Novanta pezzi della nostra storia (letteraria) / Racconti del Risorgimento
Quante narrazioni brevi del Risorgimento sono oggi note a un pubblico di lettori mediamente acculturati: Libertà di Verga, qualche episodio presente in Cuore, forse Senso per via cinematografica? Davvero poco per un periodo che è stato il romanzo d'azione più lungo e appassionante l'opinione pubblica internazionale coeva, nonché un monumento nazionale via via sempre più deteriorato nel corso del secondo Novecento. Grande merito dei Racconti del Risorgimento (Garzanti 2021) di Gabriele Pedullà è dunque in primo luogo presentare quasi novanta pezzi della nostra storia letteraria (e storia tout court) disposto in un arco temporale che va dal 1848 al 1870, per sforare quindi nella memoria successiva che si spinge con Renato Fucini fin al 1921. La galassia degli autori e dei testi si giova di una scheda biografica, di note puntuali per ognuno e di una ricca bibliografia ragionata. Conviene partire però dalla distesa introduzione che, magari letta in parallelo con i testi scelti dal lettore a seconda della propria curiosità, incrocia da prima riflessioni sulla provenienza geografica e l'anno di nascita degli autori (osservatori, protagonisti, ritardatari ed eredi rispetto all'appuntamento con la storia), soffermandosi quindi in piccole monografie sui tre “rapsodi” di maggior corso e talento – De Amicis, Abba e Verga –, e finire alla contraddittoria interpretazione del dopo tra pedagogia del ricordo e revisione critica.
Leggendo i racconti si colgono diversi assi dialettici, per altro in cambiamento lungo venti o trent'anni di storia letteraria, come quelli tra autori maggiori e minori, o addirittura dimenticati, tra i generi racconto, romanzo e poesia, magari all'interno di uno stesso scrittore, che permettono una visione d'insieme rifratta tra Prima, Seconda e Terza Guerra d'indipendenza (centrale questa come non si penserebbe visto la sostanziale sconfitta militare), impresa dei Mille, fatti d'Aspromonte, presa di Roma e post-unificazione. Per esempio si completano le figure autoriali di Nievo e Collodi, spesso identificate con un'opera sola, attraverso le sfaccettature di una scrittura militante e satirica piuttosto inedita perché dispersa in libri poco accessibili. Naturalmente non poche sono le scoperte come, per fare un solo nome, l'ex-attore e cantante, pubblicista mazziniano e scrittore, Antonio Ghislanzoni delle tre biografie I volontari italiani, che anticipa di un secolo quanto i narratori e storici della Resistenza hanno affermato rispetto alle motivazioni di tale archetipo di combattente: “emergono principalissimi il sentimento dell'odio, comune a quanti patirono oltraggi e ingiustizie dal dispotismo straniero – il sentimento elevato del dovere nazionale, che investì le classi più intelligenti e più colte – e da ultimo, nei giovani spiriti, la poesia dell'entusiasmo ispirata da un nobile ardore di gloria, da un indefinibile trasporto verso la vita agitata e avventurosa, dalla emulazione, dal culto di un eroe.”
Il panorama assai variegato e mosso scompagina la fissità oleografica e sbiadita da foto di gruppo d'epoca; così si possono percorrere a fondo le linee parallele, e spesso inconciliabili, dei Piemontesi e dei Garibaldini. Quest'ultima magari sorprendentemente affidabile allo scapigliato Emilio Praga, che ritrae il “semplice, calmo e dignitoso” Generale come punto di sintesi della finora discorde orchestra di giovani e vecchi, borghesi e popolani, settentrionali e meridionali: “Questa diceva: ho abbandonata la madre; quell'altra: ho a vendicare un fratello, questa sospirava: volo a un bambinello che pensa perché mai i padri si mutano in soldati; quell'altra gridava: i nostri martiri non si possono numerare – e tutte queste note, miracolo! erano una nota sola, terribile, che tuonava: Guerra agli stranieri!” Anche sul piano propriamente letterario le transizioni sono molte, a partire dallo stile tradizionale per lessico e sintassi verso quello più rapido e rotto di cui giustamente Pedullà retrodata l'origine a questa altezza rispetto al tempo della Grande Guerra, e trova come forse imprevedibile novatore, insieme a Verga e contro il più macerato ma composto Tarchetti, l'Edmondo De Amicis di Quel giorno (1867-9).
Un resoconto veritiero, narrato da un ufficiale a una signorina, di uno scontro laterale a Custoza, guazzabuglio stendhaliano in cui nemmeno ci si rende conto della sconfitta generale, dove si può leggere questa sequenza cinematografica: “Qui una siepe: su le gambe, alti i fucili. Lì un fosso: svelti, è passato. Qua un rialzo di terra: animo, sopra, sensa disordinarsi. Là un intreccio di rami che scendono sul viso: via colla mano, giù le teste. Una vite fa intoppo: giù una sciabolata, è a terra, avanti. Erbe, arbusti, siepi, viti, solchi, sentieri, tutto si sforma, tutto cade, tutto sparisce sotto quell'onda, sotto quel peso, sotto quella pesta precipitosa, sotto quella moltitudine scatenata”.
Ancora il pregiudizio di noi lettori (post)novecenteschi del prevalente patetico pattriottardo, ereditato proprio dal più vulgato De Amicis commisto a quello popolare-romantico del melodramma in una mistura micidiale, viene scosso da una attenta lettura del sapiente e cinico uso di tali atmosfere da parte di Camillo Boito in Senso, attraverso la pervicace ed egolatra voce della narratrice, contessa Livia. Oppure di un lungamente testimoniato filone satirico, che colpisce con Collodi il codino “avvezzo sino dalla più tenera età a rispettare e adorare ciecamente ogni autorità costituita” e l'uomo tranquillo che alla propria pace “tutto sacrifica: patria, indipendenza, libertà” in una grottesca fuga per tutta l'Europa infiammata del Quarantotto, e con il sacerdote liberale Padula che infilza in ordine alfabetico tutte le giravolte degli opportunisti. Altro nemico storico è l'uomo di chiesa che Dossi, stilista pregaddiano nonché funzionario del governo Crispi, osserva da una sala d'aspetto in Vaticano, dove addirittura balena la visione di “un coso bianco, una specie di sacco”, verso cui tutti corrono a prosternarsi, definito il signore di “quel pìccol rifugio dell'ignoranza e delle immobilità, ammorbatore d'Europa.” Siluette, tutte queste (e più i Tedeschi come sono sempre chiamati gli Austriaci), che con altre fogge ma non diversa sostanza, si specchiano nei racconti della Resistenza, a suo tempo ancora curati da Pedullà, a formare un dittico ricco di reciproche suggestioni.
I grandi eventi storici, di solito guerre dolorose, una volta terminati aprono il campo di battaglia della memoria: statue di Garibaldi e di re Vittorio, ossari e odi solenni di poeti ufficiali, sussidiari per la pedagogia della rimembranza e racconti di divulgazioni per adulti, ripensamenti radicalmente critici dei reduci e dei postumi. Anche qui domina la varietà, ma di fronte alla realtà immiserita negli affari si registra il rimpianto dei nani per la passata epopea dei giganti, come nelle rabbiose derive degli Scapigliati o nei frivoli personaggi dei romanzi mondani di Verga. Irrompe allora la narrativa siciliana con la constatazione della vittoria gattopardesca dei ceti egemoni, delle promesse tradite di cambiamento sociale o etico incarnate dai liberali Giulente, che rinnega se stesso per entrare nella folle famiglia dei Vicerè, o dal pirandelliano Ciunna di Sole e ombra che si fa corrompere perché tiene famiglia.
Forse meglio stare con quel Cesare Abba, assai rivalutato da Pedullà, che con modestia e senza retorica (ma pure senza l'astio o l'immeschinirsi del reduce) continua a ricordare momenti e personaggi, anche minori, del suo passato. Forse perché già aveva scontato, alla fine dell'impresa dei Mille, la virile delusione che ogni garibaldino, partigiano o appartenente ad altro movimento collettivo, ha, per lo meno in Italia o in quanto giovane, sempre dovuto affrontare; e in Da Quarto al Volturno lo aveva messo in parole con uno dei più pregnanti finali di tutta la nostra letteratura: “Guardo gli amici. Questo vento ci piglierà tutti, ci mulinerà un pezzo come foglie, andremo a cadere ciascuno sulla porta di casa nostra. Fossimo come foglie davvero, ma di quelle della Sibilla; portasse ciascuna una parola: potessimo ancora raccoglierci a formar qualcosa che avesse senso, un dì; povera carta!... rimani pur bianca... Finiremo poi...”