘militanti’, che lavorano oltre che nel cinema anche nel campo della società civile. Parlo ovviamente per la mia esperienza. Altri invece, hanno in più molti esperti, coinvolti sia nella selezione che nella giuria, molti bei film in concorso, tipo il Salina doc fest. Credo in generale che i festival siano una palestra per il regista più che un canale di visibilità per il pubblico e anche un’ottima vetrina (per quanto riguarda la parte artistica): la vittoria di uno dei premi ha molto peso per il curriculum di un regista o di un film. Ma rimane sempre la domanda su come far arrivare il film a pubblici più ampi.
Che ruolo hanno le scuole che noleggiano i docufilm come momento educativo? Sono molte? O sono ancora troppo poche? Dovrebbe diventare materia di studio?
G.D.G.: È una cosa ancora in divenire, ma abbiamo l’idea di far girare il film nelle scuole. Inoltre vorremmo creare un kit con una serie di testi, da leggere prima di vedere il film, che saranno delle storie di gente che ha scelto ‘da che parte stare’, a prescindere dal discorso immigrazione. Il taglio per le scuole sarà questo: scegliere da che parte stare. Poi nel kit ci sarà anche un po’ di contesto, per capire bene la storia, perché magari non tutti i ragazzi sanno cosa succede a Lampedusa, in Siria o in Svezia. Poi la visione del film e dopo il film i ragazzi stessi, con l’aiuto dei professori e del kit stesso, produrranno delle cose: video o testi nei quali il tema è ‘stare con la sposa’ ma in senso generale. Su un tema che ti sta a cuore tu ragazzo di 14 anni dicci cosa vuol dire per te stare con la sposa. E poi tutti questi materiali vorremmo farli confluire in una pagina del sito del film, uno spazio interattivo dove guardare i feedback e dare un po’ di stimolo ai ragazzi. Non mi piacciono le cose che si fanno in genere nelle scuole, dove tu porti un documentario sui drammi del mondo come se fosse colpa del ragazzino di 16 anni se i genitori sono un disastro e hanno rovinato il mondo. È molto più bello raccontarti una bella storia e chiederti di pensare a qualcosa di bello che anche tu puoi fare nella vita.
D.Y.: Con AMM abbiamo creato un kit per le scuole, con ottimi risultati e dopo un intenso lavoro che ha coinvolto persone molto competenti. Il kit è stato presentato al XVIII Meeting dei diritti umani al Mandela Forum per le scuole, organizzato dalla Regione Toscana a Firenze l’11 dicembre scorso per ricordare le vittime dell’aggressione di Piazza Dalmazia del 2011, uno dei fatti raccontati nel mio film. Verrà lanciato l’anno prossimo da AMM e da Giunti Scuola all’interno di un progetto pilota e la distribuzione inizierà da due regioni, Lombardia e Toscana, con sondaggi campione in alcune scuole di Roma e Napoli.
Ogni kit è diviso in tre unità didattiche e diversi capitoli, corrispondenti ai temi toccati nel film. Ad esempio il colonialismo e la schiavitù, che nel film sono ben presenti attraverso lo spettacolo di Mohamed Ba, i luoghi comuni, gli stereotipi e altri. Ad ogni tema corrispondono diversi spezzoni del film che quindi può essere visto per intero o secondo i capitoli tematici. Il kit comprende un manuale ed è pensato per essere usato in modo semplice e autonomo dagli insegnanti. C’è anche la possibilità di invitare Mohamed Ba o me per un momento di presentazione alle classi. È un esperimento e vedremo come andrà, ma sono molto fiducioso che attraverso il kit si potranno raggiungere tutti quei giovani che spesso non hanno la possibilità di vedere questo tipo di film. È una scommessa sul futuro.