La canzone della libertà di Carlo Pestelli / Bella ciao
Musica e mitologia si somigliano se è vero che la mitologia è il «movimento» di una «massa di materiale tramandata in racconti ben conosciuti che tuttavia non escludono ogni ulteriore modellamento», come ha scritto Kerényi. Entrambe sono fusione di «arte» e «materiale», «espressione conforme ai tempi», piena di significato autonomo e non derivato. Sono un variare sul tema, all'interno di un processo poietico di ricezione e rielaborazione: per Lévi-Strauss (meno intellettualistico e cerebrale di quanto si pensi) «mitologia e musica sono macchine per sopprimere il tempo» il cui linguaggio è quello dell’emotività, generata da una «segreta significazione» capace di suscitare «potenza» e «maestosità» in virtù della «selva di immagini e segni» simili a sortilegi.
Soprattutto, musica e mito si co-appartengono se diventano il canto di comunità esistenti, in cerca di se stesse o ardentemente desiderate. Se dovessi scegliere un caso paradigmatico che conferma tutto questo, sceglierei una canzone, forma codificata e immediata che condensa musica e parola e mette in gioco corpi, strumenti e voci. E tra le canzoni sceglierei Bella ciao, la canzone-mito di cui Carlo Pestelli, musicista e studioso, ha ricostruito la storia culturale, politica e sentimentale nel recente e agile Bella ciao. La canzone della libertà.
Pestelli riannoda i fili della ricerca e della letteratura sulla canzone che più di tutte incarna e simboleggia la Resistenza, benché non sia stata la più diffusa né la più cantata nelle bande e nei fermenti sociali che hanno attraversato i venti mesi della storia della Liberazione. La sua ricerca è piacevolmente narrata attraverso il filtro di una musicologia più sensibile al meticciato che all'erudizione e si spinge nell'archeologia delle matrici musicali e ideologiche di una storia di amore e morte, e di sopravvivenza nel ricordo, che ne fanno un inno di speranza di rara forza e vitalità.
È una canzone immaginifica, narrativa e lirica, un archetipo inventato di canzone antica e popolare che ha un andamento tragico ed epico di riscatto, dolente nella armonia minore e fresco per la struttura ritmica e l'iterazione. Pestelli raccoglie gli studi precedenti e ne rintraccia i prototipi in ballate che raccontano di un amante condannato pianto dalla sua amata fino alle versioni moderne, legate all'emancipazione e al suo prezzo come quelle cantate dai soldati, dalle mondine e naturalmente il canto partigiano, che è la codificazione più nota. Ma il suo è un percorso in cui “versione originale” non significa molto: quandanche fosse possibile rintracciarla, il punto non è quello.
Estranea al primato dell'autore, quella di Bella ciao e dei suoi affluenti è una vicenda di stratificazione, libera circolazione, riappropriazione e rimodulazione all'interno di ciò che Pestelli definisce un «imbastardimento di base». La canzone deve il suo potenziale trasformativo agli effetti che la sua forma produce in chi la ascolta e la riproduce: «rimane impressa da subito nella memoria di bambini in età prescolare, grazie ai battimani che la caratterizzano e allo snodarsi narrativo in cui le strofe si succedono per gemmazione, una di conseguenza all'altra». La sua disponibilità a farsi forma in cavo, per il racconto di chi si specchia in lei, ne fa un ibrido meticcio forgiato dai passaggi attraverso le matrici sorelle e divergenti che si riscontrano già nelle trincee della Grande guerra o tra musicisti itineranti di tradizione yiddish che dall'Europa orientale arrivano in America, prima che nella versione mondina, postuma rispetto a quella partigiana.
Pestelli registra e confronta le varianti minime del testo, che pure non tolgono originalità, e riannoda diverse ricezioni: Bella ciao è presentissima nell'attivismo politico e sociale che recupera le radici della cultura popolare, di cui sono testimonianze l'opera dei Cantacronache e del Nuovo canzoniere italiano, ma circola anche attraverso le versioni registrate di autori noti dagli anni Sessanta in poi, da Yves Montand a Milva, da Goran Bregovic a Manu Chao per arrivare alle tante versioni combat folk che negli ultimi vent'anni hanno accompagnato le manifestazioni di dissenso globale. La storia recente del brano è particolarmente gustosa, perché cantare Bella ciao in Italia ha conseguenze capaci di turbare l'ordine pubblico, spinge i prefetti a vietarne la diffusione, a consentirne solo la versione musicale (è successo nel 2014 a Pordenone); o genera imbarazzo tra le alte cariche istituzionali, come al funerale di Pietro Ingrao nel 2015, in cui in molti tra le autorità non sapevano cosa fare mentre la piazza cantava battendo le mani.
Se la dimensione partigiana è il fulcro di irradiazione della vita contemporanea dal brano, la sua forza di circolazione e seduzione «sta nel raccontare una storia di lotta, di coraggio e di responsabilità umane per tutta una collettività ricorrendo a una narrazione non convenzionale, fatta di ellissi, in cui chi ascolta è come obbligato a riempire gli spazi vuoti con l'immaginazione», come spiega il cantautore catalano Anton Pujadò. Anche chi la conosce bene rimane sorpreso quando scopre che Bella ciao è cantatissima in contesti diversi e lontani, con almeno quaranta traduzioni tra cui quella curda, quella berbera e quella sinti, ma anche ladina, galiziana e bretone. Come in lingua tedesca e inglese, che hanno effetti per noi stranianti, la canzone si modifica per adattarsi ai nuovi contesti, mantenendo inalterato in italiano il titolo e il suo suono centrale. Bella ciao è «globale e alternativa insieme» (Portelli), sempre identica ma nuova in quanto inno antifascista in Grecia, dei braccianti chicani californiani, dei manifestanti turchi; è il coro che la piazza parigina ha scelto dopo la strage della redazione di Charlie Hebdo per difendere la libertà di espressione e rifiutare le strumentalizzazioni anti-islamiche.
Come ogni mito, la canzone è nemica di ogni feticismo dell'origine, ama la disseminazione, sfida il kitsch e rimane credibile a seconda della voce di chi se ne appropria: perché Bella ciao, scrive Pestelli, è un «piccolo bene immateriale che agisce sulla coscienza come qualcosa che arriva da lontano», è la canzone di tutte le liberazioni che «una coralità multiforme di gente ai margini» ha scelto come palinsesto per la sua rinascita.