Il post-marxismo di Ernesto Laclau
C’era ancora il Muro di Berlino quando Ernesto Laclau, scomparso il 13 aprile a 78 anni a Siviglia per un infarto, iniziò a parlare di «post-marxismo». Nato nella temperie culturale del post-strutturalismo, questa nuova declinazione del marxismo entrò in risonanza con un panorama culturale dov’era esploso il neoliberismo della Thatcher e l’edonismo reaganiano. Laclau rigettò il ritornello melanconico della sinistra che celebrava la «morte delle ideologie», e nulla concesse ai liberisti che si applicavano alla «morte della società» in nome dell’individualismo assoluto.
Argentino di nascita, cosmopolita per vocazione, Laclau ha vissuto a Londra dal 1969 dopo il golpe di Juan Carlos Onganìa e ha insegnato nell’università di Essex. La sua ipotesi ha permesso di recuperare l’idea di un pluralismo democratico e di rilanciare l’immagine di Machiavelli teorico del conflitto. Laclau si confrontò con il femminismo, l’ambientalismo, gli studi culturali e postcoloniali, e quanto di meglio emergeva sulla scena inglese dove la sinistra e i sindacati avevano perso la battaglia contro il neoliberismo.
In nome della contingenza
Laclau ha riconosciuto nelle scienze sociali contemporanee un ruolo fondamentale nell’analisi delle identità sociali, interpretate come il risultato di un rapporto di forza e non della distinzione classicamente marxiana tra struttura (economica) e sovrastruttura (ideologica). In tale rapporto emerge una dimensione immanente, e costituente, che Laclau recupera in Gramsci, il teorico di questa immanenza che il filosofo e politico italiano aveva visto nel cuore della politica comunista e della sua critica al materialismo dialettico.
Nel 1985 Laclau scrisse con Chantal Mouffe, la sua compagna, il libro Egemonia e strategia socialista (Il Melangolo), dove riprese una lettura critica del concetto gramsciano di egemonia, aggiornandolo con un certo spirito anti-autoritario e libertario. La sua interpretazione della politica come conflitto e agonismo ha fatto scuola all’interno di quella che, forse in maniera impropria, è stata definita la «sinistra lacaniana» analogia della «sinistra hegeliana». Oltre a Laclau e Mouffe, in questo partito che continua a dominare lo scenario globale del pensiero radicale ci sarebbero anche Slavoj Zizek o Judith Butler.
Questa classificazione, è stata autorizzata dallo stesso Laclau in un’intervista del 1993 dove riconobbe l’influenza della psicoanalisi lacaniana nel suo percorso teorico. Un’eredità polemicamente discussa nel 2000 con Zizek e Butler nel libro Dialoghi sulla sinistra (Laterza). In questa cornice Laclau non ha pensato la soggettività politica come l’espressione di una classe omogenea, la classe operaia, ma come «posizione soggettiva» che rivendica una «mancanza» o «significante vuoto». Così intesa la soggettività politica è il risultato di una contingenza. Non si trova in natura, cioè nei rapporti sociali prodotti dal capitale, ma si produce nelle pratiche sociali discorsive, linguistiche e retoriche, in particolare quelle che permettono la riproduzione sociale e la costruzione di un immaginario.
Soggettività immanenti
In questa intuizione si riflette un movimento ricorrente in tutto il pensiero politico del Novecento. Laclau ha teorizzato l’esistenza di una dimensione, non metafisica o economica, ma immanente dove la soggettività si costituisce attraverso catene di significanti e di equivalenze. In questo spazio si afferma il carattere aperto e politicamente negoziabile di ogni identità, oltre che l’impossibilità di fissare un processo simbolico in un’identità fissa e gerarchica.
Fu questa la sua risposta al thatcherismo e al motto tristemente famoso: «la società non esiste», esiste solo l’individuo sul mercato. Laclau formulò una risposta all’altezza di questa sfida. È vero, nella società non esiste un’essenza fondamentale. In compenso una società si produce nel conflitto, l’ordine che il neoliberismo affida alle gerarchie stabilite dal mercato, in realtà è sempre instabile, mai riducibile a leggi economiche o naturali. Ne consegue una definizione della politica: non è una tecnica, o amministrazione, bensì «egemonia» e strategia della forza.
Su queste basi, Laclau intese costruire una logica della politica a partire dalla contingenza e della prassi. Un approccio maturato sul campo in Argentina, dalla sua frequentazione del sindacato e dei movimenti, poi l’incontro con il comunismo italiano e lo studio di Gramsci. L’Argentina è stata anche la culla del populismo contemporaneo con Peron, non a caso studiato a lungo e in maniera ossessiva in La ragione populista (Laterza), sull’onda dei populismi anche di sinistra nati in America Latina dagli anni Novanta ad oggi. Per Laclau non esiste un’oggettività del «popolo», anche perché quello a cui ricorrono coloro che hanno costruito anche in Italia come Le Pen, Berlusconi o Grillo risulta essere una costruzione artificiale e non organica, un’«invenzione» direbbe Hobsbawn con il quale lavorò a lungo a Oxford.
Per Laclau il populismo è una «logica sociale» ed è il modo con il quale si è costruito il «politico» durante la modernità. Il gruppo sociale che s’impossessa del «popolo» inteso come significante riesce a tradurre la propria egemonia nella società. Esiste un populismo di «destra» che esprime posizioni corporative o nazionalistiche. E un populismo di «sinistra» fondato su un’immagine capace di unificare le esperienze di sfruttamento con lo scopo di rovesciare i rapporti di forza esistenti.
Il «popolo» resta per Laclau un «universale vuoto» che viene occupato e risignificato nella lotta per l’egemonia tra i diversi «populismi». Questa visione della contingenza politica esprime tutta la forza, e i limiti, del pensiero di Laclau e Mouffe. Forza perché riconosce nella differenza, nel molteplice, nell’eterogeneo gli elementi fondanti di una politica «post-moderna». Per Laclau (e Mouffe) questo significa che la democrazia è una nozione «vuota» e i suoi contenuti vengono decisi dal «pluralismo agonistico» tra i soggetti in lotta. Limiti perché Laclau attribuisce al «popolo» (sinonimo di «politico») la funzione trascendentale che porta a sintesi l’antagonismo permanente che è l’elemento costitutivo delle democrazie moderne. Dopo avere escluso la possibilità di un «soggetto generale», tale soggetto ritorna nella sua forma spettrale.
Paradossi democratici
Per il critico americano Fredric Jameson questo è il lascito dell’eredità lacaniana nel pensiero di Laclau. Prima negato, e poi affermato, il soggetto della sua politica si presenta scisso e mai unificabile. Allo stesso tempo, però, si identifica nei programmi rivoluzionari che offrono immagini allettanti di unificazione e totalità agli individui e alimenta il conflitto contro il neoliberismo. Questo «paradosso democratico» impedisce una sintesi perché nega al principio l’esistenza di un soggetto generale: il popolo, appunto. Per Jameson questa proposta è compromessa da un errore fondamentale: l’omologia tra soggetto individuale e totalità sociale. Il soggetto «post-marxista», come quello «lacaniano», ragionano su un individuo o, tutt’al più, sui «movimenti sociali» che competono tra loro sventolando i vessilli della loro identità, una realtà che ben conosciamo sin dagli anni Ottanta.
Ernesto Laclau resta uno dei più sensibili, e complessi, critici della visione aberrante di un presente eterno in cui nulla cambia mai e l’infelicità resta sempre con noi. In questo presente egli ha visto una società espressione di molteplici punti di vista a cui bisogna dare una risposta, anche quando le loro domande vengono rifiutate o del tutto rimosse.
Pubblicato in precedenza su il manifesto