30 marzo 1853 – 30 marzo 2022 / Gli uliveti di Van Gogh. Un amore provenzale
“Ah mio caro Theo, se tu vedessi gli ulivi in questo periodo dell’anno… con il fogliame argento vecchio & argento che inverdisce nel blu. E il terreno arato striato d’arancio. – È qualcosa di completamente diverso da quello che ci immaginiamo noi al nord – c’è un che di così delicato – di raffinato. È come i salici spogli dei nostri prati olandesi o i boschetti di querce delle nostre dune, voglio dire che il mormorio di un uliveto ha qualcosa di molto intimo, di immensamente antico. È troppo bello perché io osi dipingerlo o possa concepirlo”.
“… le murmure d’un verger d’oliviers”. Sono queste le prime righe giunte a noi sulle sensazioni di Vincent tra gli ulivi della primavera provenzale. Siamo ad Arles, è il 28 aprile 1889, tutto il suo dramma alla Casa Gialla con G., Gauguin, è già avvenuto.
Acuto osservatore, Vincent sapeva immergersi completamente nella natura. Di un tronco di salice lungo la strada sapeva farne un ritratto, e già nel 1881 da Etten, scriveva al fratello che bisogna disegnare “un salice come fosse un essere vivente, cosa che in realtà è”, e che non bisogna stancarsi di lavorarci finché “non c’è dentro un po’ di vita”.
In Olanda non ci sono ulivi, un amore provenzale.
Van Gogh e gli Uliveti è il titolo della nuova mostra aperta al Museo Van Gogh di Amsterdam, (11 marzo – 22 giugno 2022). Frutto di una collaborazione tra il Van Gogh Museum e il Dallas Museum of Art, è il punto d’arrivo di un progetto durato quasi un decennio. Le ben quindici tele sul tema degli ulivi che Van Gogh dipinse nel periodo di Saint-Rémy sono sparse nei musei di mezzo mondo. Poco conosciute, non sono mai state oggetto di studio nel loro insieme. Questa mostra, a cura di Nienke Bakker e di Nicole R. Myers (Dallas) e ricca di prestiti eccezionali, esplora per la prima volta il significato degli ulivi per Van Gogh, ma restituisce anche i risultati di uno straordinario studio scientifico comparativo di tutti i dipinti della serie – un lungo progetto che ha visto al lavoro ricercatori, curatori e conservatori di molti musei e istituzioni.
Non solo ulivi
Van Gogh lascia Arles l’8 maggio 1889, per entrare volontariamente nell’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy-de-Provence, a 25 chilometri in direzione nord-est, al di là delle Alpilles. Non abbiamo tele di uliveti del suo primo anno in Provenza – “troppo bello perché io osi dipingerlo” aveva concluso con modestia nella lettera di fine aprile, mentre preparava una grossa consegna di trenta opere da spedire a Parigi a Theo.
Eppure, di fronte ai magnifici frutteti in fiore che vediamo in mostra, immortalati al suo arrivo ad Arles nella primavera del 1888, non aveva avuto questi timori, anzi. In “una furia di lavoro”, era incantato quando, d’improvviso, aveva cominciato “a tirare un vento terribile”, e “il sole faceva scintillare i piccoli fiori bianchi” – un effetto che non aveva “mai visto”. No. In quei giorni, forse i più felici della sua vita, fremeva solo per non perdere l’attimo.
Questa volta la sfida che ha di fronte è molto più alta: non si tratta solo di uliveti, la visione porta con sé l’orto degli ulivi, gli ulivi del Getsemani.
“La figura di Cristo – per come la sento io – è stata dipinta solo da Delacroix e da Rembrandt …... e poi Millet ha dipinto. . . la dottrina di Cristo. –” scrive all’amico Émile Bernard a fine giugno 1888, con i puntini di sospensione allungati quasi come trattini telegrafici, un vuoto di parole.
Sappiamo dalle lettere di due tentativi falliti proprio nell’estate del 1888, quando aveva avuto sul cavalletto due studi a olio di uliveti, “jardin des oliviers”, il primo con “una figura di Cristo blu e arancione, con un angelo giallo”, e “ulivi dal tronco violetto e carminio”, ma poi aveva distrutto tutto. “Non posso o piuttosto non voglio” senza un modello, aveva scritto a Theo.
Ma non è solo questo. In verità questa visione si era stratificata in lui, già dagli anni di lavoro nelle gallerie della Goupil, e al tempo della sua passione religiosa. Nel suo ‘archivio’ iconografico c’era L’orto degli ulivi di Corot, con gli ulivi scuri nel blu del crepuscolo e “la prima stella della sera” – un dipinto che lo aveva “commosso profondamente” da ragazzo, alla retrospettiva di Parigi del 1875. C’erano le tante riproduzioni in bianco e nero della Goupil & Co. da opere allora famose, come il Getsemani di Ary Scheffer o di Paul Delaroche, che Vincent collezionava, e inviava alle sorelle. C’erano i versi del Vangelo secondo Luca, il solo che narra l’evento dell’arrivo dell’angelo consolatore (Luca, 22:39-45). Infatti, nel suo periodo religioso, Vincent aveva trascritto vari passaggi dalla Bibbia, tra cui “Lukas XXII”, in un foglio sciolto giunto a noi e ritenuto del 1877, parte dell’epistolario: “Allora gli apparve un angelo dal cielo per rafforzarlo. Ed essendo in agonia, egli pregava ancor più intensamente”.
Ma nel suo bagaglio mentale c’era anche Delacroix, e soprattutto Rembrandt: “ecco il solo che abbia fatto l’eccezione di fare dei Cristi ecc. E in lui questo non somiglia in nulla agli altri pittori religiosi, è una magia metafisica”, scrive dalla Provenza all’amico Bernard, sottolineando il solo. L’incisione di Rembrandt, Agonia nell’orto degli ulivi, con l’angelo che soccorre Cristo tra ombre antropomorfe, gli aveva tenuto compagnia nel periodo degli studi religiosi, appesa nel 1878 nella sua camera di Laeken, accanto al suo “pendant”, l’amata “La lecture de la Bible” da La sacra famiglia di notte (oggi ritenuta bottega di Rembrandt).
Queste erano le immagini e le parole che sicuramente riaffioravano in lui nelle passeggiate nei dintorni di Arles, sopra la piana del Rodano verso la collina rocciosa di Montmajour, dove crescevano alcuni ulivi. Ma la “magia metafisica” di Rembrandt rimane intoccabile, il tema è sospeso per un anno.
Gli ulivi di Saint Rémy: estate 1889
Saint-Rémy, giugno 1889. Quando finalmente, a un mese dal suo arrivo in clinica, gli è permesso di uscire dalla tristezza di quelle mura, Van Gogh si trova tra campi di ulivi e ne rimane affascinato. Come si vede in una fotografia aerea di qualche decennio più tardi, la zona vicino alla clinica è punteggiata da ulivi, in tanti appezzamenti ordinati, ai piedi delle Alpilles. Si tratta per lo più di uliveti abbastanza giovani, di una settantina d’anni: a cavallo del secolo c’erano state ripetute gelate che li avevano decimati. È per questo, scrive Teio Meedendorp nel suo contributo al catalogo, che gli ulivi di Van Gogh “hanno spesso tronchi abbastanza corti, spesso multipli e piuttosto sottili”, come vediamo in quella che oggi si ritiene la prima tela della serie (National Galleries di Edimburgo, sotto).
Molto vivace e dai toni contrastanti, questo primo dipinto è uno dei meglio conservati del gruppo.
Preceduto da un grande disegno a inchiostro (c. 50×65 cm, come il quadro), colpisce per la sua vivacità, non solo per i colori accesi, ma per l’esecuzione così viva e immediata, in una sola seduta. Certamente qui gli ulivi, sia nel disegno che nel dipinto, hanno molto più di quel “po’ di vita” che Van Gogh aveva in mente da anni.
Tra giugno e luglio 1889 Vincent dedica quattro tele agli uliveti. In una di queste (ritenuta la terza) si cimenta in una celebre versione stilizzata, un dipinto probabilmente eseguito in studio, Alberi di Ulivi (conservato a New York al MoMA, non in mostra). Semplificazione di linee e curve, forme quasi astratte, “esagerazioni in termini di composizione, le linee sono ondulate come in un vecchio legno”, scrive. Uno studio, prosegue, “paragonabile in sentimento” al Sintetismo di Gauguin e Bernard che proprio in quei giorni debuttavano a Parigi in una mostra collettiva che avevano organizzato al Café des Arts (il caffè Volpini), in occasione della Exposition Universelle.
Il dibattito epistolare sul ruolo della memoria e dell’immaginazione nella creazione artistica era già iniziato l’anno prima, quando il 5 ottobre 1888 Van Gogh aveva scritto a Bernard un’espressione molto bella, “je mange toujours de la nature”: mi nutro, mangio, la natura è mio nutrimento. “Altri possono avere più lucidità di me per gli studi astratti – e sicuramente tu potresti essere uno di loro, così come Gauguin e forse anch’io quando sarò vecchio. Ma nell’attesa mi nutro sempre di natura. Esagero, modifico a volte il soggetto ma alla fine non invento tutto il quadro, anzi lo trovo già fatto – ma da liberare – nella natura”.
La sua risposta Van Gogh la trova sul campo, e si rimette presto al lavoro in una grande tela che chiude la serie di ulivi dell’estate. Dipinta in luglio, in due fasi, la prima sicuramente en plein air, tanto che presenta tracce di insetti che hanno camminato nel colore fresco. Questa volta Van Gogh ha “cercato di rendere quell’ora della giornata in cui si vedono i coleotteri verdi e le cicale alzarsi in volo nella calura”.
Abbandona ogni effetto coloristico delle prime tele, mette da parte le stilizzazioni, e si concentra sull’insieme, sulla pennellata, che procede in un flusso continuo e vibrante. Ed eccoci in mezzo all’uliveto a sentire il mormorio del suo fogliame che dipinge come non aveva ancora fatto. Le sue pennellate si rivolgono verso l’alto, disposte a formare ciuffi rotondeggianti, proprio come le singole foglie di questo albero. Le foglie dell’ulivo sono coriacee, al tatto consistenti come cartoncino, quasi prive di picciolo, e tendono verso il cielo, soprattutto nelle fronde più alte, come si vede in una fotografia all’imbrunire di un ulivo delle nostre colline.
Van Gogh era attento osservatore di ogni particolare, reso sulla tela con una poesia così semplice da passare quasi inosservata. A tela asciutta, apporta alcuni ritocchi e firma in basso a sinistra, Vincent, seguendo un andamento ad arco suggerito dalla pennellata sottostante, ma che molto ci ricorda Melencolia I di Dürer, che Vincent ben conosceva. Questa è l’unica tela firmata di tutta la serie degli ulivi – e l’unica firma così configurata nella sua opera.
Gli ulivi d’autunno
I primi di settembre Vincent è molto debole, è reduce da una lunga crisi di sei settimane, la più lunga, arrivata quando cominciava a sperare che “gli attacchi non ritornassero più”. Niente lavoro, niente libri, nemmeno una lettera. Dopo due autoritratti per scrutarsi allo specchio, si dedica dapprima alle copie a colori dai suoi artisti preferiti, il Cristo nella Pietà da Delacroix ha il suo volto. A fine mese si fa coraggio e ritorna a dipingere all’aperto, ripensa agli ulivi, produce tre nuove tele più piccole. Una di queste è senza cielo, dai toni tutti autunnali, e ci avvolge completamente. Un invito a entrare in questo riparo naturale, così generoso. Parte di una collezione privata, sono settant’anni che quest’opera non viene esposta, e forse sarà difficile rivederla.
“Bisogna faticare, e molto…” scrive a Bernard i primi di ottobre. “Si tratta di dare al sole e al cielo blu la loro forza e il loro splendore, ai terreni bruciati e così spesso melanconici, il delicato aroma di timo. Gli uliveti qui farebbero al caso tuo, quest’anno non ho avuto la fortuna di riuscire a farli bene, ma mi propongo di riuscirci”. È un motivo provenzale che Vincent sa essere nuovo, non esplorato, non abbastanza: “ne ho visti alcuni fatti da vari pittori, me compreso, che, in fede mia, non rendevano affatto la cosa. – In principio è come un Corot, quel grigio argenteo, e soprattutto non è ancora stato fatto – mentre invece tanti artisti sono riusciti a fare i meli, per esempio, e i salici”.
Un sole giallo inonda una nuova tela di novembre, ripensata da capo dal punto di vista compositivo e pittorico. C’è un sole sacro che avvolge, illumina la sua resurrezione, prendendosi tutto il cielo. Per la prima e unica volta nella serie, Vincent ritrae un ulivo reciso in primo piano, che ci mostra orgoglioso le sue chiome argentate, riscaldate dal sole di novembre. Un “orgoglioso sconfitto” forse anche qui, come il grande albero con il tronco mozzato che incontriamo in mostra Nel giardino dell’ospedale . In un sapiente intreccio di metafore tra forme e colori, Vincent ci racconta la forza misteriosa della natura, la sofferenza, la salvezza, la rigenerazione.
Una risposta agli amici pittori che lo avevano “fatto arrabbiare con i loro Cristi nell’orto degli ulivi, in cui nulla è osservato” confessa a Theo, “probabilmente l’amico Bernard non ha mai visto un ulivo”, aggiunge ironico. In novembre il dibattito si è riacceso, è motivo di tensione, Gauguin gli ha mandato uno schizzo sulla lettera (in mostra), Bernard una fotografia. “Pensare e non sognare”, è “il nostro dovere”, ribatte Van Gogh – con evidente allusione ai lavori “alla Rédon” che Vincent non amava, e al contesto parigino che si era lasciato alle spalle. I suoi amici stavano creando scene bibliche “moderne”, opere visionarie dalle forme sintetiche, rivelatrici di una nuova verità rifacendosi a un’antica iconografia. Questi esempi lo mandano su tutte le furie, gli danno “un penoso senso di ruzzolone anziché di progresso”.
Ed è proprio perché Vincent conosce la Bibbia e la pittura religiosa come le sue tasche che sa andare oltre, “La Bibbia, la Bibbia: Millet è stato educato così dall’infanzia, non faceva che leggere quel libro, eppure non ha mai dipinto, o quasi, quadri biblici” spiega all’amico Bernard, “… per dare un’impressione di angoscia, si può cercare di farlo senza puntare allo storico orto di Getsemani, per rendere un soggetto consolante e dolce non è necessario raffigurare i personaggi del discorso sulla montagna…”. ‘Consolante’, qui, è una parola chiave, l’arte come consolazione attraversa tutta l’opera di Van Gogh. Ma non va dimenticato che il dibattito con Gauguin e Bernard, cruciale per la storia dell’arte, ha a che fare anche con il dovere dell’artista.
“Corot ha fatto un Jardin des Oliviers con un Cristo e la stella del pastore, sublime. Nella sua opera si sentono Omero, Eschilo, a volte anche Sofocle, come il Vangelo, ma in modo così discreto e privilegiando sempre le sensazioni moderne, possibili, comuni a tutti noi” (corsivo mio), scrive nella stessa, lunga lettera a Bernard. Sta proprio qui la forza di Van Gogh, l’unica arte possibile è per lui quella che sa parlare a tutti, e che accomuna; “rivolgersi al popolo” rimane la sua idea. Una posizione forte, politica, soprattutto se pensiamo all’esotismo primitivo che perseguiva Gauguin, l’arte per una élite – il mito dell’evasione, del selvaggio da una “civiltà corrotta” – nell’espressione di Gauguin.
E allora sappiamo ancor di più apprezzare la serie delle ultime tele sul tema. Nella prima entrano in scena una donna e un uomo che raccolgono le olive, nell’altra (che ripeterà due volte) vediamo la scala tipica a ‘cavalet’, con tre donne intente nella raccolta. Sono immagini che comunicano una calma e una tranquillità straordinarie. Consolanti, anche. Questa è la vita, il ciclo della natura, sotto cieli più ampi che mai – sinfonie di gialli, rossi, rosa, tra albe e crepuscoli, nel freddo di dicembre.
“Non proverò a dipingere un Cristo nell’orto degli ulivi” aveva scritto il mese prima, “ma la raccolta delle olive, come la vediamo ancora oggi, dandovi l’esatta proporzione delle figura umana, probabilmente farebbe pensare proprio a quello”. Qualcosa di immensamente antico.
Ricerca scientifica
Alcune sezioni della mostra illustrano i risultati della ricerca svolta sulle quindici tele degli ulivi (quasi tutte esposte). Molte le sfide in campo, basti solo pensare che prima di questi studi, l’identificazione di alcune versioni che Vincent descrive nelle sue lettere era ancora incerta: non facile, sempre di “ulivi” si tratta. Ora invece – grazie anche al conteggio computerizzato della trama e dell’ordito delle tele, che ha permesso di ricostruire la sequenza dei tagli di Vincent dai rotoli di tela che gli inviava Theo – possiamo contare su di un’accurata sequenza e cronologia. Una base solida per ogni studio.
Granelli di sabbia, semi, steli, impronte di insetti, o frammenti di insetti intrappolati nel colore, tutti dettagliatamente analizzati nella sezione scientifica del catalogo, testimoniano quanto Vincent amasse lavorare en plein air. “Durante la documentazione tecnica del dipinto Uliveto nella nostra collezione” mi racconta Margje Leeuwestein, conservatrice al Kröller-Müller Museum, “Rik Klein Gotnik, il nostro fotografo tecnico, mi ha fatto notare una sottilissima traccia proprio al centro del quadro. Sorpresi, ci siamo resi conto che si trattava delle impronte delle zampe di un insetto che aveva camminato nel colore fresco, per ben 18 centimetri. Poi, in basso a sinistra, abbiamo trovato un’altra lunga traccia, ma meno definita, di un insetto più grosso, che ha lasciato anche impronte verdi, dal pigmento accanto. Una conferma di quello che pensavamo, che Van Gogh ha dipinto la prima fase di questo quadro all’aperto”.
Tra immagini al microscopio di insetti o di pennellate, o dettagli di zone preservate dalla luce sui bordi delle tele, possiamo scoprire i materiali, i supporti, i pigmenti, e i procedimenti di lavoro di Van Gogh. Questi aspetti, così importanti per uno studio dell’opera vangoghiana, confermano ancora una volta il ruolo cruciale che i musei hanno nella conservazione e nella ricerca scientifica. “La sfida più grande” ricorda Margje Leeuwestein, “è stata quella di mettere a confronto i dati di tutti i dipinti di Uliveti, che sono sparsi nei musei di mezzo mondo. La squadra di ricerca – conservatori, scienziati della conservazione e storici dell’arte – ha potuto studiare le tele senza cornici al Museo Van Gogh, al Metropolitan, al MoMA e al Kröller-Müller Museum. Un progetto interdisciplinare entusiasmante, indagare così a fondo questo ciclo di Van Gogh è stato fantastico, oltre che un grande onore”.
La questione del colore e delle sbiaditure nel tempo – un tema già studiato dal Museo Van Gogh con risultati sorprendenti per la Camera da letto – mostra anche qui i punti critici di alcuni colori.
Il problema maggiore è lo scolorimento del rosso, in particolare la lacca geranio (che contiene eosina), un pigmento organico molto sensibile alla luce. Troppo bello per rinunciarvi, Vincent ne usa ancor di più: “Hai fatto bene a dire a Tasset che bisognava comunque aggiungere la lacca geranio, me l’ha mandata, ho appena verificato” scrive al fratello da Arles. E prosegue, sottolineando con forza: “tutti i colori che l’impressionismo ha fatto diventare di moda sono mutevoli, ragione di più per utilizzarli coraggiosamente molto puri, il tempo li addolcirà fin troppo”.
Fatto è che quando Van Gogh parla di viola, violetto o rosa – descrivendo puntigliosamente i colori delle opere in corso – spesso questi colori non corrispondo a ciò che vediamo oggi. Quasi tutte le tele della serie degli ulivi hanno sofferto in una certa misura. Come scrivono Kathrin Pilz e Muriel Gedolf nel loro contributo al catalogo “L’ampio uso di lacca geranio e di due varianti di lacca di cocciniglia – pure o miste ad altri pigmenti – hanno comportato nel tempo una sensibile alterazione nei colori e nei contrasti”. Vincent amava questi pigmenti, che usava per ottenere toni contrastanti più accesi – come per il suolo o per i cieli. Così, per esempio, le ombre azzurro-grigio degli ulivi con il sole giallo (Minneapolis), dovevano essere violacee, i cieli delle ultime tele di dicembre (sopra illustrate, Otterlo, Atene, e ricostruiti in mostra) molto più intensi, nei rosa e nei rossi, seguendo uno schema coloristico ben preciso, ad esaltare la legge dei contrasti simultanei, giallo-viola, rosso-verde, blu-arancio.
E così ci rendiamo conto con stupore che il “colorista arbitrario” che voleva essere, e che ancor oggi ci appare così audace, lo era molto, molto di più.
Un trittico incompiuto, ‘ricordi della Provenza’
Van Gogh pensava spesso alle sue opere in dittici, trittici o anche polittici, come possiamo vedere negli schizzi delle sue lettere a Theo. L’uliveto, un tema così importante per lui dal punto di vista artistico e umano, non fa eccezione. Almeno nella sua mente. Al centro di questo trittico c’è la sua grande passione, i libri e la lettura, in una vetrina luminosa che non dipinse mai. Da un lato gli ulivi, forse proprio quelli firmati, dall’altro un campo di grano. Proviamo a immaginarlo, non è difficile. Una sinfonia di verdi, di azzurri e di gialli, una luce nelle tenebre. Il dittico rembrandtiano, La lettura della Bibbia e L’agonia nell’orto degli ulivi, il “pendant” delle stampe che aveva scelto per camera sua a Laeken, sembra ritornare qui come un faro ancora vivo, in versione moderna:
“Mi dico sempre che in cuor mio desidero dipingere un giorno una libreria che vende romanzi con la vetrina giallo rosato, di sera, e i passanti neri – è un soggetto così essenzialmente moderno. Guarda, sarebbe un motivo che starebbe bene tra un uliveto e un campo di grano, la semina dei libri, delle stampe. Ci tengo proprio a farlo, come una luce nelle tenebre”, scrive al fratello Theo a fine novembre 1889, quando stava dipingendo i suoi ultimi uliveti.
Il 20 Maggio 1890 Van Gogh lascia Saint-Rémy, per stabilirsi a Auvers-sur-Oise, a trenta chilometri da Parigi. Nel suo ultimo blocchetto schizzi, un piccolo delicatissimo taccuino a quadretti, dedica alcune pagine a un gruppo di disegni dai suoi dipinti provenzali. È raro vedere questi piccoli tesori, sono esposti raramente. L’idea, non realizzata, era quella di un album di incisioni, che poteva stampare con la pressa del dottor Gachet – “ricordi della Provenza”, da dare agli amici. E tra gli schizzi eseguiti a memoria dai suoi lavori che sentiva i più forti, come i Girasoli, o gli Iris, ci sono anche le Donne che raccolgono olive.
Van Gogh Museum, Amsterdam
11 marzo – 12 giugno 2022
Per saperne di più
Il catalogo della mostra, Van Gogh and the Olive Groves, è a cura di Nienke Bakker (Van Gogh Museum) e Nicole E. Myers (Dallas Museum of Art), con contributi di Nienke Bakker, Teio Meedendorp, Nicole R. Myers, Kathrin Pilz e Muriel Geldof, Louis van Tilborgh (Yale University Press, 2021). Per uno studio scientifico comparato delle tre versioni della Camera da letto di Van Gogh si veda Van Gogh’s Bedrooms, a cura di Gloria Groom (Yale University Press, 2016). Tra i libri recenti: Van Gogh’s Finale: Auvers and the Artist’s Rise to Fame, di Martin Bailey (Frances Lincoln, 2021); Through Vincent’s Eyes. Van Gogh and His Sources, a cura di Eik Kahng (Yale University Press, 2022).
• Si segnala inoltre che alla Courtauld Gallery di Londra è in corso la mostra: Van Gogh. Self-Portraits, a cura di Karen Serres, la prima mostra dedicata agli autoritratti di Van Gogh (3 febbraio - 8 maggio 2022).