Diario americano / Che cosa dire a un complottista
Il 14 dicembre 2020 gli Stati Uniti hanno superato la soglia dei 300.000 morti di Covid, il vaccino Pfizer ha cominciato ad essere distribuito e i grandi elettori dei singoli stati hanno confermato che Joseph Biden ha la maggioranza necessaria per essere dichiarato presidente degli Stati Uniti. Tre fatti che da soli basterebbero a riempire molte pagine, ma mentre me li allineavo in mente stavo pensando a un recente servizio della CBS, un’inchiesta su coloro che hanno deciso di uscire dalla realtà condivisa e salire sulla navicella della realtà.2 proposta dal movimento QAnon.
Buona parte del servizio era una lunga intervista con un giovane nemmeno trentenne, sensibile, pacato, affabile, sinceramente convinto che il mondo sia dominato da una élite di pedofili cannibali (sì, anche cannibali) i cui capi vanno trovati nella dirigenza del Partito Democratico, nei grandi finanzieri e nei media. Donald Trump è l’unica difesa contro la cabala internazionale dell’élite globalista, e ora che la vittoria gli è stata sottratta con la frode la lotta continua perché si tratta di salvare il mondo. Lui, attaccato al suo computer tutto il giorno, promette di fare la sua parte senza tirarsi indietro. Il giornalista lo lascia mentre sta andando a una manifestazione in favore di Trump.
A un esperto di complottismo intervistato subito dopo il giornalista chiede: “Come si parla a queste persone, se una di loro è un nostro parente, compagno, amico, collega? Come si fa a non rompere il contatto umano, a non lasciarli soli?” La risposta è: “Non cercate di fargli cambiare idea, non presentate fatti o argomenti razionali. Fateli parlare di ciò di cui hanno veramente paura”. E, a quel punto, a me è venuto in mente l’Uomo degli Arcieri.
Non troverete il suo nome da nessuna parte, sono io che lo chiamo così. Qualche anno fa un signore sui quarant’anni, alto, capelli ricci, viso sorridente, cartelletta sotto il braccio, si presentò alla porta del mio ufficio durante l’ora di ricevimento, chiedendo se poteva entrare. Pensavo che fosse uno studente di ritorno, che dopo aver lasciato l’università per ragioni di famiglia e lavoro volesse tornarci per completare un Master, e gli dissi di accomodarsi.
Ringraziandomi profusamente, non perse tempo ad aprire la cartelletta che aveva con sé e mi mostrò un disegno. Spiegò che era venuto da me perché come professore d’italiano potevo apprezzare il valore della sua scoperta. La chiave della Divina Commedia! Aveva scoperto la chiave della Divina Commedia, e stava nell’illustrazione che mi mostrava.
Era la riproduzione di un disegno di Michelangelo, Arcieri saettano un’erma, opera databile tra il 1530 e il 1533. Dopo essere passato per molte mani, e anche sopravvissuto a un incendio, il disegno appartiene ora alla corona inglese e si trova nella collezione reale del castello di Windsor. Raffigura undici arcieri nudi, uomini e donne, che con grande vigore lanciano frecce contro una colonna quadrangolare nel quale sono scolpiti un busto e una testa umana – anzi divina, perché tali colonne erano dedicate a Ermes (da cui erma) e venivano poste agli incroci delle strade come buon augurio ai viandanti, di cui Ermes-Mercurio era il dio protettore.
La sostanziosa letteratura relativa al disegno in questione nasce da ciò che Michelangelo non ha rappresentato. Gli arcieri hanno le braccia tese nella posizione giusta, ma in mano non tengono nessun arco (solo uno degli arcieri lo stringe, ma è un fauno, e non sta scagliando scagliare una freccia). Eppure le frecce ci sono, molte si sono confitte nell’erma, però gli arcieri, nonostante i loro muscoli ben allenati, non sembrano avere buona mira, perché nessuna freccia raggiunge il centro del bersaglio. Nel frattempo, ai loro piedi dorme un Cupido alato, stringendo un piccolo arco, e due putti accendono un fuoco.
In genere, il disegno viene spiegato come un’allegoria neoplatonica del processo di creazione artistica. Gli arcieri sono mossi dal furor, dall’impeto dell’ispirazione, ma il furor non basta per cogliere il bersaglio (realizzare l’opera). È necessario l’amore, e se l’amore dorme, e non è lui a saettare col suo arco, il bersaglio non viene raggiunto e l’opera non viene creata.
Gli archi non si vedono, ma non è detto che non ci siano. Possono stare nella mente degli arcieri, o può darsi che Michelangelo fosse più interessato al gioco visivo dei muscoli tesi, che sarebbe andato perso aggiungendo un arco per ogni braccio. Non so, non sono un esperto, e ogni studioso potrebbe correggere o completare quello che ho appena scritto, ma il neoplatonismo di Michelangelo non era, in ogni caso, ciò che preoccupava il mio visitatore.
No, infatti, perché iniziò a spiegarmi che quel disegno conteneva il senso, il succo, l’essenza della Divina Commedia. Erano anni che lo studiava, mi disse, e tutto quadrava. I numeri, soprattutto. Il conteggio degli arcieri e quello complessivo delle figure, nonché il numero delle braccia e delle frecce conficcate nell’erma, erano la prova indiscutibile che Michelangelo stava pensando alla Divina Commedia quando l’aveva composto. Lui ci stava scrivendo un libro, su quel disegno come chiave della Commedia. Lo stava cominciando, ce l’aveva in progetto, ci stava ancora pensando ma era questione di poco, l’avrebbe presto cominciato, gli era appena venuta l’idea, ma aveva bisogno di aiuto, di sapere che cosa cercare, che libri leggere, che studiosi contattare, perché la sua era una scoperta che poteva cambiare il mondo.
Ora, conosco abbastanza lettori di Dante, nonché affermati dantisti, per poter affermare con sicurezza che Dante fa impazzire. Non è per tutti. Per certe menti impressionabili è come arrivare a Gerusalemme con una Bibbia in mano e d’un tratto mettersi a profetare per le strade (mi dicono che i casi sono frequenti). Per certuni, leggere troppo Dante è come sottoporsi a una costante Sindrome di Stendhal. Il signore gentile con il Michelangelo in mano non era il primo “pazzo per Dante” che incontravo, ma certamente la sua ossessione era la più inconsueta che avessi mai constatato. E anche la più incomprensibile.
Non riuscivo a districarmi nella numerologia che mi proponeva, non riuscivo a capire che cosa mai c’entrasse quel disegno con l’architettura della Commedia e soprattutto con quel codice segreto che lui sosteneva di avere scoperto, di essere a un passo dallo scoprire, di avere intravisto, di avere sospettato, che gli era appena balenato. Ma più gli sollevavo dubbi e gli ponevo questioni razionali, o che a me parevano tali, più lui si avvitava in spiegazioni arcane, ripetizioni, corti circuiti mentali, scintille cerebrali che scoppiettavano rapide, si spegnevano subito e non portavano da nessuna parte. Non era aggressivo, alle mie rimostranze non si arrabbiava affatto, anzi il suo sorriso si faceva sempre più largo, così come appariva sempre più palese la sua soddisfazione di avere finalmente un “professore” che lo stava a sentire (e chissà quanti altri aveva afflitto, molto meno pazienti di quanto un “professore” sia tenuto ad essere, prima di venire da me). Intanto il tempo passava, io avevo altro da fare, e lui non accennava a chiudere l’argomento.
Senza pensarci, d’istinto, mi venne in aiuto il mio psicanalista interiore. Bruscamente gli chiesi: “Come sta sua madre?”
Il signore gentile si fermò a metà di una frase, a schiena ritta e bocca aperta, come se avesse sbattuto contro un muro di vetro. Ridacchiò, divertito e nervoso, e borbottò: “Eh, la vecchia Arsenico…”. Gli chiesi: “Come, scusi?” “Sì, Arsenico,” disse lui. “La chiamano tutti così, mia madre.” “La chiamano Arsenico?” “Eh, non va mai bene niente, a mia madre,” disse lui. “È sempre così arrabbiata, così sarcastica, ha sempre da dir male di tutti. Eh, Arsenico”.
Il furor che l’aveva retto fino a quel momento gli era svanito dal volto, l’arco invisibile che aveva tenuto in mano si era afflosciato, la freccia non raggiungeva più l’erma, forse anche quel piccolo fuoco acceso dai due putti si era spento, quelle braccia tese, pronte a sfondare, a penetrare, a sbrecciare addirittura il marmo, adesso pendevano inerti. Non aveva più niente da dirmi, aveva perso il filo. Poteva sognare di decifrare il codice segreto di Michelangelo e Dante, il gentile signore, ma l’erma di sua madre non si faceva scheggiare. Sarebbe stato il momento di stendere un contratto terapeutico, adesso che lo schermo protettivo della fantasia si era spezzato.
Fateli parlare di ciò di cui hanno davvero paura, e che non è il socialismo, non è Joe Biden, non è la cabala dei pedofili cannibali. Non fateli parlare di Donald Trump, che è solo il loro arciere senza l’arco, lo schermo, il Piccolo Codice, il Piccolo Oggetto del desiderio, la causa-oggetto del desiderio vero, l’ostacolo che hanno inserito di proposito fra se stessi e il Grande Codice, il talismano che li deve proteggere dagli arsenici disseminati nella vita, dal Grande Oggetto al quale per loro fortuna non arriveranno mai, perché la delusione di scoprire che non rivela nulla sarebbe troppo forte, li potrebbe spingere a mettere in atto la violenza che per ora pavoneggiano con i loro AR 15 a tracolla e la minaccia – per il momento ancora vuota, ma non si sa mai – di “riprendersi il paese”.
Ma non era il mio mestiere iniziare una terapia, e io dovevo andare in classe. A insegnare Dante, tra l’altro. Ma ho capito, da quell’incontro, perché tra tutti i personaggi della Commedia l’unico che parecchi miei studenti trovano insopportabile è proprio Beatrice. Perché si mette in mezzo fra Dante e Dio. La cosa non disturba i cattolici, che sono abituati a santi e madonne, ma disturba molto i Christians, che di intermediari non ne vogliono, detestano dover passare attraverso il Piccolo Oggetto del desiderio di Dante, vogliono arrivare subito al Grande Oggetto, ed è difficile ripetergli che devono aver pazienza, che di qualche schermo, di qualche protezione abbiamo bisogno, può andar bene tanto Beatrice quanto un disegno di cinquecento anni fa che ci teniamo stretto come un mandala.
No, non era di mia competenza sottoporre ad analisi l’Uomo degli Arcieri, il Figlio dell’Arsenico, ma non potevo lasciarlo andar via senza uno straccio di consolazione. Gli dissi che la ricerca in cui si era impegnato richiedeva lavoro, studio, letture, ma era anche una grande impresa che avrebbe dato senso a molti anni della sua vita, gli consigliai di leggere Il tormento e l’estasi e lo invitai a tornare a trovarmi solo quando avesse finito il suo libro.
Ora, siccome non siamo tutti terapeuti, né le terapie vengono prodotto in fialetta come il vaccino Pfizer, ci rimane il problema, qui in America, di come parlare con coloro che ancora vogliono morire per Trump. Uno è Ali Alexander, fondatore del movimento Stop the Steal (“Fermate il Furto!”). Il suo emblema è, guarda caso, una mano che stringe un arco, sul quale giace una freccia incoccata. “Sono pronto a dare la mia vita per questa causa,” ha twittato Alexander qualche giorno fa. Un funzionario repubblicano dell’Arizona ha ritwittato: “Lui è pronto. E voi?” Un’ora dopo, il Partito stesso ha mandato un altro tweet: “Questo è ciò che facciamo, è ciò che siamo. O vivi per niente o muori per qualcosa”. Ma hanno dovuto rimuovere il tweet per ragioni di copyright, era una citazione dall’ultimo Rambo del 2008.
È successo pochi giorni prima che i grandi elettori certificassero la vittoria di Biden, ma Trump non molla il colpo, ha iniziato una grande campagna di raccolta fondi a beneficio di se stesso e del Partito repubblicano (al quale andrà, si badi, solo il 25% del ricavato). Ha già raccolto 210 milioni di dollari, perché mai dovrebbe dichiararsi sconfitto se il suo atto di resistenza gli permette di pagare i suoi non pochi debiti? Resisterà fino al 20 gennaio, giorno in cui annuncerà la sua candidatura alle elezioni del 2024 e raccoglierà ancora più soldi. I suoi sostenitori adesso sono un po’ scornati, ma se non cede lui non cedono neanche loro. “Dove va uno vanno tutti” è il motto di QAnon.
Uno che ti dice che vuole morire ti sta dicendo che non ha paura di niente per non dirti che ha paura di tutto. Ci vuole una terapia collettiva che sia almeno di contenimento. Bene, la mia proposta è la seguente: creare uno spazio dove i sostenitori di Trump possano sentirsi sicuri, un Piccolo Oggetto che incarni la stessa funzione del disegno di Michelangelo per il mio gentile visitatore, e che li difenda dal Grande Oggetto (la paura della morte – dell’Arsenico – in ultima analisi della vita stessa, la vita che contiene la morte) che non saprebbero come affrontare.
Un Parco Trump, insomma, anzi una catena di Parchi Trump, da costruire negli stati repubblicani, dove gli elettori di Trump, pagando un modico biglietto potranno entrare in un safe space dove Donald Trump è presidente a vita, Melania Trump è una perfetta padrona di casa, Ivanka Trump è la meravigliosa principessa a cui tutte le ragazzine vogliono assomigliare, in prigioni sotterranee saranno rinchiuse attrici che assomiglieranno a Hillary Clinton, sarà in vendita una riproduzione autenticata del certificato di nascita di Obama rilasciato dall’anagrafe centrale del Kenya, un bellissimo Muro separerà l’ingresso dei bianchi da quello degli ispanici, e uno splendido diorama a colori sgargianti, posto nell’atrio di una riproduzione in miniatura della Trump Tower, mostrerà Gesù che consegna la Costituzione degli Stati Uniti a Donald Trump mentre sullo sfondo i bambini degli immigrati clandestini, rinchiusi nelle loro gabbiette, applaudiranno festanti (che ci crediate o no, i cartelli “Trump / Jesus 2020” li ho visti).
Esistono già parchi biblico-creazionisti dove i cowboy del giurassico cavalcano a dorso di dinosauro (ce n’è uno nella contea di Grant, nel Kentucky, aperto nel 2016, e un altro nella contea di Conecuh, in Alabama, attivo dal 2001); perché non ci potrebbero essere dei Trump Theme Park? Invece di scendere per strada armati di tutto punto, e magari rimanere falciati in uno scontro a fuoco con la Guardia Nazionale, ci si potrebbe sfogare a tirar d’arco contro una fila di erme con la faccia da Tipico Liberal, no? In attesa che l’Uomo degli Arcieri si rifaccia vivo nel mio ufficio con il codice dantesco-michelangiolesco finalmente decifrato, potrebbe essere una soluzione.
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