Un’esperienza dal Festival “Tuttestorie” / Il corpo libro: teatro per bambini da 0 a 18 mesi
I veri privilegiati, almeno da due anni a questa parte, sono loro: i bambini. Sono gli unici a toccare senza la paura di farlo, a respirare i luoghi senza il timore (né alcun presentimento) del contagio, a muoversi negli spazi senza anteporre la mancanza di coraggio. Nelle chiacchiere da bar qualcuno ancora si chiede come ci vedano loro, adesso che indossiamo il più delle volte una mascherina. Fuori dal teatro Massimo di Cagliari ho provato a usare la celebre tecnica del “cucù” con uno di loro, abbassando il velo azzurro davanti alla bocca e buttando fuori una linguaccia: il piccolo, di appena sedici mesi, non ha battuto ciglio. Era in attesa di vedere uno spettacolo. Un’opera teatrale che dovrei dire “per” l’infanzia e che invece mi ostinerò a definire “dall’“infanzia, secondo una mia personalissima concezione di ciò che riguarda questo territorio tanto aperto e sfrangiato: un territorio dall’infanzia prima che dell’infanzia.
Sono approdato in terra sarda il giorno dopo la chiusura del Festival “Tuttestorie”, dall’omonima libreria cagliaritana che da sedici anni organizza questa kermesse esplicitamente dedicata “ai ragazzi”. Per un’altra settimana, però, hanno continuato a darsi alcuni spettacoli presenti nel programma di questa edizione, come A corpo lib(e)ro di Anna Fascendini, evento teatrale partecipativo per coppie di bambini e genitori in cui al centro sta un incipiente rapporto con l’oggetto libro, con la sua materialità, la carta, la stoffa che regge la rilegatura, un accenno di segni, il colore e i contrasti. Uno spettacolo di solo suono e movimento, canto e danza, lallazione, azione. Rivolto esplicitamente ed esclusivamente a bambini tra zero e diciotto mesi. In sala c’erano cinque neonati (si può chiamarli ancora così fino a un anno e mezzo di vita?) con rispettivi genitori, più tre osservatori “esterni”, di età diverse: ricordo una bambina di appena due mesi, uno – quello citato all’inizio – di sedici, un altro di un anno, una creatura che forse avrà avuto otto mesi e un bambino sui sei mesi.
A corpo lib(e)ro è la mise en espace di un primissimo albo illustrato per l’infanzia: non ancora un picture book in quanto assente la parola, ma nemmeno soltanto un silent book perché il suono, invece, c’è. Verrebbe da chiamarlo action book: un libro animato, che si anima, che si muove, che prende vita nello spazio scenico di un teatro. Le attrici coinvolte sembravano incarnare la cosiddetta “mammalingua” parlata da molti libri per l’infanzia, come nell’omonima opera di Bruno Tognolini (peraltro originario proprio di Cagliari), e producono suoni, rumori, pre-parole, cadono, si lanciano, voltano pagina. Nel film di Wim Wenders Il cielo sopra Berlino nei fotogrammi iniziali campeggiano questi versi di Peter Handke: «Quando il bambino era bambino, / non sapeva di essere un bambino».
La maggior parte – se non la totalità – delle opere destinate all’infanzia ha invece bene in mente il destinatario, sebbene sia una costruzione sociale deliberatamente artificiale, e perciò in mutamento. Quando è catapultato nello spettacolo della Fascendini il bambino sembra sapere perfettamente di non sapere di essere un bambino. Per questo osservare le loro reazioni è stato un privilegio da antropologo: la sensazione è stata quella di scrutare creature nel loro primo atto del pensare, quasi già sporti sul crinale di un tentativo di comprensione, di decifrazione del reale. È stato come vedere il pensiero iniziare a pensarsi, concepirsi. Li chiamerò secondo quelle che mi sono sembrate loro propensioni: l’assaggiatrice, l’osservatore, l’esploratore, il pensatore e l’ascoltatore.
Nel corso dell’evento l’unica ad aver accennato un breve pianto in un paio di occasioni è stata la bambina di otto mesi: la prima volta per essere caduta all’indietro mentre tentava di gattonare, ma ha interrotto il pianto non appena la sua attenzione è tornata “sulla scena”, muovendo la testa quasi a scatti e con gli occhi sbarrati di fronte ai movimenti (alle volte frenetici) delle attrici. Lei è l’assaggiatrice perché proverà a saggiare la materia, i fogli, i colori. Il piccolo accanto a lei, di circa sei mesi, non aveva invece ancora imparato a gattonare, ed è stata la persona più difficile da intercettare nell’attenzione: il suo sguardo si perdeva spesso sul resto dell’ambiente, senza per questo recare disturbo o mostrare palese disinteresse. Lui è l’osservatore, quasi uno scrutatore, imperturbabile “guardatore” dell’intera scena. Il più vivace in assoluto s’è rivelato l’infante di un anno d’età, che ha scorrazzato per tutto il tempo in lungo e in largo nella sala, assai divertito, ma soprattutto estremamente incuriosito dalla “scatola magica” illuminata da cui partiva il “racconto”: sembrava voler entrare nella bocca della parola e dell’immagine.
Lui è evidentemente l’esploratore, l’avventuriero, lo spaziale. Il più rapito e attento è stato, com’era prevedibile, il bambino di sedici mesi, letteralmente a bocca aperta di fronte allo spettacolo, già leggermente intimorito dal sentirsi anch’egli on stage. Lui è il pensatore: guarda e si perde, rimane a fissare, viaggia. Discorso a parte merita la neonata di appena due mesi, per la maggior parte del tempo in braccio a suo padre, alle volte sbadigliante: c’è da tenere in considerazione la sua ancora incipiente capacità visiva, mentre il contesto aurorale-aurale sembra averla tenuta comunque “attenta” ai mutamenti sulla scena, ai cambi di tono, ai salti sonori. Lei è l’ascoltatrice per tali evidenti motivi.
Sul finale dello spettacolo dalla “scatola magica” della carta e dei colori e dei materiali vengon fuori tanti piccoli “pre-libri”, collezioni di fogli, carte e stoffe utilizzate dalle attrici durante la performance e che loro stesse porgono agli spettatori. Ecco che il “racconto” si riunisce nel libro (anche se pre-libro). I colori dominanti sono essenziali, tra il nero (come la sala), il bianco (come i posti a terra, da occupare senza calzature), il rosso del nastrino e il giallo di alcune pagine: il tutto a formare, in copertina, come piccole lune calanti o crescenti. Durante alcuni minuti di “libertà” viene chiesto (senza mai usare la parola, e difatti anche gli adulti comprendono cosa fare senza istruzioni: incredibile!) di “aprire” quel volumetto e mostrarlo ai bambini, dando luogo a una ulteriore extra-narrazione lasciata al gioco, alla spontaneità, al rapporto genitore-figlio. Diventa anche un rapporto genitore-fogli e fogli-figli: i bambini diventano di stoffa o di carta, di cartone, battono sulla materia, indossano sul capo la pagina.
Si sperimenta qualche cosa che Walter Benjamin aveva ben intuito nei suoi scritti raccolti nel saggio Figure dell’infanzia (Cortina, 2012). Riferendosi a un libro sul disegno per bambini, “Der Genius im kinde”, il filosofo tedesco sottolinea che l’autore, Hartlaub, usa coscientemente “Genius” e non “Genie”: genius e non genio, dunque “Il genius nel bambino”. La differenza è la seguente: «il bambino non si esprime attraverso le cose, ma esprime le cose attraverso sé». Esprime lo spazio attraverso di sé, il pre-libro attraverso di sé, e in questo modo lo attraversa, se ne appropria, diventa egli stesso il libro, si sente quel foglio di carta, quella stoffa rossa che roteava come fa lui nella culla o come farà a breve saltellando in un campo in ogni direzione. Perché, sostiene ancora Benjamin, «I libri per bambini non servono a introdurre i propri fruitori nel mondo degli oggetti, degli animali e degli uomini, nella vita stessa.
I bambini si ritrovano nel mondo esterno in modo graduale e solo nella misura in cui esso diventa loro familiare, come un’interiorità che si adegua a loro. L’interiorità di questo modo di vedere risiede nel colore, e nell’elemento del colore si svolge la vita onirica che le cose conducono nello spirito del bambino». Verrebbe da chiedere qual è il sogno che ciascun bambino ha concesso nel suo spirito a quei materiali e a quei colori, dal momento che «domina e controlla la patina illusoria della superficie e tra stoffe colorate e quinte variopinte entra in scena là dove la fiaba si svolge». Perché in scena, nell’evento A corpo lib(e)ro, era proprio il bambino, sebbene non esplicitamente, al punto che qualcuno di loro si è spinto sul proscenio, è entrato dentro il sé rappresentato a teatro. Forse per la prima volta qualcuno di loro si è percepito essere un bambino? Oppure sono stato io, per la prima volta, a percepire d’essere stato un bambino, di avere avuto quel corpo che non ho, che non abbiamo mai più riavuto.