Un'intervista / Marina Ballo Charmet: l’immagine latente

Le fotografie di Marina Ballo Charmet registrano il vedere qualcosa per la prima volta. Danno spazio alla possibilità dello sguardo piuttosto che all’oggettivazione dello stesso. Sono pensiero laterale. Nelle immagini c’è il rifiuto di una visione definitiva. Lo sguardo è piuttosto partecipe della visione stessa e rende imprevisto il “sempre visto”, lasciando emergere “il rumore di fondo della nostra mente”. Le fotografie sono seducenti ma senza effetti. Quasi corporali più che neutrali. Si presentano così come è lo sguardo che le ha determinate: sperimentale e periferico. Mentre l’artista attraversa spazi quotidiani, accompagnata dalla sua macchina fotografica, registra esperienze incerte, lasciando fuori la retorica a cui ci hanno abituati i resoconti di percorsi che raramente sono stati derive.

 

Rumore di fondo, #24, 1999.


Le presentazioni visive, muovendosi al confine tra sensazione e immaginazione, sono antieroiche se confrontate con la fotografia di informazione e quella di rappresentazione. Esse rendono superflua la didascalia e il commento all’immagine. Leggiamo il metodo sperimentale di Marina Ballo Charmet sulla scia della sperimentazione fotografica italiana che si è mossa nella direzione di disimparare la fotografia, e con essa la sua storia passata e sovente maschile, ampiamente orientata verso una tensione verticale, il deep focus e un tecnicistico controllo della e sulla visione. Consideriamo una modalità che segna una direzione inaspettata, in cui il fuori fuoco e l’orientamento della macchina fotografica verso il basso, all’altezza dello sguardo di un bambino, o ai margini, sono il derivato anche di un’opposizione linguistica femminista, che cerca di decostruire la visione dal suo interno, disorientando gli assi principali su cui è stata impostata la sua disciplina.

 

Centotrentuno minuti di cielo, ore 06.22, 2018-2019.


Mauro Zanchi e Sara Benaglia: Ci interessa la dimensione perturbante nei tuoi lavori. In cosa consiste la latenza delle tue immagini?

Marina Ballo Charmet: Ricordo quando ho fatto le fotografie della serie Il limite nelle Landes – il cielo, la terra e l’acqua – quello stato delle cose (del mondo) con cui ero in relazione, all’interno rimandava a qualcosa di latente: un’immagine di luce, in qualche modo ‘mitica’, che viene da lontano ma che appartiene al nostro immaginario e rimanda all’oggetto intuito.

 

Il limite. Mimizam (Landes), 1989.


Cosa hai trovato ai margini della percezione?

Le immagini del nostro rapporto con il mondo viste con la coda dell’occhio (e con il preconscio), l’ambiguo e l’incerto.

 

Primo campo, #4, 2001.


Come sei approdata all’uso della visione “periferica e distratta”?

Già nella mia prima serie Il limite stavo lavorando sulla visione periferica, l’aspetto della distrazione è stato messo a punto con i lavori successivi Con la coda dell’occhio e Rumore di fondo, e in quelli seguenti, quando ho deciso di riprendere le fotografie dall’altezza del bambino piccolo e usando il fuoco e il fuori fuoco non sempre nella stessa zona.

La distrazione ha a che fare con il nostro preconscio e con l’attenzione fluttuante.

 

Cosa significa per te “dare il senso dell’esperienza” e stare dentro il luogo?

Sia con la fotografia che con il video lavoro non con l’intenzione di rendere una descrizione analitica dell’oggetto-luogo ma cercando un’immagine che rimandi allo stare ‘lì, in quel luogo’, non di fronte e a distanza come avviene, per esempio, nella veduta. Nella mia immagine è importante anche l’aspetto del margine e del fuori campo. 

 

Con la coda dell'occhio, #17, 1993-1994.


Ci parleresti dell’esperienza come rapporto empatico con il senso di un luogo e anche di come utilizzi il mezzo fotografico in questa modalità?

Prima di fare le fotografie progetto il lavoro, scelgo il tipo di luce, il momento del giorno e i tempi, ma quando faccio le riprese mi pongo in quello che chiamo un ‘rapporto empatico con l’oggetto-luogo’. Succede qualcosa: una comprensione particolare. Nel caso di Con la coda dell’occhio, per esempio, sicuramente con quella luce c’era anche l’esigenza di accovacciarmi, di mettermi ad altezza di bambino, magari anche con il cavalletto a causa della luce (al mattino presto o la sera tardi). Anche se penso molto prima di realizzare le fotografie, nel momento delle riprese è come se la macchina non fosse tra me e l’oggetto ma sentissi direttamente il rapporto tra me e l’oggetto-luogo. È successo qualcosa di simile quando ho fatto le riprese in piazza Duomo per il progetto L’alba.

 

Primo campo, #13, 2001.


Come si può entrare con lo sguardo nella dimensione che rimane enigmatica, nella sospensione di ogni giudizio?

Cercando la presenza della cosa e non rappresentandola. Questo è quello che cerco di fare svuotando la mente. E ovviamente, come si è detto, con una relazione empatica.

 

Esistono veramente le immagini archetipiche? Come si riconoscono rispetto alle immagini del mondo?

Sono quelle immagini che vengono da lontano e che si ‘presentano’.

 

Con la coda dell'occhio, #28, 1993-1994.


Che cosa è il linguaggio oggettivo e neutrale che stai indagando da anni?

È un linguaggio senza effetti drammatici o estetizzanti, come se la cosa si presentasse nella sua neutralità, senza ombre, per esempio.

 

Al di là dell’indagine filosofica e psicanalitica quali aspetti altri hai colto con l’indagine fotografica e artistica?

Credo soprattutto la ricerca sull’immagine che si sta formando. 

 

Il parco, Paris, Les Buttes Chaumont, trittico, 2006. Installation view. Sguardo terrestre, a cura di   Stefano Chiodi, MACRO, Roma, 2013.


Quale oggettività si coglie nelle tue opere?

Penso alla cosa che è ‘lì così’, semplicemente come presenza.

 

Abbiamo letto in un libro a te dedicato che le tue opere sono intese come “immagini distaccate, oggettive e come assenti, prossime a un non senso originario”. Come ti avvicini alla realtà con il tuo sguardo o percezione?

È proprio così come dice bene Stefano Chiodi. Mi avvicino alla realtà con lo sguardo empatico dell’infante.

 

Con la coda dell'occhio, #49, 1993-1994.


Senza titolo (2003) #17 (dalla serie Primo Campo) ci appare come una scultura che fluttua nel non a fuoco. Quando lasciamo depositare il nostro sguardo sul mento e il collo, l’unico punto a fuoco esalta la sostanza della pelle, che è resa come una descrizione lenticolare. Che rapporto intercorre tra la prossimità visiva con la superficie del soggetto attraverso il mezzo fotografico e il tuo sguardo prima che si realizzi l’immagine nella fotografia?

La macchina per me è come un prolungamento dell’occhio e non deve essere fra me e l’oggetto da riprendere.

 

L'alba, milanopiazzaduomo, video, 2015. Installation view. Agir, contempler, a cura di Jean- François Chevrier Musée Unterlinden, Colmar, 2016.


Che cosa rappresentano nella tua ricerca il fuori fuoco, lo spostamento dal soggetto principale, la distrazione, la dispersione, il rimando ad altro, che forse non manifesta la sua presenza nella immagine?

Credo che parlino del fuori campo che è centrale nel mio lavoro, insieme all’attenzione fluttuante, che è quella distratta, periferica.

 

Giudecca, Le ore blu, ore 20.38, 2017.


Ci parleresti delle immagini che stanno al confine tra proiezione mentale e percezione, quelle immagini che precedono la percezione definita, prima della coscienza?

Sono le immagini del preconscio che emergono quando lasciamo vagare la mente. È l’altro intuito, il non visto attentamente in modo definito o il non descritto analiticamente come si può vedere nelle fotografie dei muri, degli angoli e delle porte della mia casa-studio nella serie Rumore di fondo

 

-Le ore blu-Giudecca ore 5,35 - 16 agosto 2017_ESTRATTO 1 MIN.

 

Con la coda dell'occhio, #57, 1993-1994.


Quali componenti politiche sono presenti nelle tue immagini?

Ci sono dei lavori che hanno una componente più direttamente politica come i video Agente apri sui bambini in carcere o quello realizzato in ospedale Frammenti di una notte. Tutto il mio lavoro è indirettamente sicuramente trasgressivo e anticonvenzionale. C’è l’aspetto dello sguardo del bambino, lo sguardo periferico, che è il contrario di quello antropocentrico del potere e del controllo sull’oggetto-luogo.

 

Giudecca, Le ore blu, ore 20.29, 2017.


La tua vicinanza alle lotte femministe ha contribuito (e se sì come) ad andare al di là della messa a distanza, del punto di vista elevato, per allentare e mettere in crisi l’elemento del controllo?

Certamente, insieme al percorso per fare la psicoterapeuta dei bambini, la lotta femminista è stata fondamentale. Ha comportato la critica all’antropocentrismo, che ha implicato l’abolizione della visione verticale e l’adozione di un punto di vista ribassato, all’altezza dello sguardo di bambino.

 

Rumore di fondo, #11, 1996.


Nel ruolo di artista, come hai criticato i modelli visivi dominanti?

Credo proprio nelle scelte linguistiche che ho fatto, oltre che nei soggetti ritratti.

 

Come ti sei distaccata dai tuoi punti di riferimento o maestri?

Non c’è stato bisogno di distaccarmi perché dall’inizio facevo immagini già diverse da loro, ma i riferimenti e i maestri sono rimasti tali nel tempo.

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