Baia, Museo Archeologico
“Lost paradise” recita, non senza internazionale ironia, l’insegna del parcheggio, ovviamente a pagamento, e ovviamente vuoto, che ai piedi della rocca accoglie il visitatore del Museo Archeologico dei Campi Flegrei a Baia. Neppure un’auto, neanche una moto dimostrativa. Del resto, se si evitano i mesi obbligati e rumorosi del turismo scolastico e delle vacanze mare pizza e archeologia, il Castello Aragonese, che dal 1993 ospita, ma non sempre espone, gli straordinari reperti che il mare e il bradisismo hanno sottratto all’avidità degli antiquari e alla corrosione degli scarichi industriali – Bagnoli è un fantasma perplesso dietro la punta del golfo – non sembra proprio soffrire di sovraffollamento. Gli orari d’apertura risicati (dalle 9 alle 15, senza contare la pausa psico-fisica riservata gli addetti alla sorveglianza che costringe alla chiusura molte sale all’ora, da sempre sacra, del pranzo) come pure l’assenza rigorosa di ogni, fosse pure incellofanato, genere di conforto, sono, assieme alla provvisorietà dei percorsi espositivi, prove certe di come il Museo Archeologico di Baia sia non soltanto ben lontano da ogni tentazione di iperconsumo o di ipertrofia, ma anche molto distante da ogni, fosse pure moderata, dimensione comunicativa. Persino nel servizio di biglietteria, che coincide con il bookshop nello spazio e nel personale ma non negli orari, impedendo così a chi si trattiene fino alla chiusura di acquietare a forza di cartoline e magneti il proprio colto impulso consumista, il museo sembra mostrare un’antica, rocciosa indifferenza nei confronti della sua utenza. Non che ci siano dimostrazioni di ostilità, assolutamente no, è solo che la presenza di visitatori sciolti dagli obblighi scolastici o torpedonieri suscita franco stupore. Lo tradisce lo sguardo perplesso del custode che controlla l’ingresso seduto in macchina, il saluto quasi ammirato dei numerosi addetti che stazionano cordialmente alla fine del camminamento da cui si accede alle sale espositive, evidentemente in paziente attesa che il tempo si faccia più veloce, ma lo dicono anche le facce smarrite dei solitari visitatori i quali, nonostante abbiano trovato ad accoglierli insoliti e incoraggianti zerbini – Rione Terra, Bacoli, Cuma sta scritto sulle stuoie per niente consumate – hanno però come l’impressione di essere di troppo, avvertendo la inquietante sensazione di aver aperto la porta sbagliata. Parlare a bassa voce qui non è tanto conseguenza di quel carattere impositivo e autoritario del museo (ovviamente adorniano mausoleo) che rendeva così fastidiosa a Valéry la visita del Louvre – “si sta quasi come in chiesa”, più o meno diceva, seccandosi di non poter fumare e usare il bastone nella promiscuità quasi oscena delle sale riservate alla scultura. Nel museo di Baia si mormora piuttosto per paura di essere scoperti, sorpresi, inguaribili voyeurs che sbirciano nelle vetrine e si affacciano sulle ricostruzioni e sui plastici, comunque intenti a celebrare il culto delle didascalie (è stato Remo Guidieri a ricordare che davanti ai cartellini si abbassa il capo come davanti ad una reliquia), impassibili come corazzieri di fronte ai pannelli didattici, sempre troppo fitti, pieni di parole oscure che viene quasi voglia di leggerli in inglese i testi, così allegri e alla mano nelle inverosimili traduzioni. La paura, in ogni caso, è di perdersi qualcosa: le sale sono numerate, ma non si entra dalla prima e non si sa bene quale sia l’ultima, così resta il forte sospetto che, oltre a quelle che occupano il corpo centrale del castello, altre stanze delle meraviglie siano disseminate all’interno della fortezza aragonese, forse chiuse, forse aperte. Nessuna segnaletica viene in soccorso. Tutto tace. Allora si seguono i cani che girano randagi tra le mura del castello e i nastri che indicano i tanti cantieri aperti negli spazi fortificati: in cima, la piazza d’armi è l’epifania di una spazialità metafisica, il castello si apre al paesaggio, l’archeologia delle cariatidi diventa presente assoluto, il museo si fa sul serio casa delle muse. Poi, né tempio né forum, né logo né junkspace, il museo è, di nuovo, aspro terreno vago, nutrito di buone intenzioni e di cattiva coscienza. Una irritante, ma necessaria, meraviglia.