Occupy Santa Claus
Che ne sarà di Babbo Natale, resisterà alla crisi del capitalismo finanziario e alla nuova era di restrizioni del consumo? Oppure uscirà ancora una volta vincitore dalla competizione del mercato del dono? Occupy Santa Claus?
È uscito in questi giorni un libro che s’interroga di nuovo su questa ricorrenza. Lo fa ponendosi una domanda sempre rimossa: perché non diciamo ai bambini che Babbo Natale non esiste? Lo hanno scritto uno psicologo e un antropologo e s’intitola La vera storia di Babbo Natale (Cortina). La domanda non è fuori luogo, dato che oramai vige il politicamente corretto di dire ai bambini la verità su tutto. Ma come ci ricordano i due autori, contro ogni political correctness, educare mentendo è una pratica diffusa in ogni cultura. Gli stessi genitori che fanno questo – educazione silente ed educazione parlata, non importa – sono i sostenitori dell’onestà e della trasparenza nella comunicazione dei figli con loro stessi. La bugia è uno dei pilastri dell’educazione, come si sa, insieme a una buona dosa d’ipocrisia. Del resto, la stessa storia di Babbo Natale è un bel monumento all’ipocrisia dato che la sua invenzione, come ci ricorda un bel libro di qualche tempo fa di Nicola Lagioia, Babbo Natale (Fazi), è stata la Coca-Cola che ha imposto la figura di Santa Claus, spacciatore di doni. Non a caso il sottotitolo scelto dall’autore recita: Dove si racconta come la Coca-Cola ha plasmato il nostro immaginario. Proviamo a ripercorrere con l’aiuto di questi due saggi la vera storia di questa ricorrenza che ci impegna così tanto, prima da bambini, e poi da adulti e, per alcuni di noi, anche da genitori.
Il Natale ha molte facce. È la festa della nascita di Gesù Cristo e insieme l’arrivo di Babbo Natale; il presepe e l’albero; una festa religiosa e una celebrazione laica; il momento del raccoglimento familiare e la corsa collettiva al consumo. Ma come è nata la ricorrenza? Perché si è scelto di celebrarla proprio il 25 di dicembre? Un fatto è assodato, dice l’antropologa Martyne Pierrot, che alla festa ha dedicato uno studio, Etnologia del Natale (Elèuthera): la data del 25 dicembre era una data qualsiasi per i cristiani dei primi secoli. Più che alla nascita di Cristo erano interessati alla sua morte e alla sua resurrezione. Fissata, secondo un computo dell’anno 243 dopo Cristo, il 28 di marzo; il 25 dicembre è diventata una data fatidica solo nel 336, alla fine del regno di Costantino. A orientare la decisione sono numerosi motivi, tra cui il sovrapporsi delle date di altri riti, allora assai diffusi nell’impero romano, come la nascita di Mitra e il solstizio d’inverno. Mircea Eliade, celebre storico delle religioni, ha scritto che il 25 dicembre è una data sincretica, dal momento che è il “giorno di nascita di tutte le divinità orientali”. Arnold Van Gennep, studioso di folclore e dei riti di passaggio, ha analizzato con molta attenzione il “ciclo dei dodici giorni”, che va dal Natale all’Epifania e comprende il Capodanno, festa opposta e simmetrica a quella del Natale. Se la celebrazione del 25 di dicembre è per antonomasia dedicata all’infanzia e alla famiglia ristretta, festa di raccoglimento e di rafforzamento dei tabù, il Capodanno è invece attribuito agli adulti, agli eccessi e alle intemperanze.
Ma come è accaduto che il Natale sia diventata la festa degli abeti decorati, dei doni, di Babbo Natale? La storia, scrive l’antropologa francese, non è così semplice e univoca. Si deve tornare al Seicento, in Olanda, per trovare un quadro che rappresenti la festa di San Nicola, Santa Claus, archetipo di Babbo Natale. San Nicola, su cui Lagioia si sofferma ampiamente (del resto è nato a Bari e si chiama Nicola di nome) è un santo che ha molte facce, discendente dagli spiriti e spiritelli che accompagnano il corteo di Hellequin, il cacciatore selvaggio che rapisce i bambini e guida il corteo dei morti nelle notti invernali. Ogni personaggio positivo della nostra mitologia ha quasi sempre un’origine negativa; è lo sviluppo di un motivo pauroso in chiave rassicurante. San Nicola è probabilmente trasmigrato in America, sulle navi degli olandesi e dei popoli nordici che hanno trovato là un’altra e più accogliente patria tra il Seicento e il Settecento. Tuttavia la sua ricomparsa nei panni colorati di rosso del vecchio con barba, cappuccio e gerla dei doni, non è tanto recente. Il passaggio da nume tutelare di New York (ogni simbolo ha sempre un’origine locale, anche quando poi diviene un riferimento globale) a eroe americano è opera dello scrittore Washington Irving che nel 1809 pubblica La storia di New York narrata da Dietrich Knickerboker, la quale rende familiare il personaggio di Santa Claus. Nel 1823 è invece un altro testo, una poesia, A Visit from St. Nicholas, di Clement Clarke Moore, a diventare immediatamente popolare, tanto da essere imparata a memoria dagli americani. Il poemetto, presente nei tre saggi a cui sto attingendo, dà il via alle rappresentazioni grafiche di Santa Claus che invadono pian piano le case. Appaiono gli stivali, la giubba foderata di pelliccia, poi i calzettoni bianchi, il copricapo da cacciatore e la pipa bianca. Le immagini hanno un potere invasivo superiore a ogni cosa e l’iconografia di Babbo Natale comincia a diffondersi a macchia d’olio. Prima della poesia di Moore non era consueto festeggiare San Nicola il 24 di dicembre, ora diventa un’abitudine, e nel 1865 gran parte degli stati americani impongono per legge la festa. I pezzi della leggenda che ancora oggi noi raccontiamo ai bambini, si aggiungono a poco a poco: la fabbrica dei giocattoli, la dimora invernale, il sacco di tela marrone, la discesa nella cappa del camino. Sono gli illustratori che arricchiscono la figura di Babbo Natale di riferimenti, topografie e abitudini, così che, alla fine degli anni Venti del Novecento Santa Claus diventa per tutti l’incarnazione della generosità nazionale e uno strumento di promozione commerciale senza precedenti.
Nel 1930 la Coca Cola, ecco il capitalismo che entra in scena, vuole allargare il suo mercato rivolgendosi ai giovani e giovanissimi, chiede a Haddob Sublom di usare Santa Claus per la pubblicità. È in questo modo che il rosso e il bianco della Coca Cola diventano i colori canonici di Babbo Natale. Lagioia nel suo libro tratta ampiamente dell’operazione del brand americano che, arruolando santa Claus come testimonial, non solo aggirò la legge che proibiva di produrre materiale pubblicitario in cui venissero mostrati bambini under 12, mentre bevevano la bibita, ma creò il vero e proprio “spirito guida” che identifica con un messaggio sulle cose ultime di cui il portadoni stava diventando l’incarnazione. Questo messaggio si traduce nella frase: “Non morirete più”.
La comunicazione subliminare, dice Lagioia, è il fantasma che circonda i prodotti commerciali di largo consumo e che si manifesta nella figura distributiva di Santa Claus. Se leggete il saggio dello scrittore (attualmente esaurito, ma che si spera di veder ristampato al più presto), troverete tutte le pezze di appoggio di questo importante discorso che ci riguarda tutti, a partire dal celebre Saggio sul dono (1924) di Marcel Mauss, dove l’antropologo francese mostra come il dono non sia mai totalmente gratuito, per quanto s’allontani dalla logica del modello economico classico dello scambio a fini di lucro.
Più complessa e contraddittoria la storia di Babbo Natale in Europa, come racconta l’antropologa francese. In Inghilterra è ignorato fino alla fine dell’Ottocento. In Francia arriva ufficialmente solo con la fine della Seconda guerra mondiale e il Piano Marshall, per quanto personaggi che gli assomigliano avevano già fatto la loro comparsa nei primi decenni del Novecento, ma sempre in luoghi e regioni limitate. In Italia la storia di Babbo Natale è altrettanto recente e ha faticato molto a imporsi, fino a che non è diventato il simbolo privilegiato dell’industria dolciaria. Allo stesso modo l’albero di Natale decorato appare nelle piazze delle capitali europee solo nei primi decenni del XX secolo. A ostacolare l’avvento di Babbo Natale è la Chiesa cattolica che negli anni Cinquanta si oppone all’ingresso di mitologie popolari diverse dal cristianesimo, così come oggi si oppone, ma con minor convinzione alla festa pagana e americana di Halloween. Il grande antropologo Lévi-Strauss ha dedicato a questo tema un fulminante saggio, Babbo Natale suppliziato (edito da Einaudi, ma anche da Sellerio) che prende spunto da un fatto accaduto a Digione il 24 dicembre 1951, quando una effigie di Babbo Natale è incendiata sul sagrato della chiesa davanti agli occhi impietriti dei bambini dell’oratorio. Lévi-Strauss ricostruisce l’origine pagana del personaggio di Santa Claus, il suo legame con i riti agrari, e mostra come il suo personaggio fosse legato ai riti d’iniziazione dei giovani, al passaggio dall’età giovanile a quella adulta, ma anche al rapporto indissolubile, nelle società tradizionali, tra vivi e morti. La storia del Natale e dei suoi simboli è però legata a un altro evento dell’età moderna: l’affermarsi della vita privata e la crescita del ruolo economico e sociale della famiglia borghese. Il Natale festa dei bambini è la festa dei doni e dunque anche della carità.
A sancire questo passaggio di mentalità è ancora uno scrittore, Charles Dickens, che nel 1843 pubblica il celeberrimo Canto di Natale, molte volte illustrato dal cinema e dai cartoni animati. Doni e carità si legano in modo indissolubile e vanno a sommarsi nel dopoguerra alla nascita della società dei consumi, all’affermarsi del modello americano, così che Babbo Natale è per noi più o meno consapevolmente il vero “Dio delle merci”. In verità la sua fortuna è stata alterna nel corso degli ultimi trent’anni, almeno in Italia. E se gli anni Sessanta e Settanta sono stati segnati da una perdita di ritualità collettive, gli anni Ottanta e Novanta hanno segnato invece un sintomatico ritorno al rito e alla memoria sociale. Come ci ricordano gli antropologi e gli storici, quando è necessario le società provvedono a inventare le proprie tradizioni, le quali, per essere veramente tali, non sono mai date una volta per tutte, ma mutano secondo lo spirito dei tempi.
PS
Come suggerisce Lagioa, si possono vedere, o rivedere, i dvd di due film natalizi: Polar Express di Robert Zemeckis e Nightmare before Christmas di Tim Burton; nel primo si vede il treno che porta al Polo Nord i miscredenti del Natale, i bambini che si rifiutano di credere all’esistenza di Babbo Natale, per poi scoprire che il Paese magico di Santa Claus è una versione infiocchettata di Metropolis di Lang, con conversione immediata dei pargoli e saluto nazi di Babbo Natale medesimo (versione neocon del mito, dice Lagioia), anche se…
Mentre il film di Burton sviluppa in chiave semi-nera il mito degli universi paralleli: Halloweentown e il paese di Babbo Natale confinano e sono collegati. Per i papà più colti si può abbinare (consiglio mio) la visione di questo film con la lettura del fluviale romanzo 1Q84 di Murakami (Einaudi) o aggiungere, in seconda visione, La città incantata di Miyazaki. Tanto per ibridarci con realtà che praticano l’esistenza di universi paralleli, e il Natale lo è alla grande!