Galleria Borghese / Damien Hirst, Archelogy now
Fendo l’aria torrida e appiccicosa di una Roma sfinita di fine luglio e arrivo, quasi nuotando nell’aria, alla biglietteria della galleria Borghese. Il mio biglietto, acquistato diversi giorni prima, è quello del turno 17:00-19:00 con la dicitura “Galleria Borghese + Damien Hirts - Archeology Now”. In attesa che diano il via libera alla mia batteria, uno dei turnisti mi domanda: «ma lei è qui per vedere la galleria o la mostra di Hirst?». «Hirts!», rispondo con una sicurezza che non dura nemmeno il tempo della monosillabica risposta, perché, proprio quel “più” frapposto tra i due nomi, è segno che indica contemporaneamente sia una separazione/disgiunzione che una congiunzione additiva. Una prima ambiguità, o aporia, a cui si aggiunge subitanea quella del titolo ossimorico della mostra, Archeology now.
L’esposizione (ovvero il secondo termine dell’addizione), curata da Anna Coliva e Mario Codognato con il patrocinio di Prada (aperta dall’8 giugno fino al 7 novembre), raccoglie più di ottanta opere provenienti dalla serie Color Space e da Tresaures from the Wreck of the Unbelivable. Quest’ultimo era il titolo della monumentale mostra svoltasi nel 2017 a Palazzo Grassi e Punta della Dogana (Venezia) dove l’artista aveva messo in scena un borgesiano gioco narrativo-finzionale esponendo una serie di statue di diverse dimensioni (spesso ostentatamente monumentali) e materiali raffiguranti eroi, divinità e personaggi mitologici (teste di Medusa, unicorni, ciclopi, faraoni e, ovviamente, Mickey Mouse, mito contemporaneo per antonomasia) ricoperti da incrostazioni coralline poiché, ci racconta l’artista in una intervista (fake), «la maggior parte della loro vita si è consumata soprattutto in fondo all’oceano».
La leggenda racconta infatti del naufragio del vascello Apistos (che in greco significa l’“incredibile”) che, tra la metà del I secolo e l’inizio del II d.C., trasportava a bordo la collezione di opere antiche, in-autentiche mirabilia, messe insieme dal facoltoso Cif Amotan II (anagramma di “I am a fiction”) e ripescate, circa duemila anni dopo, da una squadra di archeologi subacquei sollecitata dallo stesso Hirst. Ad accompagnare le opere della mostra veneziana vi era una serie di scintillanti fotografie apposte nelle lightboxes a segnalare e documentare la verniana spedizione di recupero dei reperti (operazione che segna anche un beffardo smacco allo statuto di veridicità del mezzo fotografico/documentario). Gioco finzionale che interseca i loci della letteratura fantastica (dagli spazi allucinati e enciclopedici di Raymond Roussel, alle “invenzioni” di Adolfo Bioy Casares) e gli espedienti del cinema fantasy infarciti da una patina pseudoscientifica che li riconnette alla Sci-Fi, fino ad arrivare a X-Files.
“I want to believe” era infatti lo slogan-manifesto della serie con Fox Mulder e Dana Scully; motto che l’artista sembra far suo inducendo lo spettatore a credere nell’unbelievable, credere a quella borgesiana finzione come unica verità dell’arte. E se a Venezia sollecita i nostri dubbi presentandoci diverse gradazioni di vero e falso – laddove le opere a carattere più mimetico e verosimile appaiono maggiormente ingannevoli e inautentiche poiché, al contrario, la “sincerità” è tanto più forte quanto più è ostentata la finzione – nel reenactment di villa Borghese questo gioco differenziale viene esacerbato dalla presenza delle opere “autenticamente” antiche producendo un continuo dondolio di avvicinamenti e allontanamenti temporali e portando, contemporaneamente, a riflettere sulla continuità o discontinuità del discorso storico-artistico. Se come ricordano Lucia Corrain e Mirco Vannoni (si veda il contributo pubblicato il 21 marzo 2021 su «Antinomie», L’ellissi riflessa. Le fatali attrazioni nel vuoto di Eco e Narciso) già Salvatore Settis rivede la sua posizione riguardo la presunta frattura tra l’arte del passato e quella contemporanea affermando che tra le due vi sia invece «una perpetua tensione», la mostra di Hirst sembra restare sospesa a mezz’aria per ricordarci che il tempo è a ogni momento questa continua discontinuità.
Con le incrostazioni di coralli, gorgonie e spugne che simulano l’antico, l’artista vuole fingere il passato. Non le statue, i documentari e le fotografie sono oggetto di questo inganno ma quel che viene finto è il tempo stesso. Con la loro artificiosa patina d’antico, le opere presentate ad Archeology now (ed è questo il senso del titolo) nascono infatti come pezzi archeologici, nascono già cariche e ricoperte di tempo, come se il passato fosse consustanziale alla loro genesi. Incrostazioni di tempo che ci ricordano che il tempo stesso è un’incrostazione, una sedimentazione additiva come quel “più” che separa e unisce la Galleria Borghese e Damien Hirst. Allora l’artista, doppiando il tempo finto dalle sue opere, diventa a sua volta organismo altro che si sovrappone all’esistente o, piuttosto, altra vita che si innesta sulla morte. Una protuberanza, quasi un parassita che aggiunge e allo stesso tempo ruba e corrode lo spazio poiché, come il tempo archeologico, ogni moto additivo necessita anche di uno sottrattivo per far sì che il passato non affolli o affoghi il presente e abbia sufficiente aria per ripensarsi e reinventarsi (moto inverso-sottrattivo esemplificato dalla Coppia di schiavi destinati all’esecuzione – 2011 – e la loro carne morsa dal tempo).
Non so mai dove finisca l’opera e inizi il mio sguardo e forse, proprio per questo, ho sempre avuto un debole per le superfici trasparenti – il vetro, gli acquari, le teche. È quella loro duplice funzione inglobante e respingente ad affascinarmi. Nel caso delle teche, è il loro essere sistema chiuso e aperto che permette all’occhio sia di attraversare la superficie che di restare sulla superficie dove veniamo rifranti, doppiati, intrappolati. Nelle mani di Hirst, le teche si trasformano spesso in micro-sistemi, come fossero mise en abyme della vita o, piuttosto, della continua circolarità tra vita e morte dove proprio il movimento circolare indica The physical impossibility of death in the mind of someone living (1991) (ci dice il titolo del celebre squalo conservato sotto formaldeide cui l’artista ha precluso il tempo della morte e la sua azione sottrattivo-additiva). Così, anche le statue incrostate di tempo presentate ad Archeology now ci parlano della vita che prolifera dalla morte e dell’orrore della morte che sopravvive alla vita.
Sottratte dalla voragine dell’oceano, da quel sistema chiuso delle imbarcazioni inabissate che le avevano a loro volta strappate dal tempo della vita e restituite alla natura, tornano di nuovo alla cultura esposte nelle teche-acquario (idea già presente nella poetica di Hirst, come dimostra la teca-acquario di Lost love del 2000) del sistema-museo. Seconda mise en abyme, quasi un “effetto matrioska”, che trasforma anche lo spettatore in un organismo parassitario, in un'altra vita che si addiziona e si confonde con la morte. Così, la batteria di turnisti nuota nello spazio museale rifrangendosi e sdoppiandosi sulla superficie delle teche che talvolta permettono di guardare letteralmente il passato attraverso la trasparenza del presente, altre volte trasformano l’osservatore in oggetto osservato inglobandolo dentro al gioco di riflessi e sovrapposizioni che fonde tempi diversi e ci ricorda quanto la vita sia questa circolarità infinita di eternità effimere.
Damien Hirst, Archelogy now, Galleria Borghese di Roma, visitabile fino al 7 novembre 2021.