Bona de Mandiargues, l’alchimia della lumaca 

3 Ottobre 2023

Tracciare un ritratto di Bona de Mandiargues (Roma, 1926 - Parigi, 2000), come è naturale quando ci si trova di fronte al profilo di un’artista “incline alla teatralizzazione di sé” e che ha vissuto “ai duecento all’ora” senza mai alcun rimpianto, implica lasciarne aperti i contorni e libere le forme. A partire dal nome dell’artista, infatti, chi volesse tracciare questo ritratto si troverebbe a dover scegliere tra vari possibili “tasselli” di identità, ognuno impronta di una parte di vita. Nipote di Filippo de Pisis, il “cognome da ragazza” di Bona è Tibertelli de Pisis. Un cognome impegnativo: quando Bona raggiunge lo zio a Venezia per frequentare l’Accademia di Belle Arti, le prime pastose e materiche tele del pittore ferrarese diventano per lei un modello di figurazione. Poi lo zio, maestro anche di vita, nel 1947 la porta con sé in un viaggio a Parigi, dove Bona incontra il futuro marito André Pieyre de Mandiargues, esponente di spicco del secondo surrealismo letterario, che le dà il nuovo cognome “da sposata” e la introduce nel milieu intellettuale surrealista dell’effervescente capitale francese. Qui Bona incontra (o incrocia le traiettorie di) André Breton, Leonora Carrington, Man Ray, Leonor Fini, Max Ernst, Dorothea Tanning, Unica Zürn, Hans Bellmer, Meret Oppenheim, Henri Michaux, Jean Dubuffet, e le sue sperimentazioni artistiche cominciano a diversificarsi e a moltiplicarsi. A partire da questo momento l’artista porta ufficialmente il cognome del marito, ma nelle proprie opere, che sono sempre inevitabili frammenti di sé stessa, sceglie di firmarsi con il semplice, e solo suo, “Bona”. 

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Bona de Mandiargues, Autoritratto, 1952, olio su tela, cm 21 x 17 © Sibylle de Mandiargues. Foto Andrea Mignogna

Nel ritratto di Bona, poi, un’altra variante che complessifica la trama della sua vita è quella dello spaziotempo. Nel corso degli anni l’artista si muove (per vivere o per viaggiare) tra Modena, Venezia, Parigi, la Sardegna, la Spagna, l’Egitto, il Messico, l’India, l’Afghanistan, lo Sri Lanka e il Nepal. Questi spostamenti moltiplicano le sue esperienze visuali, che essa traduce in altrettante molteplici forme compositive ed espressive. Bona sperimenta infatti con differenti materiali e tecniche (dall’assemblage tessile all’impiego di materiali naturali come la sabbia), con forme e figure (dall’informale all’autoritratto in patchwork), con vari stili (dal surrealismo alla neo-metafisica) e con i supporti (dalla tela al legno). Oltre che pittrice Bona è per di più anche scrittrice, poetessa, curatrice, illustratrice, fotografa e performer; la sua opera è stata esplorata da intellettuali come Francis Ponge, Gino Severini, Giuseppe Ungaretti, René de Solier, Octavio Paz, Alain Jouffroy e Italo Calvino.

Ecco perché, osservandolo con attenzione, da questo profilo composito emerge una figura sfaccettata, un mosaico mobile e refrattario ad assumere una forma definita. Questa lettura caleidoscopica della personalità e dell’opera di Bona – le due cose sono, evidentemente, inestricabili – è lecita perché è l’artista stessa a suggerircela. Negli olii dei primi anni Cinquanta, “popolati di oggetti naturali (radici, ciottoli, legni consunti dalla risacca) che il salto di scala trasforma in apparizioni mostruose, le strategie surrealiste dell’accostamento incongruo e della rappresentazione di immagini oniriche aprono uno spiraglio su disturbanti memorie infantili”, come in Le grand Nasicorne del 1952. Ma a partire dalla fine degli anni Cinquanta gli accostamenti non si effettuano più solo tra oggetti portatori di significati incongrui, bensì anzitutto tra pezzi del discorso, parti non significanti, ovvero brandelli di tessuto cuciti tra loro che danno forma a nuove figure. Allo stesso periodo risalgono anche tele a tecnica mista, sperimentazioni materiche che ricordano da vicino l’opera di Alberto Burri (come ad esempio Préhistoire de Venise e Les vêpres siciliennes, entrambe del 1959); ma è con i primi assemblages (che sicuramente guardano ai collages di Enrico Baj, di cui l’artista nel 1974 fa un ritratto intitolandolo Monsieur Teste) che Bona trova la propria vena fertile.

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Bona de Mandiargues, La volta, 1952, olio su tela, cm 22 x 16 © Sibylle de Mandiargues. Foto Andrea Mignogna

La prima in assoluto di queste opere che costellano la carriera dell’artista prende forma nel 1958, quando Bona scuce e riduce in brandelli una giacca del marito, appena prima di partire per un viaggio in Messico che segna l’inizio di un periodo di separazione tra i due. È così che l’anima, ovvero quel pezzo di stoffa cucito tra la fodera e il tessuto che dà struttura all’indumento, diventa “una sineddoche: non più l’anima dell’abito ma di chi lo ha indossato”. L’opera s’intitola Vague à l’âme. Le sperimentazioni tessili permettono a Bona, fino agli anni Novanta, di trovare soluzioni formali che siano sintesi delle proprie ricerche intellettuali, politiche e spirituali. Sin dalla fine degli anni Quaranta l’artista incrocia i percorsi di varie donne attive a Parigi nell’ambito del surrealismo, e in particolare intreccia un legame privilegiato con Unica Zürn. Tra le varie difficoltà incontrate, in quanto donna, nel tentare di farsi strada nel mondo dell’arte, Zürn si trova a lottare anche contro la malattia mentale (un destino condiviso con molte colleghe artiste: pittrici, scrittrici, scultrici, registe), che la porterà al suicidio nel 1970. L’artista e scrittrice tedesca è per Bona una figura fondamentale, in cui vede “un doppio di sé” in bilico su quel confine labile tra sanità mentale e malattia. Varie opere sotto forma di ritratto o omaggio sono dedicate a Zürn, le cui ricerche col filo, usato come una sorta di gabbia del corpo in cui quest’ultimo è legato, ripiegato, costretto e come sezionato (e fotografato da Hans Bellmer, il compagno dell’artista), sono certamente state fonte d’ispirazione per Bona. Il filo è dunque uno strumento doloroso, uno strumento che lacera il tessuto per poterlo penetrare. Ma al tempo stesso è uno strumento necessario: per tessere la trama della tela, per cucire i brandelli di stoffa, per tenere insieme i pezzi dell’identità. È questo il filo conduttore dell’arte (e nell’arte) di Bona: la ricerca dell’unità nella frammentazione e della singolarità nell’universale, senza dimenticarsi che il filo non è solo idea, ma anche tecnica (la cucitura) e soprattutto materia.

Alla base del lavoro di Bona c’è una ricerca che oggi definiremmo senz’altro ecologica. Nella sua autobiografia intitolata Bonaventure (pubblicata nel 1977) afferma: “se ho qualche capacità di dipingere, che mi porta, oltre il desiderio, a scoprire l’ignoto, quello è il frutto o il premio di un’attività molto più artigianale che intellettuale”. Caterina Ghisu ci informa infatti che in Bona “questa dimensione sfocia negli assemblage, che nascono sia per serendipità sia per l’influsso delle attività commerciali del suo quartiere parigino, il Marais, dove proliferano le sartorie e le botteghe di tessuti”. La primordiale démarche creativa dell’artista consiste, quindi, in quell’attività un po’ sociale e un po’ punk che i francesi chiamano “récup” (abbreviazione di récupération), come ci racconta l’artista stessa: “questo mi ha dato l’idea di utilizzare ritagli di vestiti vecchi, come quelle fodere strappate, quelle spalline lacerate, quelle imbottiture che vedo ogni sera nei cassonetti del sarto, che peraltro sistematicamente saccheggio”. Il recupero di materiale di scarto, per di più estratto dalla pattumiera, al fine di trasformarlo per esporlo nelle gallerie d’arte assume in Bona una dimensione alchemica: “la mia ricerca è alchemica” – afferma – “voglio fare dell’oro a partire dagli escrementi. [...] Rifaccio il mondo: là sono altrove, vedo le cose da più lontano”. La manipolazione della materia e della forma è per l’artista un processo al tempo stesso creativo e spirituale; l’arte è metamorfosi, una “prassi alchemica” attraverso cui sintetizzare, rivendicandoli, un innato istinto “magico”, gli innumerevoli riferimenti colti e la critica al produttivismo e alla società dei consumi.

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Bona de Mandiargues, S.T. (Radice), 1953, olio su tela, cm 16 x 22 © Sibylle de Mandiargues. Foto Andrea Mignogna

La metamorfosi della materia e della forma, poi, si accompagna alla riflessione sulla consustanzialità tra l’umano e il naturale. Bona mescola le forme del corpo umano con quelle dell’universo vegetale, minerale e animale, creando un continuum formale che delinea il profilo di creature fluide come La Femme escargot del 1983 e La Femme montagne del 1991. In un’operazione per certi versi simile a quella di Arcimboldo – dove cioè gli elementi compositivi mantengono la loro natura ambivalente di metafore: chela di granchio-gamba di donna, chiocciola-vulva – Bona crea, soprattutto con gli assemblages, delle figure composite che possono assumere sensi (o significati) molteplici, e stimolare sensi (o sensazioni) diversi. Se l’opera si guarda da lontano vi si può “leggere” una figura, un corpo che prende peso e si stacca dalla superficie piatta della tela. Se si guarda da vicino l’attribuzione di senso resta come sospesa: ai frammenti di forme che l’occhio riesce ancora a decodificare in quanto figure si aggiungono una moltitudine di forme che significano solo se stesse. All’osservatrice e all’osservatore non resta che immergersi nella plasticità dell’opera, nella sua materia, avendo come sola linea guida la traccia del processo creativo di Bona: la “tela su tela”, la cucitura. L’artista, così, infonde scientemente in chi è chiamato a osservare un desiderio proibito (perlomeno al museo), ovvero quello di toccare, di seguire con il dito i contorni delle forme, di “leggere” attraverso il tatto. È il senso aptico, quello che lega la vista al tatto, che Bona ci invita a esplorare, quando nel ritrarre la propria mano protesa verso di noi (Ma main, 1992) fa terminare ogni dito con un occhio – la mano come estensione dell’occhio.

Una “mano-lumaca”, che interseca un’altra vena creativa fertile dell’artista: la ricerca formale sui gasteropodi. La lumaca, ci dice Bona, è un “animale lunare e lunatico, simboleggia il movimento nella permanenza”. È un simbolo legato alla femminilità, con il suo corpo umido che è il sesso e la sua chiocciola che è la casa – il suo universo –, ma a una femminilità mobile, indipendente ed emancipata (come si evince da La Fierté de l’Escargot del 1972, da La Lubricité del 1970 e da Escargot de Vénus, un cortometraggio di Walerian Borowczyk sui disegni di Bona, del 1975). Essa “non è solo rappresentata, ma rappresenta: è una forza creatrice universale”. Ma la lumaca è soprattutto un animale ermafrodito che permette a Bona di integrare il maschile e il femminile (l’androgino), il carnale e l’artificiale, la necessità della natura e la scelta dell’artista. Da Paul Valéry (L’homme et la coquille, 1937) a Fancis Ponge (Notes pour un coquillage, 1942) a Italo Calvino (La spirale, 1965), il mollusco e la sua conchiglia sono al centro della riflessione sulla creazione come fenomeno al tempo stesso biologico e artistico, sulle caratteristiche di un “artefatto naturale”, di una traccia (fissa) del vivente (mobile). Un animale “primordiale”, il cui guscio compare con ricorrenza, tra l’altro, anche nelle tanto osservate tele dello zio Filippo de Pisis.

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Bona de Mandiargues, Preistoria di Venezia, 1959, tecnica mista su tela, cm 60 x 120 © Sibylle de Mandiargues. Foto Andrea Mignogna

Proprio Italo Calvino, nel testo di presentazione di un’esposizione di Bona a Roma (alla Galleria San Sebastianello, Studio S Art e Contemporanea, nel 1973), sovrappone l’artista alla chiocciola: “BONA […] manda in pezzi e tagliuzza la figura del mondo, […] riduce punto per punto il tessuto vivente continuo come il filo che passa e ripassa e connette i velluti i broccati gli stracci, […] punge con aghi d’incantesimo il vortice e lo cattura in una screziata spirale, come in una screziata spirale la chiocciola assorbe frammenti cristallini di sabbia e di pietra per secernere una forma continua che risponda alla forma del mondo e difenda dal mondo la sua tenera polpa, e attraverso il suo palpito intriso di succhi la frana del guscio del mondo in frantumi s’aggrega nella continuità attorcigliata che è guscio e specchio del mondo, COSÌ”. Il “movimento della permanenza” è dunque la spirale, quella forma dell’eterno ritorno ma con variazione sul tema, quello che Vladimir Nabokov definisce “cerchio spiritualizzato”.

L’opera di Bona è ora in mostra in quella che è la prima grande retrospettiva dell’artista al Museo Nivola a Orani (NU). L’esposizione, a cura di Giuliana Altea, Antonella Camarda, Luca Cheri e Caterina Ghisu raccoglie 71 opere comprese tra il 1950 e il 1997, e permette di ripercorrere la vita e il lavoro di una delle protagoniste del surrealismo, ancora poco esplorata dalla critica e dal pubblico. Il titolo della mostra, Bona de Mandiargues. Rifare il mondo, invita le spettatrici e gli spettatori a coniugare il verbo al presente. Rifare il mondo a partire da quello che c’è, trasformare tramite pratiche alchemiche la materia di cui è fatta la realtà, per conoscerla più intimamente, sublimarla, scoprirne forse uno dei molteplici sensi: “sono un po’ la madre dell’arte povera. Se ho scelto questi materiali molto umili, non era, non è, per cercare di fare neo-dada. Come per il tessuto del saio di san Francesco, si può dare loro una nobiltà che rasenta il sublime [...]. Per rappresentare il mio particolare universo, la mia coscienza di lumaca si è svegliata: ho rivoltato le giacche da uomo (il loro guscio), ho tagliato il vivo per arrivare al cuore dell’armatura, della protezione. [...] Partita dai puri elementi del caso, l’ho letto sempre dopo l’uso, e poi ho scoperto quanto questo caso sia in realtà organizzato, radicato nell’inconscio”.

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Bona de Mandiargues, Diana cacciatrice e cacciata, 1968 assemblage, cm 100 x 80 © Sibylle de Mandiargues. Foto Andrea Mignogna

Bona de Mandiargues. Rifare il mondo,A cura di Giuliana Altea, Antonella Camarda, Luca Cheri, Caterina Ghisu
Museo Nivola - Via Gonare 2 08026 Orani (NU)
16 settembre 2023 – 5 febbraio 2024

In copertina, 

Bona de Mandiargues, La mia mano, 1992, assemblage e olio su tela, cm 100 x 81 © Sibylle de Mandiargues. Foto Andrea Mignogna.

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