Osservazioni semiserie / Quando il vento dell'est: sul Russiagate e la democrazia in Italia

8 Settembre 2019

Affari, spionaggio, risate, preoccupazioni, un mare di chiacchiere e la qualità della democrazia in Italia. "Quando il vento dell'Est, ci porterà..." cantava Gian Pieretti nell'ormai preistorico 1966.

Ecco, a scandalo divampato, poi raffreddato, poi parzialmente riacceso, ma soprattutto a governo nazional populista caduto e sostituito è forse e pur sempre il momento di chiedersi che cosa esattamente ci porta l'aria che da qualche tempo, previo scoperchiamento del Russiagate, spira in Italia dopo aver gonfiato le vele del sovranismo salviniano anti europeo.

 

Salvini antemarcia ha indosso un Putin militaresco

 

E subito sia detto onestamente, anche per acchiappare quel minimo di attenzione che un testo così lungo certamente scoraggia, che gli scandali sono belli specialmente all'inizio dell'estate; perché s'infuocano lasciandosi rapidamente consumare prima delle vacanze come un foglio compromettente tenuto con due dita per non bruciacchiarsi; ma quando alla fine la fiamma si spegne, è come se quell'accenno di fumo grigiastro ti desse appuntamento per nuove scoperte e promettenti rivelazioni: in autunno o come indicavano le note politiche della Prima Repubblica "alla ripresa" – mentre in verità la sarabanda non si è mai fermata, intensificandosi anzi nel vivo dell'agosto sudaticcio, dagli stabilimenti balneari alle stanze del Quirinale. Fino al varo settembrino del nuovo esecutivo, che certamente si connota in senso super-europeista e anti-russo; con il che lo scandalo finisce per rappresentarsi come punto di svolta, e insieme presagio, sirena d'allarme, rilevatore di ulteriori sviluppi, magari anche a futura memoria.

 

 

Puzza di petrolio: da Mattei a Savoini via Eni-Petromin

 

Ora, non so quanto finora Moscopoli abbia scosso la coscienza civile. Temo poco, anche per malinconico sfinimento e rassegnata assuefazione. Durante la crisi di governo è risuonato qualche flebile allarme, "rischiamo un'Italia putiniana", satellite della Russia, e così via, ma più per dare addosso a Salvini che per meditato convincimento. Lo stesso ex presidente del Consiglio Conte, nel suo discorso di addio, è sembrato affrontare di nuovo la questione rivolgendosi direttamente al suo vicepremier: "La vicenda merita di essere chiarita, e sono venuto io in aula al posto tuo, senza ottenere neanche le informazioni del ministero. Ma sappi che il caso ha risvolti internazionali". A parte che Salvini lo sapeva meglio di lui, uno strano modo di riaprire la faccenda tenendola ermeticamente chiusa.

E però: forse l'unica grande e residua virtù degli scandali sta nella loro potenza rivelatoria. Nel senso che indicano, a volte confessano a loro insaputa non soltanto i possibili orizzonti della vita pubblica, ma anche i desideri, le debolezze, le smanie, le frustrazioni, le tentazioni e più in generale le umane caratteristiche delle varie classi e dei vari soggetti che il caso e la necessità, per non dire le elezioni democratiche e il fiorire di clan e cricche, portano a esercitare il potere.

E tornando quindi al vento dell'Est, l'unica certezza sensoriale per ora, inconfondibile al naso dei giornalisti di lungo corso, è una certa puzza di petrolio; o di gas, che non cambia un granché.

Oltre a movimentare una cospicua mole di quattrini e guadagni, da Mattei in poi, passando per Cefis e per le varie fasi del primo e sovvenzionato centrosinistra, qui in Italia i traffici petroliferi hanno il modo di delineare nuovi equilibri, alleanze e complicità. Quindi anticipano e segnalano snodi politici, che al giorno d'oggi si sono fatti internazionali e anche globali.

 

Nello specifico tran tran di governi e politicanti si tratta di accordi che vanno in porto, ma che possono anche saltare, o essere fatti saltare, pure in extremis; e in questo senso il malricordo va all'affare Eni-Petromin, che era la compagni statale petrolifera dell'Arabia saudita, a cavallo fra gli anni 70 e 80, il periodo della solidarietà nazionale; intricata vicenda grazie alla quale si comprese, con la partecipazione straordinaria dell'Eni e della loggia segreta P2, che la vita pubblica aveva trovato in Bettino Craxi un nuovo e ingombrante protagonista.

Breve riepilogo. Quando tutto sembrava filare liscio, di punto in bianco il leader del Psi si mise a fare il diavolo a quattro per affossare il conveniente affarone, che com'è ovvio comportava una ancora più conveniente stecca per oliare i meccanismi dell'accordo. Bettino si era convinto che una buona parte della tangente sarebbe ritornata in Italia, un po' come nella vicenda moscovita, in quel caso consentendo ai suoi alleati della sinistra socialista (non ancora "ferroviaria") che faceva capo a Claudio Signorile e al capo del governo democristiano, il solito Andreotti, di rafforzare l'alleanza ai suoi danni e a tal fine, esclusi gli spiccioli, comprarsi il Corriere della Sera. Come ovvio nulla di tutto ciò fu mai provato, né forse ce n'era bisogno.

 

L'Hotel Metropol

 

Il salone dell'Hotel Metropol

 

Ma siccome la storia è fatta di minuti e leggendari particolari, non di rado tutt'altro che nobili, si tramanda che ad avvalorare i sospetti craxiani fu una lunga e snervante riunione tenutasi su altri argomenti "a studio", come diceva Andreotti intendendo il suo particolare e intimo Centro Studi Lazio; riunione nella quale lui, o forse era Rino Formica, comunque si accorse con raccapriccio che Signorile non aveva neanche bisogno di chiedere dov'era il bagno (quello stesso in cui ogni mattina il Divo veniva farsi radere dall'ex barbiere della Camera, intrattenendosi nel frattempo con l'interlocutore di turno che veniva fatto accomodare "sul trono", come Andreotti designava il bidet).

Sia come sia, il contratto Eni-Petromin venne bloccato, la solidarietà nazionale finì poco dopo e Craxi ebbe prenotato un posto a Palazzo Chigi.

 

 

Apocrifi e dossier dalla Russia: maneggiare con cura

 

Anche l'affare che andava imbastendosi nella ormai celebre conversazione dell'hotel Metropol di Mosca sembra definitivamente compromesso. Ma specialmente in questo caso l'origine e lo svolgimento dell'impiccio, nonché le modalità del suo affossamento paiono al momento, se non misteriose, almeno poco chiare.

Ciò detto, dall'arcano e terribile Petrolio pasoliniano, con i suoi riferimenti alle stragi degli anni 70, fino alle timidezze italiane nei confronti di un paese produttore come l'Egitto sul caso del povero Regeni, Sua Maestà il Grezzo ha la tendenza a dettare legge. E tuttavia ciò che arriva dalla Russia, dai suoi oleodotti e gasdotti, ma anche dai suoi alberghi e dai suoi archivi, è sempre un po' da prendersi con pinze supplementari.

 

Si pensi alla cruda e cinica lettera  del 13 febbraio 1943 di Palmiro Togliatti a Vito Bianco sulla questione dei prigionieri italiani in Russia: missiva poi risultata al tempo stesso vera, falsa, resa illeggibile dalla fotocopia, male dettata e peggio interpretata al telefono, gettata quindi nell'agone, però goffamente, avendo attribuito alla penna del Migliore, gelosissimo delle proprie preferenze filosofiche e letterarie, un eccentrico riferimento al "divino Hegel".

 

Lettera vera e manipolata di Togliatti sui prigionieri dell'Armir

 

Così come sembrò nel migliore dei casi singolare alla fine dello stesso decennio l'apparizione, sempre da Mosca via Londra, del cosiddetto dossier Mitrokhin, dal nome dell'archivista del Kgb che giorno dopo giorno per anni e secondo enigmatici criteri avrebbe sottratto documenti d'ufficio conservandoli all'interno delle bottiglie del latte, a loro volta seppellite nel giardinetto di casa.

Tra parentesi quadra. In una di quelle schede, compilata nell'estate del 1978 dalla Residentura di Roma, mi ritrovai vent'anni dopo impigliato per i capelli, anzi per i riccioloni che a quel tempo portavo fluenti. Giovane giornalista, avevo scritto in quei giorni per “Panorama” un articolo nel quale davo conto dei sospetti di alcuni democristiani nei confronti degli Usa a proposito dell'assassinio di Moro. Gli spioni russi accreditarono quel mio acerbo scritto come uno dei succosi e nutrienti frutti dell'"operazione Shporà", o Sperone, prendendosene ovviamente il merito e facendomi passare come un allocco. In realtà a quel pezzo avevo lavorato sodo e del tutto a digiuno da fonti sovietiche, non essendoci del resto alcun bisogno di qualsivoglia sperone per giustificare la diffidenza – e i sensi di colpa – di parecchi dc, a partire dall'entourage moroteo, rispetto a qualche scherzetto giocatogli oltreoceano.

 

Vasilij Mitrokhin, archivista kgb

 

Parentesi tonda. Scoprii in seguito, non senza qualche postuma preoccupazione, che oltre a essere finito nelle schede del rapporto Impedian, l'altro nome delle carte Mitrokhin, quello stesso articolo che il mio direttore di allora, Lamberto Sechi, intitolò "Moro come Kennedy?" aveva destato anche lo sdegnatissimo interesse dell'ambasciata americana. Tuttora mi pare stramba l'idea di essere stato, a quell'età, così letto in sede internazionale. Ma non posso dimenticare la potente approssimazione (nella scheda si parlava di un Consiglio nazionale democristiano tenutosi il 31 giugno!) e la disinvoltura anche un po' truffaldina con cui gli spioni sovietici della capitale, sede quant'altre mai agognata, si giocavano quel lavoro per farsi belli "colli Superiori", come si dice appunto a Roma. Ma pazienza.

 

Se per la lettera insieme fasulla e veritiera di Togliatti l'allora presidente della Repubblica Cossiga, che a quei tempi si agitava moltissimo, propose nientemeno che una Commissione di storici cui nessuno volle dare seguito, ecco che sul dossier Mitrokhin, a partire dal 2001, per impulso del centrodestra vittorioso, fu insediata e lavorò effettivamente e a lungo, tra avvelenamenti e buffe scenette, una Commissione parlamentare d'inchiesta, presieduta da Paolo Guzzanti, organismo la cui maggioranza non difettava di attitudine dietrologico-cospirativa, bizzarrie testimoniali e qualità dei suoi esperti, uno dei quali, già guardia ecologica nel parco del Vesuvio, finì anche dentro.

Lo scopo della maggioranza, a semplificarlo ma non troppo, consisteva nel dimostrare che l'intera politica italiana era stata praticamente teleguidata dal Kgb, nella recente fase del centrosinistra attraverso i servizi segreti italiani; ma siccome l'appetito vien mangiando, alcuni commissari berlusconiani e di An si misero di buzzo buono nel cercare di rimediare anche qualche pezzuola d'appoggio per sostenere che l'ex leader e premier dell'Ulivo Romano Prodi, a quel tempo presidente della Commissione europea, era stato in pratica e continuava ad essere un agente dei sovietici e di quanti ai sovietici erano succeduti al Cremlino – cosa che avrebbe comportato qualche problemuccio internazionale e supplementare.

 

Sennonché l'impiccio degli impicci, per certi versi anche abbastanza spassoso, era che nel frattempo il presidente Berlusconi, per il quale l'arma elettorale dell'anticomunismo era tanto fervida quanto retrattile, andava stringendo rapporti sempre più stretti, sia politici che economici che personali e privati, con il sopraggiunto leader russo Wladimir Putin, che bene o male proveniva proprio dai ranghi del Kgb. Per cui il presidente Guzzanti e 40 poveri membri della Commissione Mitrokhin, più i funzionari e i consulenti e i documentalisti, mentre i giornalisti se ne stavano già da tempo sovranamente disinteressando, si trovarono appesi come il classico caciocavallo messo a stagionare nel freddo buio del cantinone, in attesa di finire nel dimenticatoio.

 

 

Come riciclare il "Barbarossa" 

 

Vale dunque ripeterlo: tutto consiglia di maneggiare con un supplemento di accortezza ciò che proviene da laggiù.

Non solo per par condicio, tale cautela è da considerarsi reciproca e vicendevole anche da parte di Mosca riguardo alle cose italiane. E in tal senso, fatta salva la differenza dei generi, vale purtroppo qui la pena di segnalare che nella breve stagione sovranista, fra i tanti anche decorosi prodotti dell'ingegno cinematografico a disposizione si è fatto in tempo a rifilare alle ferrovie russe, non si sa a quale prezzo, nientemeno che il "Barbarossa", il costoso e controverso polpettone leghista nella prima metà degli anni Duemila imposto alla Rai e incentrato sull'incerta figura di Alberto da Giussano, l'eroe del Carroccio. Le cui avventure saranno proiettate a beneficio dei passeggeri sui treni della Federazione.

A suo tempo Bossi visitò il set in Romania, come Mussolini per "Scipione l'africano" a Sabaudia e Andreotti "Ben Hur" al Circo Massimo. Forse a Salvini, a quel tempo dotato di orecchino e candidato alle elezioni padane nella lista dei comunisti farà piacere sapere che migliaia di guerrieri leghisti furono interpretati da altrettante comparse rom, a 400 euro la settimana. Bossi stesso figurò nella preziosa pellicola nelle vesti di un nobile lombardo.

 

Locandina del Barbarossa

 

Del "Barbarossa" il grande pubblico aveva felicemente perso la memoria quando un ciclo di intercettazioni ne tramandò il difficoltoso, ma pressante avvio produttivo: "Con questo cavolo di fiction del Barbarossa mi stanno facendo una testa tanta!" – sollecitava il povero Berlusconi raccomandando questa o quell'altra sua amichetta a un dirigente Rai. Inflitto oggi agli innocenti viaggiatori di quella sterminata nazione, dieci anni orsono il film ebbe la sua bella anteprima al Castello Sforzesco di Milano con ministri, autoblù, guerrieri a cavallo, bracieri e altri ammennicoli di residua e oramai superata piegatura celticheggiante.

Per cui la storia delle sòle suona varia e anche sproporzionata, ma in un modo o nell'altro conferma che pure i russi, francamente, è bene che diffidino di quanto gli viene mollato dal Belpaese.

 

Bossi nobile lombardo nel Barbarossa

 

 

Commedia padana: il finto tonto e lo scaricabarile 

 

"Ridicola" ha voluto definire Salvini, a caldo, l'inchiesta sul Russiagate. L'aggettivo è risuonato con uno sbuffo di solenne, ma poco convinta indignazione in una conferenza stampa nella quale, accaldato e con la consueta camicia bianca aperta più del necessario, l'allora uomo forte della politica italiana non sembrava in verità tanto disposto a riderci su.

Allorché le domande dei giornalisti si concentrarono sugli spostamenti, il ruolo e la presenza del suo amico e fedele Savoini in questo o quell'altro appuntamento ufficiale, a Mosca e anche a Roma, sull'aereo, alla Confindustria russa, al ministero, a Villa Madama, con gli imprenditori italiani e la nomenklatura di Putin, Salvini è sbottato: "Ma che ne so io che ci stava a fare Savoini? Chiedetelo a lui!".

E qui il vero e irresistibile senso del ridicolo ha calato sul banco del Viminale il suo asso di bastoni; non solo perché, come ha notato incredula mia figlia, tra Salvini e Savoini la distanza del suono è minima e lei all'inizio credeva che fossero la stessa persona. È che nell'eterna commedia italiana, insieme con il dispositivo dello scambio di persona, la figura del finto tonto, tecnicamente raddoppiato dall'espediente dello scaricabarile, si staglia con un'inesorabile vigoria comica.

Oltretutto nel caso della classe dirigente leghista tale effetto vantava già una sua consolidata notorietà, per cui nell'estate del 1994, invano confidando sulla distrazione procurata dai mondiali di calcio, un altro ministro dell'Interno, Bobo Maroni, sempre in conferenza stampa pretese di far credere ai giornalisti di aver apposto la sua firma su un provvedimento di depenalizzazione, in pratica una specie di amnistia in piena Tangentopoli, senza averne mai letto il testo.

 

Salvini e Savoini sulla Piazza Rossa

 

Salvini e Savoini sulla piazza rossa con esibizione di magliette patriottiche

 

D'altra parte il maestro di tutti loro, Umbertone Bossi, ha sempre mantenuto con la verità un rapporto tutto suo; e anche senza contare l'acqua santa del Po sversata nella laguna di Venezia con bimba vestita di rosa e volo di colombi, a parte l'insurrezione armata della Bergamasca ("rimbombava nelle valli il grido...") e la proclamazione di un Parlamento e poi di un governo della Padania, in un’apposita manifestazione celebrò il trasloco della seconda rete Rai a Milano, cosa mai decisa né mai realmente effettuata; e visto che c'era, l'anno appresso, anche l'installazione di un fantomatico ministero del Nord nella villa reale di Monza, pure mostrando in pubblico le banconote per arredare gli uffici. Si aggiunga che questi ultimi non disponevano di servizi igienici e che il portiere dello stabile smarrì quanto prima le chiavi, cosicché rimasero serrati per sempre – quanto alle banconote, converrà ricordare che giusto in quel periodo era in azione l'amministratore Belsito, con i diamanti in Tanzania, la laurea albanese del Trota e la preziosa cartellina intitolata "The family" da cui anni dopo si ebbe la sorpresina che pure la celebre canotta del Senatùr era stata acquistata a spese del contribuente.

E tuttavia la goffa presa di distanza di Salvini a scapito di Savoini consentì ai più zelanti fra i leghisti di accanirsi su quest'ultimo trattandolo – ah, ingrati! – alla stregua di un intruso, un imbucato, un fanfarone, un millantatore e poco mancò che gli dessero del mitomane per aver partecipato alle conversazioni del Grande Fratello dell'hotel Metropol. 

 

Salvini con Savoini e felpa "no sanzioni"

 

Già questo era abbastanza divertente, e al tempo stesso, come sempre accade in Italia, penoso. Ma l'andazzo acquistò maggior brio quando in tempo reale venne fuori che Salvini e Savoini comparivano a tutto spiano e per lo più sorridenti in un interrotto flusso di immagini autoprodotte e massivamente esposte dalle rispettive vanità social.

Li si vedeva insieme in pranzi, riunioni, incontri d'alto protocollo istituzionale con russi di ogni ordine e grado, oltre che nei corridoi degli alberghi di Mosca e perfino in posa sulla Piazza Rossa. Salvini sfoggiava in quell'occasione una maglietta con Putin in uniforme militare. C'è da dire che in quell'effigie il capo post-sovietico faceva la sua bella figura militaresca, dal che si può azzardare che proprio a Putin si fosse ispirato il vicepremier nei successivi travestimenti in uniforme.

 

Salvini e Savoini e D'Amico con scritte cirilliche

 

Salvini, Savoini e telefonini

 

Il punto delicato da dire è che gli scandali in Italia fanno sempre un po' ridere. Oddio, ogni volta che scoppiano sono brutti, d'accordo, e meglio sarebbe che non ci fossero. Ma con lo scorrere del tempo, anche velocemente, tipo due o tre giorni, sembra quasi che l'antico motto evangelico, oportet ut scandala eveniant, comporti un'appendice entro la quale, pure esaurito il valore istruttivo e pedagogico della vicenda, s'intravede a volte sullo sfondo, a volte controluce, a volte in primo piano, il nucleo incandescente dell'umorismo che in qualche modo riscatta le brutture del malaffare alle spalle di coloro che in genere e buffonescamente l'hanno procurato.

 

 

Totò e Peppino al Metropol

 

Da questo punto di vista Moscopoli è esemplare: un caso di scuola, a suo modo una lezione civile.

Più che evidente è la palese inadeguatezza di Savoini e dei suoi compari infilatisi a viva forza in una faccenda petrolifera e miliardaria assai più grande – come ammesso del resto dalla signora Savoini mamma del protagonista – di loro; oltre che pericolosa. Ma proprio il complemento spionistico – l'hotel moscovita, la registrazione e le immagini dei colloqui, la diffusione del tutto su un sito americano – assicurano alla vicenda legaiola un tocco da Totò & Peppino, sia pure virato in chiave padan–sovranista. Non solo, ma l'incombente fantasma dei servizi segreti – siano essi americani, russi, cinesi, italiani o di chissà quale altra potenza – ha subito impresso un rimbalzello per cui la nebulosa affaristica è pure incespicata verso il mondo ancora più indecifrabile del traffico d'armi, in questo caso dei mercenari filo-russi e filo-ucraini che si combattono nel Donbass; sia come sia è emerso l'immancabile & improbabile attentato forse in preparazione (ai danni, pare, di Salvini).

 

 

Totò e Peppino

 

E già questo basterebbe ad accogliere il tutto con scetticismo. Ma la già intricata ed enigmatica vicenda del petrolio e del gas moscovita, con eventuale, preteso steccone pro-sovranista si è riprodotta generando in una settimanella la più scontata proliferazione di comprimari, complici, mestatori, procuratori d'affari, soci in accomandita, testimoni spontanei e tirati in ballo senza ragione, fino al titolare di un'agenzia di modelle russe e una bella ragazza, non modella ma impegnata nel putinismo militante, di cui si è letto che aveva aiutato i leghisti italiani e perciò era stata ricompensata con un panettone.

 

I bagni Ondina di Laigueglia

 

Va da sè che tale ambaradam costituisce da tempo immemorabile la più ovvia e indispensabile premessa per qualsiasi naturale cortina fumogena e azzardato depistaggio. Sempre con solerzia degna di miglior causa si può aggiungere che alcuni di questi personaggi in cerca di business per conto della politica erano detti un tempo, con qualche sdegnato distacco, "faccendieri". Il termine ha un origine più che altolocata, essendo entrato in circolo nell'anno 1513 in uno scritto di Nicolò Machiavelli; però, curiosamente, ma neppure troppo, nelle cronache di Moscopoli l'antico ruolo e a suo modo professionale del "faccendiere" è stato quasi soppiantato dal "facilitatore" – il che porta a malinconiche riflessioni sul grado di decadimento occorso anche nella lingua degli scandali, ormai definitivamente omogenei all'universo delle aziende e dei manager.

 

Quindi è partita l'anatomia patologica delle figure centrali. Per cui a carico di Savoini s'è evidenziata, insieme all'innegabile vicinanza a Salvini la fede "post-nazista" e il fatto che egli risultasse fra i proprietari dello stabilimento "Ondina" di Laigueglia, in provincia di Savona. Come ovvio, gli stereotipi sono ingiusti e parziali per tutti, compresi i fautori dell'ideologia rosso-bruna; è anche verò però che dopo il fantasmagorico exploit del Papeete, il "tipo da spiaggia" cominciava davvero a espandersi fra i ranghi dell'antropologia leghista, e non troppo a favore della sua credibilità.

Allo stesso modo, quando ci si è dovuti chiedere chi fosse Claudio D'Amico, l'altro iper-salviniano dedicatosi a intrattenere i rapporti con la Russia, e come tale immaginificamente insignito del titolo di "Consigliere per le attività strategiche di rilievo internazionale" nell'organigramma di Palazzo Chigi. Beh, neanche a farlo apposta tale D'Amico si era distinto quale fautore di un'operazione-verità sugli Ufo, tanto da figurare in camicia verde in un imperdibile video girato a Pontida: "I cittadini europei – osservava – hanno diritto di sapere se gli alieni visitano il nostro pianeta".

 

 

Soprannomi, gulag e musicarelli al Viminale

 

Sia D'Amico che Savoini – sia detto qua senza alcuna malizia – sono sposati a due donne russe, rispettivamente Svetlana, già interprete di Bossi, e Irina; ma a quanto è dato sapere purtroppo per loro i due mariti leghisti non parlano la lingua.

Anche senza appoggiarsi a brutali e facili sessismi, l'elemento femminile ricorre spesso nelle vicende che hanno a che fare con la Russia, ma nel traffico petrolifero assai meno del solito.

Tutti rigorosamente maschi sono in effetti i protagonisti: tanto i principali o supposti beneficiari, quanto i dispensatori di prebende energetiche fra i quali si delineano alfieri di un tradizionalismo dei valori che non si esita a definire reazionario. C'era poi al Metropol un signore di nome Gianluca Meranda, avvocato d'affari e internazionalista, del quale non si è mancato di sottolineare, quasi all'istante, che fosse non tanto membro della massoneria, quanto espulso dalla medesima, per ragioni non specificate, comunque da ritenersi non esattamente a maggior gloria del Grande Architetto dell'Universo.

 

Anche la presenza di massoni, pure nelle varie sottospecie di massoni in sonno, massoni in lite e massoni cacciati, è abbastanza ricorrente nella scandalistica domestica. Si tratta del resto di un mondo massimamente litigarello, ma ciò che forse spiega la diffusione di tanti liberi muratori nelle peggiori vicende è l'intraprendenza di chi, lungi dalle rare dispute ermetiche, aderendo alle logge cerca un punto d'appoggio da cui tentare la scalata sociale attraverso rapporti, amicizie, protezioni, contributi, prebende, inciuci, complicità e via degradando verso le inchieste giudiziarie, anche serie, specie nel mezzogiorno dove più oscura si avverte l'ombra della criminalità organizzata.

Sempre sui divani dell'albergone post-sovietico sedeva infine Francesco Vannucci. Anche di lui, quasi in tempo reale, le cronache hanno diffuso il soprannome: "Il Nonno". Donde la pronta replica: "Sono profondamente dispiaciuto d'essere indicato in modo a volte ironico a volte opaco come 'Nonno Francesco'".

La precisazione è giunta nei caldi giorni in cui la giostra delle rivelazioni, per lo più necessariamente imprecise, era su siti e giornali in pieno svolgimento; così, a titolo del tutto indicativo di un certo andazzo ambientale, oltre al Nonno e al Bagnino, fra i vari personaggi tirati in ballo, a volte senza ragione, ne è significativamente comparso uno allegramente presentato come "il Conte Mascetti", e cioè nello stesso modo in cui figurava Ugo Tognazzi in una delle più popolari commedie all'italiana: "Amici miei" di Mario Monicelli.

 

E di nuovo non è per essere pedanti, ma tocca pur sempre ricordare che i soprannomi, così efficaci a insaporire la vita della provincia, da sempre ricorrono abbondantemente nelle vicende leghiste. Vedi "Nosferatu" (il professor Miglio), "il Cernia" (Formentini), "la Nera" (Rosy Mauro), "Jo Michetta" (Speroni), fino al "Trota" (Renzi Bossi). Il guaio semmai è che si sono presto dimenticate anche le formidabili peripezie e frequentazioni dell'amministratore Belsito, per sua stessa definizione "il tesoriere più pazzo del mondo", che per il suo ufficio si affidò a un paio di curiosi individui, a loro volta soprannominati in via Bellerio "l'Ammiraglio" e "lo Shampato", quest'ultimo s'immagina per la cura riposta nell'esibire fluenti chiome – ma è solo un'ipotesi.

Pare invece acclarato che durante il colloquio moscovita, in un attimo di relax, qualcuno della "delegazia" italiana rivolgendosi agli interlocutori si sia concesso la libertà di scherzare: "Se avete qualche gulag, vi possiamo mandare un mucchio di gente dall'Italia". Al che un russo, anch'egli non ancora identificato gli ha retto il gioco chiedendo: "Per la riabilitazione?". E lo spiritoso sovranista: "Sì, mentale".

Con lo svolgersi dell'estate, non molto tempo prima di mettere fine alla coalizione di governo, Salvini ha smesso di definire "ridicola" l'inchiesta designandola "un film di spionaggio di serie B". Ora, la commedia in Italia non teme rivali, o meglio li assorbe e li integra estendendo l'ala su qualsiasi ambito dello spettacolo, non escluso il genere della canzone e del cinema cosiddetto "musicarello".

 

Al Bano con cappello panama e imprenditori cinesi reca il bottiglione del suo vino al Viminale

 

Con tale premessa, a un certo punto anche Al Bano, insieme con Toto Cotugno, è stato tirato per i capelli in mezzo al derby fra Russia e Ucraina. Nel fatidico mese di ottobre del 2018, quando si tenne la riunione del Metropol, il cantante, che con Savoini non c'entra nulla, ma in Russia gode della massima popolarità, venne ingaggiato e si esibì nelle pubbliche cerimonie moscovite per il centenario del Kgb. A dicembre, ricevuto da Salvini al Viminale, Al Bano si presentò al ministero dell'Interno con alcuni imprenditori stranieri recando in omaggio per il ministro un bottiglione del suo vino con tanto di etichetta personalizzata. La visita fece notizia perché durante l'incontro l'atmosfera si fece a tal punto spensierata che tutti i presenti si misero a cantare due popolari brani del tenore di Cellino San Marco, "Felicità" e "Nel Sole".

Ora, al netto del mischione tra gorgheggi e affari di governo, se gli imprenditori interessati alla produzione vinicola di Al Bano fossero stati russi, al limite la faccenda avrebbe forse potuto perfino meritare qualche approfondimento. Ma quegli imprenditori erano cinesi; e se pure tra vino e petrolio, sul piano strategico, energetico e commerciale le distanze paiono abissali, con un minimo di sconcerto vale la pena di segnalare che qualche giorno dopo la cantata del Viminale, Salvini cominciò a fare fuoco e fiamme contro il programma di scambi dalla frusciante denominazione Via della Seta. Ma anche qui, come sempre accade rispetto alle giravolte di una classe di governo ormai stabilmente incoerente, pazienza.

 

 

Tentativo di descrizione dell'anima russa

 

Imbastiti gli aspetti che con ingenua pigrizia si continuano a definire "di colore", toccherebbe adesso affrontare, con i poveri mezzi del giornalismo osservante e orecchiante, nientemeno che la questione russa, per giunta nell'ottica dei pregressi rapporti bilaterali tra il ceto politico "all'italiana" e quello di un paese tra i più fantastici del mondo. Esistono in proposito intiere biblioteche e fonti letterarie di così vivida umanità che non basterebbe una vita a studiarle e forse nemmeno due a comprenderle.

Così, chiedendo venia per l'inevitabile caduta nell'abisso dei luoghi comuni, si comincerebbe col dire che agli occhi dell'italiano medio i russi appaiono insieme pigri e vitali, eroicamente patriottici e passionali, romantici e maleducati, talvolta chiacchieroni, talaltra gelidamente silenziosi, ma soprattutto, e a loro modo, diversi come individui gli uni dagli altri, e dalle altre, con il che si è detto tutto e niente.

Con minore approssimazione si può essere certi che i russi alzano il gomito come nessun altro popolo dell'orbe terraqueo, fino a contemplare nelle loro lingua decine di modi per indicare diversi tipi e durata di sbronze; ciò nondimeno accudiscono i nostri vecchi con notevole umanità, e da quando i più ricchi fra loro vengono a passare le vacanze in Italia, oppure vi stabiliscono comprando ville e casali, spendono e spandono come forsennati, il che è un'ottima cosa, lasciando a taxisti, camerieri, inservienti, facchini le meglio mance che sia dato immaginare.

A tutto questo si può aggiungere che quel popolo lontano coltiva, sempre in interiore homine, un sorprendente senso del limite che trova forse origine negli immani spazi di una nazione, che è anche un impero il quale a sua volta riesce a essere al tempo stesso ghiacciato e torrido, nobile e grossolano, misericordioso e crudele; ma ecco che, per chiudere questa povera disamina, una vocina mi dice che per quanto riguarda i sentimenti, e una certa attitudine teatrale, e perciò anche una indubitabile cialtroneria, noi e i russi siamo fatti, se non gli uni per gli altri, certamente per intenderci. Risata facile e rumorosa, cuore in mano e mano sul medesimo nell'atto di promettere e rassicurare, lacrima scorrevole quando occorre, cioè spesso. Se nei commerci tale quadretto comporta la necessaria ambiguità a sfondo larvatamente predatorio – in questo senso vale la pena di rileggere sia la perorazione più "politica" rivolta da Savoini ai suoi interlocutori nelle conversazioni del Metropol, sia la gelida indifferenza degli smagatissimi interlocutori nel recepirla – al vertice della letteratura, della drammaturgia e della musica, si può azzardare che nessun altro popolo al mondo come il russo è in grado di competere con gli italiani nell'arte di trasferire nella vita quotidiana la commedia e il melodramma.

 

 

Le caramelle di Berlinguer e il formaggio di Gronchi

 

Ciò detto, gli uomini sono uomini, ma i sistemi ne condizionano senza dubbio gli sviluppi. Per cui si fa risalire a un'insospettabile Enrico Berlinguer, che dei sovietici non si fidava per nulla (mai foto con il colbacco e una volta sul posto sempre chiacchiere all'aria aperta per vanificare le microspie regolarmente poste nelle dacie in cui erano ospitate le delegazioni dei compagni italiani), insomma si deve a Berlinguer la proclamazione delle "tre leggi del socialismo reale".

E quindi, prima legge: grandi erano ogni volta i progressi dell'agricoltura. Seconda: i dirigenti mentivano sempre. Quanto alla terza, il segretario del Pci, di cui pare acclarato che la nomenklatura abbia tentato di toglierselo di torno in malo modo (procurato incidente automobilistico in Bulgaria, nel 1973) assicurava che le caramelle avevano "sempre" la carta appiccicata.

Occore dire che tali indefettibili norme traevano origine dalla realtà del socialismo realizzato e del sistema sovietico. Ma ormai a trent'anni dalla sua fine si può pensare che certe caratteristiche d'incerto e difettoso packaging nell'ambito della produzione dolciaria e oltre, non siano poi troppo mutate.

Molti italiani hanno variamente trattato con i russi. Alcuni, come Palmiro Togliatti, riuscendo anche a salvarsi la ghirba dalle purghe, magari pure approfittando della deportazione di altri inquilini dell'hotel Lux per appropriarsi delle stoviglie e delle coperte abbandonate in quelle torve stanze. Per tanti comunisti italiani, insomma, fu una storia lunga e complicata, fatta anche di terrore, delazioni, torture, dolori. 

 

Altri italiani, che comunisti non erano e anzi si proclamavano anticomunisti, però in quei paesi vedevano felici opportunità di vario genere, spesso e volentieri si imbarcarono in spericolatissimi esperimenti politici e diplomatici, così come altri ancora hanno concluso buoni affari; in questo senso è giusto ricordare Enrico Mattei, Vittorio Valletta, lo stesso Avvocato Agnelli.

I democristiani, solo alcuni però, si recavano in Russia per ragioni che erano insieme ragionevoli e inconfessabili. Al sindaco santo di Firenze, Giorgio La Pira, stava a cuore la pace, che in russo si dice "Myr"; al presidente della Repubblica Gronchi interessava fare del Quirinale il centro propulsore della politica estera e volle a tutti i costi andare a Mosca in visita di Stato portandosi dietro ogni ben di dio, compresi i tartufi; ma durante un brindisi l'interprete presidenziale toppò clamorosamente e invece di dire "Myr" disse "Syr", che significa formaggio.

 

Berlinguer a Mosca con Pajetta e Cervetti

 

Togliatti primo a sinistra all'Hotel Lux

 

L'accordo per lo stabilimento Fiat di Togliattigrad. Firma Vittorio Valletta. L'avvocato Agnelli alle spalle.

 

Il controverso viaggio di Gronchi a Mosca. Stretta di mano con Krusciov.

 

 

Tra Ostpolitik e gravitas

 

Ad Amintore Fanfani Krusciov confessò, con un filo di preoccupazione, di avere anche lui i suoi "dorotei": li chiamò proprio così. Dorotei di marca bolscevica che qualche anno dopo, come già accaduto a Fanfani, puntualmente fecero fuori il leader del Pcus. Anche Andreotti, cui si deve anche un libro di memoria ad hoc, L'Urss vista da vicino (1988), coltivò con il ministro degli Esteri Gromiko e parecchi altri della nomenklatura relazioni più che amichevoli, testimoniate da lettere e testimonianze pubblicate nel suddetto volume di sapida, ma anche soporifera memorialistica. Quando il Divo parve spingersi oltre, spedendo l'ambasciatore italiano sulla Piazza Rossa in omaggio a qualche cerimonia di Stato che forse non lo richiedeva, Indro Montanelli lo criticò aspramente, pure soprannominandolo "Andreottov".

Da entrambi le parti si trattava comunque di astuti e flessibili negoziatori. Per gli alleati americani e i generali della Nato, che su questo terreno scivoloso tenevano un po' a guinzaglio i governanti italiani sia pure variando la lunghezza della corda, la sensazione era che un po' ci marciassero, nel senso che se ne approfittavano. Sapendoli per loro natura accomodanti, a Washington temevano che con la scusa della pace, come pure in osservanza alla parallela Ostpolitik messa in atto negli anni 70 della Segreteria di Stato vaticana, i democristiani cogliessero l'occasione dei rapporti con i sovietici per tenersi buoni i comunisti in Italia.

 

Gromiko e Andreotti

 

In questo senso l'analisi sarà pure stata rozza, ma Moro non lo era affatto, e tra gli ultimissimi suoi scritti – fu trovato in una delle borse che aveva con sé a via Fani – c'è un articolo per il Giorno che non fu mai pubblicato "per ragioni di opportunità" nel quale affrontava da par suo i temi e i tempi della guerra fredda, pure traendone alcune indicazioni di metodo per attenuarne gli effetti.

Nei giorni del Russiagate, in uno slancio di orgoglio postumo democristiano, Pierferdinando Casini ha intonato il peana: “Andreotti e Fanfani andavano in Russia con Agnelli, ma per portare lavoro a Togliattigrad, non è che ci mandavano Savoini”. Più o meno con gli stessi intenti comparativi il comunista Gianni Cervetti, un'altra figura che il mondo russo conosceva assai bene per esservisi formato per conto del Pci, ha osservato che ai suoi tempi i rapporti non solo passavano per via diplomatica, tagliando fuori le mezze figure "che si fanno gli affari loro", ma nel complesso tutto era improntato a una certa "gravitas".

 

Le memorie di Andreotti

 

Singolari avventure di mio padre Luigi 

 

E qui, a parte la gravitas, il contenuto già abbastanza soggettivo di queste mie semiserie riflessioni sui fatti del Russiagate, è destinato a prendere un'impennata ancora più personale ed eccentrica per motivi famigliari, avendo io fin dalla più tenera età sentito parlare dei russi e degli altri popoli dell'Est dalla persona a cui ho voluto più bene perché mi ha trasmesso la maggiore curiosità sugli uomini e sulla vita. Parlo di mio padre che dopo una bella e ricca, per lui, esperienza nel mondo della produzione cinematografica, restato per un po' senza lavoro, nella seconda metà degli anni 60 s'impiegò nell'Ufficio relazioni pubbliche della Finsider, la finanziaria siderugica delle Partecipazioni statali che attraverso l'Italsider produceva a Taranto degli enormi tubi di cui in pratica i sovietici erano gli esclusivi acquirenti.

 

I tubidell'Italsider a Taranto. Luigi Ceccarelli e l'omino con mani in tasca dentro il cerchio d'acciaio.

 

Tra gli incarichi di mio papà Luigi c'era dunque anche quello di tenerseli buoni spupazzandoseli in lungo e in largo allorché i loro papaveri e tecnici venivano in Italia, come pure accompagnando nell'Est le delegazioni italiane. Inoltre andava spesso in Bulgaria, a Sofia, dove una volta lo accompagnai dodicenne scoprendo che all'albergo Balkan le prostitute parlavano emiliano; e a Plovdiv, sede di una famosa fiera industriale dove la Finsider cercava di vendere altri tubi d'acciaio o ghisa, e dove lui soggiornava presso i signori Filipov, sui quali a casa nostra scherzavamo fosse ormai divenuta la sua seconda famiglia. Da questi viaggi tornava stanco di yogurt e violini e con le valigie piene di essenze di rose e pessimi distillati di prugna.

Curioso e affabile, oltre che astemio, una volta fu costretto a bere e si ubriacò, ma gli prese dapprima teneramente, poi tristissima per le condizioni di vita di quella gente e pianse un'intera notte con un russo, o forse era un bulgaro, che comunque aveva scelto lui per sfogarsi. Anche così aveva comunque finito per accumulare una certa esperienza sulla vita e ancor più sulla nomenklatura d'oltrecortina, tanto più ragguardevole se si considera che il capo della siderurgia dell'Urss, poi ministro del Commercio con l'Estero dell'Urss era, come da familismo amorale d'impianto sovietico, il figlio di Leonid Breznev, Yuri.

A mio padre debbo perciò fantastici racconti anche sugli intermediari e i marpioni delle trattative, sulle reciproche pigrizie riscattate da lampi di geniale adattamento democristian-sovietico, sulle povere spie che senza averne alcuna vocazione e dopo essere stati presentati agli ospiti con le funzioni più vaghe, quel regime inutilmente poliziesco metteva alle calcagna dei funzionari e dirigenti Finsider. Di fede vagamente socialista, all'aeroporto Luigi si rese conto di come talvolta i poliziotti, gli addetti alle dogane e gli inservienti russi, malpagati e ingrugnati, accogliessero malamente i festosi gruppi di comunisti che giunti dall'Italia alla ricerca del paradiso, si vedevano aprire sgarbatamente le valigie, talvolta pure destinate a perdersi o in qualche caso prese anche a calci.

Dai suoi racconti veniva fuori un mondo generalmente asfittico e claustrofobico, di rara inefficienza, però rischiarato da una straordinaria umanità e simpatia, dai pensieri e dai desideri che in tanti russi impediti a viaggiare accendeva l'Italia, la sua bellezza, la sua lingua, la sua cultura, la sua musica. Mio padre era un tipo sensibile e si commuoveva anche. C'era un pezzettino di Russia, diceva, in tutti gli italiani.

Per le occasioni in cui i sovietici venivano a Roma o alle acciaierie di Taranto, si era organizzato un singolare parco interpreti composto anche da discendenti di nobili scappati dalla rivoluzione bolscevica che spesso venivano bullizzati dai giornalisti al seguito del potente Yuri. Di uno di questi interpreti, principe dal cognome bizantineggiante, conservava una sdegnata lettera, una sorta di relazione-reclamo che mi lesse con voce impostata, gli occhi lucidi, ma anche un lampo di divertita meraviglia. Ne ricordo a memoria un brano: "Usciti dal ristorante, alticcio, uno dei giornalisti al seguito – protestava il povero nobile russo – mi guardò fisso uscendosene a freddo con la più volgare delle espressioni: 'Sono stato con tua madre!'". Che poteva fargli, povero papà Luigi?

Era un lavoraccio anche il suo, appresso a questo caravan serraglio. Una volta s'ingegnò a far vedere ai padroni delle ferriere del Supremo Soviet i più begli aspetti di Roma, gli squarci più suggestivi e ricchi di storia, le strade più chic, i negozi più eleganti, e tutto si svolse nella totale e annoiata indifferenza di Breznev figlio. Solo durante una passeggiata l'ultimo giorno Yuri dette segni d'attenzione impuntandosi come un somaro dinanzi alla vetrina di un negozio residuale di rasoi da barba ed elettrodomestici dietro piazza di Spagna. Quanto ai primi, c'era la leggenda che in Urss se ne producessero del peso di un chilo e mezzo, quindi tutt'altro che agevoli alla rasatura. Ma in realtà il capo della siderugia era rimasto incantato da una radio transistor a forma di pallone, a scacchi bianchi e neri. Lo volle e immediatamente gli venne comprato.

 

Yuri Breznev, figlio ministro del commercio estero sovietico.

 

Mi rendo conto che di questo passo Moscopoli si allontana, ma visto che fin qui sono arrivato, non posso fare a meno di ricordare l'atto sacrificale più crudele cui Luigi si sottopose in un ristorantino da lui scelto con cura e raggiungibile attraverso un grazioso ponticello in legno per far mangiare i russi praticamente sopra le acque del lago di Bracciano. Avvertenza: è un racconto un po' forte, lo si prenda come un estremo tributo filiale al lavoro – che non sempre evidentemente rende liberi. Nell'ispezione dell'estremo minuto, perché tutto, ma davvero tutto fosse a posto, rientrava fra le mansioni del perfetto public relations man la visita ai "servizi"; nell'espletare quest'ultimo compito, e quando già dalla finestrella si intravedeva il corteo di auto nera che aveva imboccato la stradina che conduceva al posteggio, Luigi si accorse che la tazza del cesso era praticamente intasata da un unico enorme – eh sì! – stronzo. Tirò allora la catena. Niente. La ritirò. Niente. Ricordo che nel racconto non riusciva a nascondere, oltre al panico per l'imminente arrivo della nomenkatura, l'orrore, ma anche la meraviglia per quella spaventosa creatura: "Gli mancava la parola!". E qui sospirava, per certi versi ispirato, e poi rassegnato e inorridito, preparandosi a raccontare il "lieto fine", che tuttavia non comportava esattamente un sospiro di sollievo. Perché dopo essere sgattaiolato in sala, fra i tavoli imbanditi, Luigi afferrò una forchetta d'argentone e come in un fumetto o in un cartone animato, precipitatosi a tutta velocità nel luogo di quella raccapricciante epifania, piegato concentratissimo sulla tazza infilzò con chirurgica precisione l'anonimo gigantesco stronzolone e gettò il tutto dalla finestrella nel lago di Bracciano, plòff.

 

 

Il senso di Limonov per la politica italiana

 

E adesso ti voglio a riprendere il filo del Russiagate e della sua potestà segnaletica nel quadro dei nuovi equilibri geopolitici.

Ma al di là delle narrazioni paterne, che pure per la loro stomachevole risonanza apprezzavo al massimo grado, ecco che nei primi giorni dello scandalo (che in realtà non erano i primi essendosene parlato già nell'inverno e persino in due meritevoli libri) comunque nella fase estiva, sono rimasto colpito da quanto detto da Eduard Veniaminovič Savenko, in arte Limonov, il fantasmagorico protagonista del libro di Emmanuel Carrère. Interrogato da una giornalista sullo scandalo di Salvini-Savoini, non senza aver espresso la sua riprovazione soprattutto nei confronti di chi speculava su quella vicenda, Limonov fece un'osservazione che ne risvegliò diverse altre: "La politica italiana è diventata una cosa vergognosa, simile alla politica russa".

Bene. Per quanto affascinante sul piano narrativo, un appassionato avventuriero non è la miglior fonte per trarre analisi di ordine politologico; ma quella sua netta e sconsolata suggestione sulla rassomiglianza tra la vita pubblica italiana e quella russa suonava come conferma di un'intuizione che era balenata in mente ormai diversi anni orsono.

Detta in modo fra il profano e il brutale, a partire dal decennio scorso, ma forse anche prima, mi era parso di comprendere che molto ci stava arrivando, in termini di forme e sostanza proprio dall'Est, come portato del vento della canzone di Gian Pieretti.

Ex oriente lux, diceva spesso mio zio Nuccio, grandissimo medico omeopata. Che fosse una illuminazione rassicurante era un altro discorso. Ma le rovine lasciate sul terreno all'inizio degli anni 90 fra Tangentopoli, Mani Pulite, referendum elettorali, affermarsi della Lega e berlusconismo, in pratica gli effetti della fine della guerra fredda e del crollo della Repubblica dei partiti, insomma, tutto questo aveva qualcosa in comune con quanto accadeva in quei paesi che con minimo anticipo rispetto a noi si erano tolti di dosso il peso scomodo del comunismo per darsi, senza tante teorie, una forma di democrazia che andava assestandosi in modo un po' particolare.

Ecco: per certi versi, certi sviluppi, certe apparenze, certe atmosfere, questo lento, ma anche rapido assestamento sembrava procedere come un modello che trovava un corrispettivo anche qui da noi. Come una specie di destino sincronico e parallelo.

Vero è che la faccenda della democrazia in Russia si era sempre posta in Italia in modo problematico, tanto che già nel 1944 Togliatti in persona si era cautelato con il giovanissimo Andreotti, allora sottosegretario di De Gasperi, chiarendogli che la forma di governo laggiù "non era di stile inglese come da noi"; però a suo modo la democrazia "esisteva, e risultava dalla pluralità delle voci di categoria che contribuivano a formare la pubblica volontà".

 

Il fortunato raconto di Limonov

 

E tuttavia, mezzo secolo dopo, l'ideuzza che gli italiani avessero da guardare proprio ciò che succedeva da quelle parti per capire come avrebbe buttato da noi, mi pareva certo un po' bizzarra, singolare, eccentrica, come del resto tante me ne vengono in testa. Uno dei miei numerosi abbagli. Però anche mi capitava di riceverne di continuo evidenze e testimonianze, prove e riprove, varianti, indicazioni, adattamenti, per non dire lampi, ombre, risonanze, chiaroscuri e bagliori nel diuturno lavoro di spuntatura e setaccio nelle cronache politiche e non solo.

Oggi, devo dire, quella specie di intuizione sull'"Italia dell'Est", come già l'aveva brevemente definita la pubblicistica craxiana all'inizio dei 90, mi pare onestamente meno campata per aria. L'ultima conferma – e anche piuttosto sinistra – a cura del leader sovranista ungherese Viktor Orban: "Nel 1989 pensavamo che l'Europa fosse il nostro avvenire. Oggi pensiamo di essere noi l'avvenire dell'Europa". Là dove mettendo l'Italia al posto dell'Europa la sequenza orbaniana potrebbe funzionare purtroppamente, per dirla con Cetto Laqualunque, anche meglio

 

 

E noi faremo come la Russia

 

Non molto tempo fa, su cortese e lusinghiero invito, mi è capitato di partecipare in qualità di giornalista-relatore a un seminario di scienziati della politica. In tale consesso ho potuto constatare che i modelli di riferimento di quel gruppo di accademici e comparativisti erano ancora e strenuamente anglo-sassoni.

Dal loro osservatorio e secondo i paradigmi di una moderna democrazia liberale alcuni illustri professori monitoravano le trasformazioni del Parlamento italiano. Il quale Parlamento, a mio modesto, approssimativo e come al solito troppo risoluto avviso, appariva in reatà a tal punto svuotato, privo di forza, autorevolezza e centralità da connotarsi o meglio da recuperare una qualche funzione ormai forse solo come una sorta di parco tematico della politica (tifo in aula più commemorazioni, convegni, concerti, teatro, presentazione di libri, eccetera).

 

Il lettone di Putin nella leggenda pop

 

Debbo riconoscere che la recente crisi di governo ha fortemente ridimensionato quelle mie convinzioni. Ma senza troppa timidezza, quando venne il mio turno, feci presente che le cose qui da noi, a cominciare da Montecitorio e Palazzo Madama, avevano preso da tempo una piega che con la democrazia occidentale non è che avesse più molto a che fare; e invece parecchio ne aveva con quanto andava succedendo negli ex paesi d'oltre cortina.

Variazione porno sul tema del lettone

 

Mi ero preparato abbondantissimi esempi di come la politica italiana, nel vuoto di idealità e nel deserto di progetti, si fosse trasformata, grazie pure al grazioso contributo dei social, in un'attività abbastanza selvaggia di capataz e clan; un concatenarsi di eventi e formule che ricordava, specie per quanto attiene alla concezione della leadership e all'esercizio del potere, il sistema di "democratura" in voga nei paesi dell'ex blocco sovietico, in primis nella Russia di Putin. A studiare gli influssi del quale, aggiunsi, purtroppo quasi nessuno studioso si era dedicato ponendo l'Italia di oggi, quella di Salvini, dei cinque stelle e del governo di allora, al centro di una disamina che avrebbe riservato qualche sorpresa, oltre ad aprire un vasto piano di indagine.

Nella mia incalzante perorazione dimostrativa mi risparmiai la significativa circostanza, invero più esistenziale che politologica – ma di questo sempre più vive ormai la politica! – secondo cui un importante, anzi il più importante uomo di Stato e di governo degli ultimi trent'anni avesse battezzato e promosso con orgoglio il giaciglio della sua residenza romana "il lettone di Putin". Non lo feci, prima che per ritegno, per esattezza di cronaca, dopo essermi a lungo dedicato al tema ed essendo arrivato alla conclusione che quel letto king size a baldacchino non era precisamente un dono del presidente russo, ma un oggetto che Berlusconi aveva fatto realizzare da un ingegnoso falegname ricalcando un lettone raffigurato, questo sì, in un quadro donatogli da Putin.

E tuttavia, al netto dell'arredamento di Palazzo Grazioli, gli usi, i costumi, i codici, il linguaggio, lo stile, le mire, le credenze e le idiosincrasie dei politici italiani mi sembravano sempre più corrispondere a quelli della classe dirigente dell'Est. Questo dissi, probabilmente in modo più concitato del necessario, ottenendone in cambio, mi parve, una qualche accigliata meraviglia che nel coffe break si tradusse in una forma di cortese isolamento.

 

Prove di entrata a Palazzo Chigi della limousine di Putin

 

Pochi giorni dopo i quotidiani proponevano in foto le grottesche prove effettuate davanti a Palazzo Chigi per far entrare nel portone di piazza Colonna la gigantesca limousine di Putin: una Aurus Senat nera, lunga quasi sette metri e larga due, 8 cilindri, 4.400 di cilindrata, a bordo della quale, dopo il trionfo plebiscitario del 2012, il neo rieletto presidente della Federazione russa aveva attraversato una Mosca deserta e blindata per riprendere possesso del Grande Palazzo del Cremlino.

A scorrere le cronache dell'ultima visita a Roma si apprese che Putin si era portato appresso anche una figura che fungeva da assaggiatore anti-avvelenamento.

Vero è che le precauzioni alimentari, per così dire, e le suggestioni simboliche, forse giustamente, hanno poca presa sulla scienza politica. Così come occorre ammettere che, oggi come oggi, oltre al potere di attrazione esercitato dal neo-satrapismo dell'Est, l'osservazione politologica ha anche parecchio da vedersela con le mattane dei leader delle più evolute democrazie occidentali, a cominciare da Trump e Johnson. Eppure, come si dice: a ciascuno i suoi.

 

 

Mosca è il paese che amo

 

Nell'ottobre del 2018, il giorno prima dei colloqui del Metropol, in una riunione tenutasi a porte aperte nella capitale della Federazione l'allora vicepremier Matteo Salvini volle presentarsi dicendo che a Mosca si sentiva "a casa sua".

Non era probabilmente la prima volta che manifestava a una platea del genere questo suo giudizio insieme così personale e pubblico. Come molti esponenti della sua generazione, anche in politica estera spesso Salvini apre bocca e gli dà fiato; per cui dopo una visita compiuta insieme al senatore Razzi a Pyongyang fu prodigo di riconoscimenti addirittura verso il feroce e sanguinoso regime nord-coreano: "Ho visto un senso di comunità splendido. Tantissimi bambini che giocano in strada e non con la playstation, un grande rispetto per gli anziani, cose che ormai in Italia non ci sono più».

 

Berlusconi fa le fusa a Putin

 

Ma tornando alla Russia, forse Salvini non sapeva che già nove anni prima, era il 17 maggio del 2009, sempre a Mosca, l'allora presidente del Consiglio Berlusconi aveva espresso l'identico concetto con le stesse parole: "Qui in Russia mi sento a casa mia". Sennonché Cavaliere, che di solito rilancia, ampliò la sua benedizione sostenendo che Putin, insieme a Medvedev, era "un dono di Dio ai russi".

È singolare, e al tempo stesso si spiega anche con i processi di rimozione della memoria pubblica quanto rapidamente sia evaporata quella delle res gestae di Silvio Berlusconi, che invece va ricordato proprio per aver pensato, detto e compiuto per la prima volta un'infinità di cose, a loro volta destinate a replicarsi. Ciò detto, appena eletto nel 2008 presidente del Consiglio, come atto inaugurale di governo nel primissimo week end utile prese baracca e Bagaglino e si trasferì a villa La Certosa per un week-end di spettacoli e spettacolini avendo come ospite di molto riguardo proprio il presidente Putin.

 

Berlusconi, Putin: l'inopportuno gesto della mitraglietta

 

Era l'esordio della diplomazia berlusconiana, intimista e personalizzata, battuta spiritosa e pacca sulla spalla, session al pianoforte e barzelletta osé, visita panoramica nel parco, ma a un dato momento fu pur sempre necessario organizzare una conferenza stampa a due. Una giornalista russa fece dunque una domanda che Berlusconi ritenne sgradita a Putin, per cui con l'idea forse di sdrammatizzare s'intromise facendo il gesto della mitragliatrice e puntandola verso la disgraziata cronista, che si mise a piangere. I giornalisti italiani non volevano credere ai loro occhi; ma a pensarci col senno di poi, quelle lacrime dicevano assai più, e di più sinistro, di quanto l'inopportuna spiritosaggine berlusconiana volesse rimediare e/o significare.

Putin conosceva bene le meraviglie del villone sardo del Cavaliere, dove nell'estate del 2002 vennero ospitate due sue figlie.

 

 

Azzardo pirotecnico a villa La Certosa

 

Alla fine di agosto dell'anno seguente, sempre a Villa La Certosa, l'accoglienza fu speciale e “indimenticabile”, anche se non esattamente come l'aveva programmata il Cavaliere.

Il presidente della Federazione russa arrivò in Sardegna preceduto da una mezza flotta che comprendeva l'incrociatore lanciamissili “Moskva”, il cacciatorpediniere “Smetlivy” e la nave appoggio “Bubnov”. Per l'occasione, sempre nel tipico intruglio di potere esibito e relazioni d'amicizia, furono organizzate delle manovre al largo della costa sarda nelle quali i russi mostrarono in azione, con la speranza di venderlo all'Italia, anche il nuovo aereo antincendio BE-200. L'intrattenimento della serata venne affidato a Toni Renis, che contattò Andrea Bocelli mettendo in programma arie della “Tosca”, della “Turandot” e alcune canzoni napoletane; altre le avrebbe interpretate lo stesso Berlusconi in duetto con Apicella. Per ricercare un effetto di continuità fra la tavola imbandita, le piante del parco e le essenze odorose, con la supervisione di gastronomi e decoratori, sette mastri cesellatori lavorarono giorno e notte alla realizzazione di due incredibili trionfi scolpiti di frutta e verdura.

 

Berlusconi, Putin: visita turistica nel parco

 

Ma l'evento più rimarchevole – e del quale si è avuto notizia diversi anni dopo – fu che durante uno spettacolo pirotecnico qualcosa andò storto e alcuni razzi puntarono direttamente sulla terrazza degli invitati. Non è difficile immaginare lo spettacolo pazzesco quando tutti, a partire dalle agguerrite guardie del corpo di Putin, pensarono che si trattasse del più temerario e clamoroso attentato mai compiuto nella storia umana. Putin comunque ebbe i pantaloni bruciacchiati, come del resto il Gran Cerimoniere Toni Renis, mentre il vestito della signora Bocelli rischiò la disintegrazione e Silvione afflitto non sapeva come scusarsi. Il presidente della Federazione la prese sportivamente, l'incidente "non ci rovinò la festa" ha poi ricordato ad Alan Friedman, cui si deve l'ameno e anche istruttivo resoconto.

 

Putin, Berlusconi: a meno 30 gradi centigradi

 

Appena possibile, Putin ricambiò l'ospitalità nella sua fiabesca dacia, ovviamente senza razzi. Da grande amico degli animali una volta ebbe il piacere di presentare a Berlusconi un meraviglioso cavallino nano della grandezza di un cocker spaniel che gli si mise a scorrazzare fra le gambe; in un'altra visita gli offrì una sontuosa colazione all'aperto a meno 30 gradi regalando al mondo una formidabile fotografia di loro due ridenti e imbacuccati come eschimesi. Tornati in città, all'insegna del tifo machista, Putin accompagnò il Cavaliere ad assistere ad incontri di lotta libera e hockey su ghiaccio. La sera Berlusconi fu segnalato in un locale notturno di Mosca attorniato da belle ragazze. All'entrata l'orchestrina l'aveva salutato al suono di “Tu vuo fa' l'americano” – e in fondo un po' era anche così, ma il mondo correva e ogni confine andava perdendosi in un grande disordine.

 

Putin, Berlusconi, Veronica e una coppia di cavallini nani

 

 

Silvione e il Berlusconistan

 

Non so dire se si trattò di una reciproca sbandata. Ma certamente i due non la nascondevano. Forse anche quel tipo di relazione era entrato a far parte della politica estera; o forse, dopo anni e anni di disgelo promesso o fasullo, Berlusconi stava riaprendo una strada verso l'Est senza troppo preoccuparsi di tirare o meno la corda.

Alla luce di ciò che è poi accaduto – e ancor più di quanto potrebbe ancora avvenire – penso che al momento si sia erroneamente sottovalutato il valore politico della conferenza Nato-Russia del maggio 2002. Della quale, invece, in tanti giornalisti cogliemmo allora solo l'aspetto di costosissima baracconata, “un'atmosfera romana” era stato il comando presidenziale, quindi capannoni di finto marmo nell'agro, decine e decine di statue autentiche e in vetroresina con fasci di fiori tra le braccia e chilometri di prato a ingentilire televisivamente un patto che fin dall'inizio doveva risultare “epocale” – e magari, viene da pensare oggi, lo era sul serio.

 

Souvenir berlusconiano dopo il vertice di Pratica di Mare

 

Allo stesso modo, nonostante l'enfatico e affannoso pavoneggiamento in cui Berlusconi si esibiva a ogni piè sospinto, credo possa essere rivisto anche il giudizio con il quale lì per lì fu liquidato come pura fuffa il personale intervento del Cavaliere per scongiurare nel 2008 l'invasione russa della Georgia: “Putin – non perdeva occasione di proclamare Berlusconi, anche durante le cene eleganti – mi aveva rivelato le sue intenzioni di attaccare Tbilisi: voleva letteralmente appendere per il collo Saakhasvili. Se ciò fosse accaduto, sarebbe stata la guerra tra Russia ed Occidente ed è merito mio se le cose sono andate diversamente”. Ecco, stai a vedere che fu veramente così!

 

Berlusconi matrioska

 

Il punto, o il guaio se si vuole, è che nel nuovo secolo era divenuto difficile se non impossibile distinguere tra la vita dei leader e quella delle nazioni. Per cui sulla scena un tempo compassata della politica internazionale, al posto di quelli che per anni si erano definiti rapporti bilaterali, prendeva vita e andava in scena la relazione fra un Berlusconi putinizzabile e un Putin berlusconizzante dalla quale emergeva una sempre più convergente antropologia del potere.

O almeno: gesti, atteggiamenti e consonanze estetiche attiravano gli sguardi nella stessa direzione; una tale e corrisposta amicizia che, dagli e dagli, portò Time ad assimilare l'Italia del Cavaliere a uno statarello satellite della Grande Russia, pure dandogli il nome di "Berlusconistan".

Nelle bancarelle del congresso di fondazione del Popolo della libertà, d'altra parte, fu messa in vendita una matrioska con le sembianze del Cavaliere che conteneva, dopo averle debitamente incorporate, le sue svariate vittime: Amato, D’Alema, Rutelli, Fassino, Veltroni. Analogo e originario oggetto esisteva ovviamente con le sembianze di Putin.

Del resto era naturale e al tempo stesso sorprendente come i due leader condividessero i medesimi interessi materiali e sentimentali, residenze da favola, devoti servi beneficati, graziose signorine in gran copia, guadagni energetici incalcolabili, lo Stato vissuto da entrambi come "una specie di dopolavoro – secondo Michele Serra – nel quale miscelare allegramente gli affari pubblici e gli affari loro".

 

Berlusconi e il presidente ungherese Orban 

 

Berlusconi e il presidente bielorusso Lukashenko

 

Berlusconi e il leader serbo Tadic

Berlusconi e il presidente montenegrino Djunkanic

Berlusconi e il leader bulgaro Borisov

 

Ancora più evidente era il gusto di stupirsi l'un l'altro seguendo i moduli un trasporto al tempo stesso grandioso e infantile. Per cui Putin fece guidare a Berlusconi l'idrovolante e pretese che assaggiasse, da una specialissima cantina, un archeologico sherry risalente al 1775; mentre l'ospite italiano, tornato in patria, oltre a esibire con vanitosa disinvoltura un giaccone personalizzato della marina russa, favorì di sicuro la nascita a Milano di un club di Forza Italia intitolato a Putin, pure omaggiando l'amico Vladimir – forse un riferimento al lettone – di un copripiumino che ritraeva in foto i due capi beati e sorridenti. A parte svariati soffietti sulle reti Mediaset.

C'è ragione di pensare – qualcosa uscì nella prima ondata di carte Wikileaks – che nella seconda metà degli anni duemila gli alleati americani, cui pure Berlusconi dedicava sforzi di pari e ruffianesca intensità, fossero un po' preoccupati, specie per via dei gasdotti. Per cui tennero duro con le sanzioni, anche contro i timidi sforzi italiani per allentarle. Sia come sia, le faccende d'approvvigionamento non avevano bisogno di essere incardinate a colloqui con appendice audio-video nelle sale del Metropol con la partecipazione del Bagnino del Ponente e di Nonno Francesco.

Negli affari di Stato e di quattrini Berlusconi sapeva il fatto suo, anche troppo. E pare di rivederlo in azione: espansivo, energetico, ospitale e così brillantemente ripetitivo nelle sue moine da far la figura della macchietta, ma senza mai rimetterci del suo. Come quando, davanti a Orban, si mise a magnificare la qualità delle donne ungheresi, pure consigliando i giornalisti italiani di farsi dare qualche numero e buon indirizzo dal primo ministro; oppure quando per lusingare i suoi interlocutori slavi fingeva pubblicamente di sentirsi in soggezione dinanzi alla loro prestanza fisica. Difficile dire se loro ci credessero; comunque accoglievano tutti di buon grado quel suo farsi piccolo e complimentoso, dal bielorusso Lukashenko al serbo Tadic, dal leader del Montenegro Djukanovic al bulgaro Bojko Borisov, che per tutto l'incontro a Sofia il Cavaliere si ostinò a chiamare famigliarmente Boris.

 

Il tuffo nudo del presidente ceco Topolanek a villa La certosa

 

Piegato dalla bufera degli scandali sessuali – indimenticabile il tuffo nudo del ceco Topolanek a villa La Certosa – e poi nel suo lungo declino Berlusconi ebbe in ogni caso e sempre la certezza di trovare una sponda di comprensione e gratitudine da quella parte, oltre che da Putin in persona. Secondo il presidente russo quelle accuse nascevano “dalla gelosia e dall'invidia”. Attenzioni e cortesie che poi in patria Berlusconi stiracchiava da par suo: "Pensate che Putin mi ha persino proposto di candidarmi a premier da loro! Mi ha detto che i russi sarebbero felicissimi".

Poco prima del Natale 2013 sulla copertina di "Chi", house-organ dell'autocrazia di Arcore, comparve la foto del presidente russo che su di un tappeto rosso, avendo al fianco un Berlusconi allegro e convenientemente photoshoppato per non far troppo risaltare la differenza d'età, tirava una palletta a Dudù: il barboncino del Cavaliere, allevato e coccolato come i cani degli zar (si vedano, a tale proposito le impressionanti foto del primo genetliaco della bestiola, con tavola imbandita a Palazzo Grazioli, pacchi regalo e ciotola istoriata con osso...)

 

Sulla copertina di Chi Putin tira la palletta a Dudù

 

Compleanno di Dudù come i cani degli zar con Francesca Pascale

 

 

Imparare da Putin

 

Nel momento in cui Berlusconi, prima delle elezioni del 2018, ebbe il sentore di un possibile sfondamento dei cinque stelle, anche in qualità d'illustre apripista e fervido pioniere di quelle specialissime relazioni post-diplomatiche, arrivò a dire che in tal caso avrebbe abbandonato l'Italia: per andarsene a vivere, specificò, "in una dacia in Russia".

E certo sono cose che si dicono per dire, inutilmente e per giunta secondo un movimento circolare, giacché questa storia dell'auto-esilio si era già ampiamente cominciata a sentire proprio quando Berlusconi aveva vinto e rivinto le elezioni, ma poi come ovvio nessuno se n'è mai andato dall'Italia (e dove, poi?). Oltretutto, nell'esternare quelle sue preoccupazioni il Cavaliere si dimostrava del tutto ignaro che già nel marzo del 2017 alcuni grillini, guidati da Di Battista e Di Stefano, si erano recati a Mosca per cominciare anche loro a prendere le misure e magari portarsi avanti nelle relazioni con “Russia Unita”, il partito pigliatutto di Putin.

Però forse mai Berlusconi si sarebbe aspettato che vinte quelle elezioni, ad appena un mese dalla formazione del governo grillo-leghista, nel luglio del 2018, il suo ex alleato Salvini, giunto a Mosca come vicepremier per assistere a una finale di calcio, avrebbe accompagnato quella trionfale trasferta con una affermazione che valeva un programma: "Da Putin c'è molto da imparare".

 

I cinque stelle Di Battista e Di Stefano a Mosca con esponenti di Russia Unita

 

Proprio su Doppiozero, un paio d'anni orsono, Giampiero Piretto ha spiegato bene le ragioni per cui Putin piace ai russi. In estrema sintesi: perché ha ridato vita all'anima di quel popolo agganciando il suo potere personale al passato prossimo; poi perché ha riscattato categorie che erano state svilite, sbeffeggiate e condannate come sovietiche; quindi perché, dopo aver in qualche modo favorito la circolazione dei consumi, rendendoli disponibili in patria come lo sono nella società occidentale, si è proposto come artefice di una restaurazione pseudo morale e pseudo religiosa.

E ancora, Putin piace perché ha saputo investire sulla propria immagine di capo e perciò sul suo stesso corpo, mediaticamente utilizzato come instrumentum regni, per cui occupa l'immaginario

mostrandosi a torso nudo, esibisce i muscoli, s'immerge nelle acque gelide per il rito ortodosso del battesimo di Cristo, e va a caccia, a pesca, nuota, cavalca, salta in moto, gioca a hockey su ghiaccio (lo fanno anche segnare, notò con una punta d'invidia Berlusconi) entra nelle gabbie delle belve, salva il cameraman dalla tigre siberiana.

 

Salvini nella Corea del Nord con il senatore Razzi

 

Anche grazie a questo consenso gli è consentito di affermare con la massima tranquillità e naturalezza ciò che sui giornali europei ha fatto un certo scalpore, e cioè che la democrazia liberale è obsoleta, invecchiata, superata. A metterla piatta piatta,come forse non si dovrebbe, il risultato è che pochi in Russia, in pratica solo coloro che hanno a cuore i diritti umani e la correttezza delle istituzioni, si aspettano che Putin sia indulgente, mite, trasparente, democratico. La maggioranza, per il momento, oltre il 76 per cento, lo vuole come egli è: freddo e sicuro di sé, severo fino alla spietatezza, riflessivo ma sbrigativo, e maschio.

Per queste stesse caratteristiche Putin avrebbe (ha) molto da insegnare a diversi politici italiani che intrugliano, impicciano, girano a vuoto e pestano l'acqua sporca nel mortaio, frustrati dalla loro stessa inadeguatezza che li rende anche prepotenti e aggressivi.

 

 

Il solito uomo solo al comando

 

Sebbene l'argomento sia di una portata ben più vasta e impegnativa di quanto si riesca a indagare in queste osservazioni, tutto ciò che è avvenuto in Italia dal 1989 in poi – il trauma da fine regime, la lunga transizione, la definitiva crisi di sistema, lo svuotamento e snaturamento delle istituzioni, la prova per lo più fallimentare di varie tipi di leadership, dalla monarchia aziendale berlusconiana all'oligarchia auto-cannibalica del Pd fino alla diarchia pizza & fichi di grillini e leghisti – insomma tutto questo ha reso la democrazia italiana assai più malconcia di quanto sia confortante immaginare e sperare.

Tale percezione, in certi momenti, ha contribuito a far crescere l'idea che l'Italia potesse scivolare verso l'alleanza di Visegràd. Sempre mantenendo in un angolino della mente i traffici dell'hotel Metropol, non si vuole qui sostenere che il nostro paese sia condannato a farsi sovranista e a presto gemellarsi con la Russia; né che esista già una coincidenza, un'omologazione, un'osmosi con il populismo a filo spinato di certi regimi dell'Est. La partita è ancora ben aperta, ma a pensarci bene proprio la recente crisi di governo, allegramente definita dai suoi stessi sconsiderati protagonisti "la più pazza del mondo", ha in qualche modo confermato quanto la tentazione russa non le fosse estranea, sebbene nascosta dietro le naturali bizzarrie, gli immancabili accrocchi e le ripetute scemenze ridanciane. Neanche a farlo apposta, nei giorni in cui, al sommo dell'euforia balneare, Salvini reclamava i pieni poteri, a Mosca e in altre città della Russia andavano in scena rilevanti proteste di piazza, come sempre sedate da una messe di randellate e arresti di massa: anche questa, purtroppo, una possibile lezione putiniana.

Ciò nonostante, o forse per questo, il caos protrattosi qui oltre misura, le obiettive condizioni di degrado istituzionale, lo sfascio dei partiti, il mercato dell'insicurezza e della paura lascia pensare che una soluzione alla Putin eserciti in certi settori dell'elettorato nostrano una sua attrattiva. O meglio, nessuno più del leader dagli occhi di ghiaccio fa riemergere, riattivandolo in forme evolute, un modello di comando che pure dalle nostre parti gode di una certa ciclica rinomanza: l'uomo solo al comando, o se si preferisce l'uomo forte in una situazione di acclarata debolezza – Dio non voglia anche nel caso di qualche attacco speculativo.

 

Rai, sangue, suolo & gnocca

 

A parte qualche lavoretto sul web e sui social, in verità di ardua ricognizione e classificazione, un embrione di putinismo all'italiana qualche cosina ha cominciato a farsi vedere, nel senso autentico della parola.

La notte del trionfo sovranista alle ultime elezioni europee, Salvini si offrì alle telecamere nel suo ufficio di via Bellerio mostrando un cartello: "1° partito in Italia, GRAZIE". Alle sue spalle, sulla libreria, tra i vari libri, oggetti soprammobili e meta-amuleti di vario significato, dai gagliardetti tifosi al gufetto portafortuna alle sacre icone, si poteva comunque notare un ritrattino tascabile di Putin accompagnato da un fiocco o una bandierina con i colori della Russia, e la copertina di libro, pure con Putin: sguardo sotto zero, gorgiera iper-militaresca e copricapo con fregi dorati.

Si trattava dell'ammirata biografia dedicatagli dal giornalista Rai Gennaro (Genny) Sangiuliano, già in quota post missina trasmutatasi in sovranista e come tale, pur con tutti i pregressi meriti, promosso direttore del Tg2. Anche la Rai, come il petrolio, è un interessante indicatore di tendenze che a volte la attraversano, altre la trascendono, altre ancora anticipano gli sviluppi del potere, e in questo senso è significativo che a presiedere l'azienda di viale Mazzini sia stato imposto, pure con qualche difficoltà, un giornalista come Marcello Foa, le cui opinioni sono state spesso ospitate da “Russia Today”, emittente certo non ostile al regime.

 

La libreria di Salvini a via Bellerio

 

Secondo le migliori tradizioni, che in passato assegnavano ai prodotti informativi nomignoli per così dire di stretta appartenza – “TeleNusco” (Tg1), “TeleCraxi” (Tg2) e “TeleKabul” (Tg3) – puntualmente la nomina del salviniano Sangiuliano ha fatto sì che il suo telegiornale fosse denominato "TeleVisegrad", cosa che a tutta prima non gli è dispiaciuta, anche se poi il buonsenso deve avergli consigliato di prendere cautamente le distanze: “La democrazia russa non soddisfa i miei standard di democrazia liberale, preferirei vivere negli Stati Uniti piuttosto che a Mosca". Ciò nondimeno, è parso eccessivo che proprio l'encomiastico biografo putinista sia stato scelto non solo per il maggior telegiornale, ma anche ascoltato dalla Commissione Esteri del Senato in qualità di esperto di questioni russe – ché davvero nelle università, nella diplomazia e negli organismi internazionali ce ne sarebbero molti altri più accreditati!

Più in generale, sul potere di attrazione esercitato nell'immaginario ha scritto Andrea Minuz: "La Russia di Putin attrae e affascina. Soprattutto per noi si tratta di un approdo inevitabile. Putin come rifugio utopistico nel lungo naufragio del mondo dopo la destra e la sinistra. Si accendono con la nuova grande Russia gli ardori del radicamento profondo, il sangue, il suolo, la terra, un'alternativa identitaria al patto Atlantico, al liberalismo anglosassone, alla finanza, al cosmopolitismo corrotto del capitale giudaico”. Nella Russia di Putin, continua Minuz, “c'è tutto quello che può affascinare un intellettuale italiano, un no global, un casa Pound: cultura millenaria, spiritualità, grande letteratura, balletti, mito della rivoluzione, insofferenza per la democrazia quindi inevitabilità della dittatura, un fiero sentimento antimoderno, la sconfinata vastità degli spazi e la gnocca".

Quest'ultimissimo elemento, che non si ha cuore di definire qui "di genere", ma che dall'Iliade in poi risulta tutt'altro che irrilevante nelle faccende del potere, scarseggia in realtà nei colloqui sovran-petroliferi da cui si sono prese le mosse di questa interminabile e sconclusionata prolusione. Ma anche a rischio di incappare nella tagliola del politicamente scorretto, va detto con la massima sobrietà possibile che una maggiore presenza di donne avrebbe senz'altro alleggerito e magari anche ingentilito il proscenio, fin qui configuratosi come un tetro serraglio di maschi dediti ad affari e potere, torvi ministri arrembanti, loschi faccendieri, filosofi barbutissimi, e poi spionaggio, trame geopolitiche tra l'euro-asiatico e il rosso-bruno con il naturale contorno di mercenari e perfino missiloni terra-aria di sconsolata e macro-fallica suggestione.

 

 

E dopo tutto la storia siamo noi

 

Per il resto, sempre sul filo dell'analisi di Minuz, la Russia resta “il luogo immaginario dell'antagonismo all'élite, teatro di sfrenate fantasie autarchiche e rivisitazioni della storia".

Quella recente e recentissima non gioca purtroppo a favore dell'Italia, tanto meno della sua stabilità democratica.

Io non so se davvero Salvini, ebbro di mojito, selfie e Papeete, ci ha provato sul serio; se la richiesta dei pieni poteri era una una sparata, una battuta, una provocazione o uno sproposito come tanti gliene sono scappati; se nella fuga all'estero dei 45 o 46 milioni si troverà prima o poi lo zampino di qualche volpe della steppa o dei monti Urali; se si continueranno ad arrestare sospettatissimi "ingegneri" russi; se Moscopoli, infine, ci riserverà qualche altra bella sorpresa.

Ma so che l'estinzione delle culture politiche italiane ha lasciato dietro di sè una schiumaccia che a ritrovarcisi dentro e anche soltanto a maneggiarla servono stivaloni e spessi guanti di gomma.

La classe dirigente è quella che è, nel migliore dei casi arrivata sulle poltrone per qualche colpo d'immagine o di fortuna, altrimenti per appartenza clanica o tribale; e comunque sono rari i casi di chi non si adegui a un andazzo di superba incompetenza, spudorata guitteria e fervido trasformismo. Esaurito il retroscena e consumatosi la messinscena, l'odierna scena appare normalmente oscena, l'estetica ne rispecchia la sgangheratezza, i linguaggi buttano sul turpiloquio e gli atteggiamenti delle persone in vista non di rado esprimono una sorta di ostentazione del basso.

Con i suoi braccialetti che gli proliferano ai polsi, con i suoi rosari di battaglia e il Cuore Immacolato di Maria sul display del cellulare, più che uno specchio Salvini si propone a diventare uno specchio dell'Italia. Rispetto al mitra e ai peluche, ai ciaoni, ai bacioni e agli zabaioni, dinanzi alle moto d'acqua e alle tentate censure, alle cubiste maculate con la mano sul petto mentre va l'inno di Mameli, di fronte alla ruspa punitiva e ad personam e alla ostinazione feroce per cui i bastimenti carichi di poveracci sono rimasti sotto lo schioppo del sole, un'ultimissima confessione personale: queste visioni seguitano a sorprendermi, a loro modo mi appassionano, però mi sento anche un po' in colpa a pensarla così passiva; e superata da qualche anno la sessantina, non mi ritengo più così immune da colpe nell'assistere alla rotolata giù per la china. Ma ormai è impossibile tornare indietro, riavvolgere il nastro degli eventi e del pensiero, vederla in altro modo.

Recuperato un minimo di freddezza, a chi trovasse tale disamina eccessiva, eccentrica, narcisista e pessimista, con la coda fra le gambe come il mio bassotto dopo le scosse di terremoto mi limiterei a segnalare con quanta facilità negli ultimi vent'anni la democrazia, questa sconosciuta ormai, nata rappresentativa, forse per un po' anche parlamentare, negli ultimi anni si è caricata di attributi slittando e trasfigurandosi in democrazia "esecutiva", "del pubblico", "d'investitura", e via via "disintermediata", "plebiscitaria", "illiberale", "autoritaria", aiuto!

 

Non dico niente di nuovo, ma nell'ultima e graziosa variante, il potere esecutivo ha le mani libere, considera la società come un unico blocco che la pensa allo stesso modo, le diverse opinioni non rientrano più nel novero del possibile, i media sono controllati dal governo, i giornalisti scomodi e gli studiosi rompiscatole finiscono in prigione o magari ai domiciliari, e di tanto in tanto qualche oppositore ritenuto più pericoloso del normale muore per mano di misteriosi assassini.

Quando il vento dell'Est arriverà, se non è già arrivato, toccherà prendere un bel respirone. Fino a quel momento era tutto un trallallà, o così ci era sembrato. D'altra parte valgono sempre i versi di Pascarella (assai amati in famiglia): “Vedi noi? Mò noi stamo a fà bardoria:/ Nun ce se pensa e stamo all’osteria…/ Ma invece stamo ne la storia”. Ma invece stamo tutti ne la storia.

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