Reportage / Shattered Beirut 6.07

23 Aprile 2021

Carol Mansour è una documentarista indipendente libanese con più di vent’anni di esperienza nel campo televisivo e cinematografico. I suoi lavori sono regolarmente premiati in importanti festival dedicati al cinema e al documentario a livello internazionale. Di qualche giorno fa è la notizia che il suo ultimo lavoro “Shattered Beirut 6.07” – con scene dirette sui postumi della terribile esplosione avvenuta al porto di Beirut il 4 agosto 2020 – è stato riconosciuto come migliore documentario breve al Socially Relevant film Festival di New York ed è nella selezione ufficiale al San Diego Arab film festival previsto per il prossimo giugno. Entrambi i genitori di Carol, palestinesi cristiani, si stabilirono in Libano fuggendo dalla Palestina durante il conflitto arabo-palestinese del 1948, e in Libano Carol è nata nel 1961. Nel 2000 ha fondato la Forward Film production a Beirut e da anni lavora ai suoi documentari insieme alla collega Muna Khalidi. Con il suo lavoro ha indagato e continua ad affrontare aspetti cruciali delle società contemporanee.

 

Del 2007 è il suo documentario “A summer not to forget” sui 34 giorni di bombardamenti israeliani sul Libano a seguito del rapimento di due militari israeliani da parte di Hezbollah. Immagini, a volte insostenibili per lo spettatore, che mostrano il volto macabro e devastante di un conflitto e il dolore di un’intera popolazione sotto assedio. Giustizia sociale, rispetto dei diritti umani, una profonda riflessione sul concetto di malattia mentale e sul suo stigma, la possibilità di costruire una narrativa diversa per raccontare la migrazione forzata, la diaspora e l’esilio e la violenza che la storia imprime sul destino dei singoli sono temi che ricorrono nella intera produzione documentaristica di Carol Mansour e Muna Khalidi. In diversi lavori tra il 2013 e il 2018 hanno raccolto le testimonianze di diversi gruppi di rifugiati in Libano, a seguito del conflitto siriano. “Not who we are” (2013) racconta la storia di cinque donne siriane rifugiate, diverse per età, estrazione sociale, educazione e professione. La telecamera di Carol le incontra e le riprende a più riprese, le segue nei loro spostamenti quotidiani, registra le loro paure, le loro speranze, le ansie sul futuro, il dolore di non sapere cosa potrà esserne delle loro vite, rendendo il documentario una mappatura emotiva e psichica dell’esilio forzato.

 

Anche questo lavoro è stato premiato come miglior documentario breve al Socially Relevant Film Festival di New York nel 2014 e si è aggiudicato la menzione speciale della giuria al Fifog Festival di Ginevra nel 2013. In “We cannot go there now, my dear” (2014) affronta un tema molto poco raccontato dai media mainstream, quello della storia della comunità di esuli palestinesi che trovarono rifugio in Siria dopo essere stati obbligati a lasciare la Palestina e che si sono trovati costretti una seconda volta – a distanza di decenni dal primo esilio – a dovere abbandonare la loro comunità e il loro Paese per diventare una seconda volta rifugiati in Libano. Che cosa significa essere costretti a rivivere il trauma dell’esilio? Cosa significa dovere abbandonare il proprio mondo, materiale e affettivo, a più riprese nel corso di una vita? Cosa si prova a essere costretti a ricominciare da zero in un luogo in cui non si ha nulla, in cui il tessuto di protezione sociale e familiare è irrimediabilmente lacerato e in cui si è solo stranieri? 

È la memoria, il senso di perdita e di appartenenza, che Mansour indaga in uno dei suoi lavori più premiati a livello internazionale “Stitching Palestine” (2017) vincitore del premio come miglior documentario al Palestinian Film Festival di Boston nel 2018 e al Delhi Film Festival nel 2019.
Diverse donne palestinesi, tra le quali avvocati, architetti e scrittrici, attiviste culturali e cantautrici, raccontano il loro rapporto con la Palestina collegandolo l’antica arte del ricamo palestinese, che è il trait-union dell’intero documentario. Cosa significa mettere fisicamente sulla stoffa, attraverso i punti di una tecnica tradizionale antica, una terra nella quale non si può più tornare? 

 

Sono voci femminili, quelle che Mansour raccoglie in molte delle sue produzioni, sguardi di donne sulla memoria e sul presente, donne come portatrici della memoria famigliare e culturale di una comunità, soggetti fortemente impegnati nella costruzione di un nuovo presente e nelle battaglie che ridisegneranno il futuro, donne troppo spesso silenziate da una narrativa dominante maschile che riduce il loro ruolo a vittime rassegnate degli eventi. Quello in cui l’opera di Carol Mansour riesce è cercare e seguire punti di vista lontani dalla narrativa giornalistica mainstream, nuove possibilità di linguaggio e di racconto che possano ridisegnare gli orizzonti della narrazione documentaristica.

Ho incontrato Carol in una tarda mattina di sole sul finire di marzo, nel suo studio di Hamra, quello che è stato il cuore artistico e commerciale di Beirut, provato da una crisi economica senza precedenti nel Paese e da mesi di pandemia e di lockdown forzati.

 

Il 4 agosto 2020 si è verificata una devastante doppia esplosione di 2750 tonnellate di nitrato di ammonio depositato da anni in modo non sicuro nell'area portuale della città di Beirut. Ha causato la morte di 215 civili, la distruzione di interi quartieri centrali, ha lasciato più di 7mila feriti, 300.000 persone provvisoriamente senzatetto, miliardi di danni alla proprietà. Nel tuo ultimo documentario “Shattered Beirut 6.07” hai mostrato la devastazione di questo evento a Beirut e il trauma nei suoi abitanti. Eri a Beirut quando è avvenuta l'esplosione. Cosa è successo subito dopo, cosa hai provato?

Penso che tutti abbiamo avuto la stessa paura. Una paura fisica. Il tipo di emozione che provi quando ti rendi conto che le tue gambe sono troppo deboli e che non puoi più reggerti in piedi. Senti che il tuo corpo sta per collassare. Al momento dell'esplosione la cosa peggiore era non sapere cosa ci stava succedendo o cosa sarebbe potuto succedere il secondo dopo. Non riuscire a rendersi conto di quello che stava accadendo e vedere nel frattempo la distruzione intorno ci ha portato un senso di devastazione, rabbia, frustrazione, paura, ottundimento. Penso che “ottundimento” sia la parola giusta per esprimere il nostro sentimento in quel momento.

 

E poi, cosa hai deciso di fare?

Al momento dell'esplosione mi trovavo ad Hamra (un quartiere commerciale e culturale molto centrale di Beirut, situato nella parte occidentale del centro della città ndr). Subito dopo l'esplosione ho ricevuto una telefonata da un amico che mi diceva che un’amica comune era in ospedale perché gravemente ferita dall'esplosione. Non sapevamo in quale ospedale fosse, quindi ho preso la macchina e ho iniziato a cercarla in diversi posti. Le scene in città il giorno dell'esplosione erano così caotiche e tragiche. Persone sotto shock e terrorizzate urlavano per le strade, facevano la fila fuori dagli ospedali, chiedendo a gran voce i nomi dei loro cari nella speranza di trovarli lì. Scene di caos totale e tragedia. Poi sono andata a casa mia per vedere cosa era successo. Vivo ad Ashrafieh (un quartiere centrale e residenziale di Beirut nella parte orientale del centro della città tra i più colpiti dall’esplosione. ndr) per vedere l'ammontare dei danni. Mi sono poi recata a casa di un altro amico, sempre ad Ashrafieh e la casa era completamente distrutta. Il secondo giorno mi sono svegliata e ho cominciato a camminare per le strade di Beirut con la telecamera in mano. Sono andata nei quartieri che circondano il sito dell'esplosione al porto, Mar Mikahel, Gemmayze, Jeitawi, Qarantina (antichi quartieri residenziali e centrali della città che si trovano nella parte orientale di Beirut, a ridosso del porto, tra i più violentemente colpiti dall’esplosione. ndr). Ho visto volontari della società civile che avevano già iniziato a ripulire le strade dai vetri e dai materiali frantumati. Ho provato così tanta rabbia, perché non sarebbe dovere dei cittadini ripulire la scena dopo un'esplosione della portata di quella a cui abbiamo assistito. Ero così arrabbiata. Ho una moto quindi il giorno dopo sono andata a girare in diverse parti delle zone più colpite. Ho subito capito che non volevo girare un documentario con interviste né volevo ricostruire una descrizione approfondita delle cause dell'esplosione. Ho saputo dal primo istante che volevo realizzare qualcosa di molto breve, dritto al punto. Poi ho chiesto aiuto e fondi alla piattaforma multimediale Daraj media per la produzione del documentario breve che volevo realizzare. La voce che è presente nel film non è stata costruita appositamente per il documentario. Nel momento delle riprese stavo visitando ed entrando in quelle case devastate e stavo davvero chiedendo alle persone che incontravo come si sentissero. È stato molto difficile per me, dato che ho sempre sentito che eravamo tutti sulla stessa barca, tenere la mia voce in prima persona nel documentario. Ma i colleghi di Daraj mi hanno detto che la mia voce era importante come testimonianza oculare diretta di quanto avvenuto e che le altre voci presenti nel video chiarivano senza dubbio che quello che è successo è stato un evento che ha colpito così radicalmente in profondità noi tutti.

 

 

C'è una frase nel documentario in cui dici che il rumore dei tuoi passi sui vetri frantumati ti ha ricordato gli anni della guerra civile, dei cecchini, dei posti di blocco, delle incursioni aeree, ma solo questa volta, dopo questa esplosione, hai avuto la certezza che fosse la fine di tutto. Cosa intendi con questa frase?

Non sto affatto romanticizzando la guerra civile. È stata semplicemente orribile. Ma forse perché sono più matura ora sento davvero che questa è la fine. Come se durante la guerra civile avessimo ancora un certo tipo di speranza per un futuro migliore o almeno che qualcosa di meglio potesse arrivare dopo tutti quegli anni di sofferenza. Ora, dopo quello che è successo, sento che abbiamo perso così tanta dignità. È la sensazione di urlare mentre nessuno ti ascolta, mentre a nessuno importa. Non credo che ci sia una parola che possa descrivere la frustrazione e la rabbia che tutti noi proviamo da allora. La disperazione totale. I politici, tutti loro, sapevano benissimo che c'erano 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio immagazzinate in modo non sicuro nel porto di Beirut, che è molto molto vicino a interi quartieri centrali della città. Tutti lo sapevano e tuttavia non hanno fatto nulla al riguardo. E quando è avvenuta l'esplosione non si sono nemmeno scusati. Quello era il momento in cui avrebbero potuto dire almeno “ci dispiace davvero, andiamo avanti, facciamo qualcosa insieme”.

 

Perché è così difficile, per il Libano ma anche per molti altri paesi del mondo, poter davvero chiedere alla classe politica dominante di assumersi la responsabilità per danni incalcolabili causati ai civili e all'intera popolazione?

Dopo quindici anni di guerra civile in Libano, dopo tutto quello che avevano fatto durante il conflitto, grazie agli accordi (il riferimento è agli accordi di Taif stipulati e ratificati nel 1989 per porre fine alla guerra civile che aveva devastato il Libano dal 1975 al 1990 e alla legge del 1991 che garantì l’amnistia a tutti i colpevoli di crimini commessi durante la guerra civile. ndr) tornarono in carica esattamente le stesse persone, liberandosi da ogni responsabilità grazie all'amnistia concessa a tutte le parti coinvolte nel conflitto a porre "fine" alla guerra. Nulla è mai cambiato da allora.

 

I mesi che hanno preceduto l'esplosione a Beirut sono stati un periodo di grandi rivolte popolari in tutto il Paese. I mesi che vanno dalle rivolte del 17 ottobre 2019 fino alla chiusura del Paese a causa della pandemia nella primavera del 2020 – hanno rappresentato un movimento di contestazione senza precedenti in Libano un movimento popolare, interconfessionale e intergenerazionale riversato nelle strade per chiedere le dimissioni dell'intera classe dirigente politica, accusata di corruzione e malgoverno, chiedendo la fine del sistema settario confessionale che ha governato il Libano sin dalla sua indipendenza. Hai preso parte alle manifestazioni di piazza? Puoi raccontarci l'esperienza di quei giorni?

Certo che ho preso parte alle proteste. Ricordo che in quei mesi, ogni giorno, mi svegliavo la mattina per essere certa che le persone fossero ancora in strada. Ci sono stati giorni di azioni continue, appuntamenti su whatsapp, facebook o qualsiasi possibile piattaforma per organizzare gli eventi e le dimostrazioni della giornata. Sono rimasta sulla strada per giorni, dalla mattina a notte fonda, a discutere con tutti del Paese, di come avremmo potuto cambiarlo. Confronti aperti, discussioni infinite, piene di speranza. Era troppo bello per essere vero. Era un sogno. E per un attimo abbiamo tutti creduto davvero che qualcosa sarebbe potuto cambiare per sempre. Credo fermamente che ora la classe politica sia più che consapevole che non staremo più in silenzio.

 

Credi che questo movimento possa tornare a manifestare nelle strade?

Onestamente non credo. Perché la classe politica è profondamente mafiosa e corrotta in ogni aspetto che governa il Paese. Mantengono le persone in uno stato di subalternità, in una situazione di bisogno. Ci stanno tenendo così occupati con le complicazioni quotidiane della vita in Libano da renderci troppo esausti per andare in strada e lottare per qualcosa che non accadrà mai.

 

Da quello che ho potuto vedere in tutta la tua produzione documentaria, c'è un fil-rouge che la attraversa e che mi pare sia la riflessione sul come gli esseri umani riescano a far fronte a un enorme senso di perdita. È così?

A volte ho come l’impressione che gli esseri umani siano costantemente messi alla prova attraverso la storia nella loro capacità di accettare sfide sempre più difficili. E quando arrivi al livello di dire "ok, è abbastanza, non può peggiorare", il peggio sta solo per arrivare.

 

In molti dei tuoi documentari "We can't go there, my dear" (2014), "Not who we are" (2013) ma anche "Stitching Palestine" (2017) e "Men on hold" (2018) hai deciso di raccontare la storia di rifugiati, in diverse circostanze storiche, personali e geografiche. Dove nasce questa scelta?

Per me la cosa più importante, il motivo per cui ho deciso di girare un certo tipo di documentari, è dare voce a persone che spesso sono senza voce. Quello che Muna ed io stiamo cercando di fare con il nostro lavoro è dare voce all'esperienza di esseri umani che hanno perso tutto, per riflettere su come questa esperienza possa parlarci. Prima di andare a filmare ci sediamo e pensiamo alle questioni che vogliamo affrontare o dove vogliamo andare a girare. Non andiamo dalle persone che vogliamo ascoltare con taccuini e penne per registrare tutto. Andiamo da loro, parliamo con loro per ore, qualche volta cuciniamo insieme, prendiamo un caffè e parliamo di molti aspetti della loro esperienza personale. La videocamera non è mai invadente e dopo un po’ non è più nemmeno percepita dalle persone che incontriamo. È davvero un momento di condivisione. Dopo i nostri incontri spesso le persone che abbiamo visitato ci ringraziano per il tempo che abbiamo dedicato all'ascolto delle loro storie e noi, nello stesso tempo e allo stesso modo, proviamo la stessa gratitudine per il tempo e la fiducia che ci hanno concesso. Solo dopo, in fase di editing, decidiamo cosa tenere.

 

 

In "We cannot go there now, my dear" racconti le storie di un doppio esilio. Quello dei palestinesi-siriani che dopo essersi stabiliti in Siria in fuga dalla Palestina sono stati costretti a diventare profughi per la seconda dovendo abbandonare anche la Siria a causa del conflitto in corso. Come è nata la scelta di girare questo documentario?

Abbiamo scritto un progetto sull'esperienza dell’essere doppiamente rifugiati in Libano e stavamo cercando i fondi per realizzarlo. L’Heinrich Böll Stiftung ha sponsorizzato e finanziato l'intero progetto. Sia io che Muna abbiamo origini palestinesi. Molte persone conoscono le storie dei rifugiati siriani, ma non molte persone conoscono le storie dei palestinesi-siriani che sono stati costretti a reinsediarsi in Libano come rifugiati durante il conflitto siriano. Ci è sembrata una storia molto importante da raccontare quella di queste famiglie costrette a lasciare la Palestina molti decenni fa e – dopo aver trovato in Siria un luogo dove poter vedere realizzato il riconoscimento dei loro diritti (al contrario di ciò che i profughi palestinesi vivono normalmente in Libano) – sono stati costretti nuovamente a lasciare tutti i loro beni emotivi e materiali a causa della guerra.

 

Come hai detto, sei nata in una famiglia cristiana palestinese in Libano. Sia tua madre che tuo padre sono nati in Palestina. Sono stati costretti a fuggire dalla loro patria durante la guerra arabo-israeliana del 1948. Si sono incontrati e si sono sposati in Libano. In che modo la tua esperienza familiare e personale ha modellato il tuo sguardo sul dolore degli altri?

Noi siamo stati tra i più fortunati. Almeno lo siamo stati abbastanza da vederci concessa la nazionalità libanese. I miei genitori hanno perso tutto in Palestina. Sia la parte materna che quella paterna della mia famiglia hanno perso tutti i loro averi in Palestina. Si sono conosciuti qui, in Libano. Mio padre ha dovuto reinventarsi una vita da zero. È diventato un uomo d'affari di grande successo, quindi la nostra infanzia e la nostra adolescenza sono state molto confortevoli, frequentavamo scuole private, avevamo una casa estiva, andavamo in vacanza abitualmente. Siamo cresciuti ascoltando le storie di nostra madre sulla Palestina, ci raccontava sempre della sua patria, ma allo stesso tempo i miei genitori si sono assicurati che potessimo crescere sentendoci a nostro agio nella società e nel paese in cui vivevamo. Tuttavia c'è un senso di appartenenza relativo alla Palestina che ti rimane dentro. Non so come spiegarlo. Ad esempio, quando parlavo al telefono con i miei genitori, iniziavo subito a parlare in arabo con l'accento palestinese, un accento che di solito non uso con i miei amici nella mia vita quotidiana. È qualcosa che ti scorre nelle vene.

 

Ti consideri palestinese?

Non posso dire di essere palestinese. Sono nata e cresciuta in Libano ma nel mio cuore sì. Nel mio cuore sono palestinese. È stato grazie al mio lavoro di regista di documentari che sono diventata più consapevole e più coinvolta in quello che concerne la mia eredità palestinese. Diventare autrice di documentari ha significato per me una sorta di risveglio.

 

Nel tuo documentario “Stitching Palestine” (2017) ho trovato molto interessante la varietà di testimonianze che hai messo in evidenza. Donne palestinesi diversissime per educazione, classe sociale, istruzione e professione hanno parlato del loro legame personale con la Palestina attraverso il fil-rouge della tradizione del ricamo palestinese. Ho trovato che dare voce a un altro punto di vista lontano dalla narrativa mainstream relativa alla diaspora palestinese sia stata una scelta molto efficace.

Sì, è stata una scelta voluta e consapevole. Volevamo dare voce a donne molto istruite e con una grande forza. Perché, sai, la maggior parte delle volte quando si tratta della narrazione della questione palestinese la storia viene raccontata dal punto di vista degli uomini. La narrativa principale è legata all'impoverimento generale della comunità palestinese dopo il 1948, alla miseria e al dolore senza fine che si sono verificati dopo quella data. Noi abbiamo scelto invece di raccontare la storia del senso di appartenenza palestinese attraverso le voci di donne di grande successo, molto istruite e molto coinvolte a livello sociale che hanno affrontato la questione da diverse angolazioni, dal punto di vista di un architetto, di una scrittrice, di un’avvocatessa, di una persona di teatro, di un’attivista sociale e così via. Accanto a questo gruppo di donne, abbiamo scelto di ascoltare le donne che stanno mantenendo viva la tradizione del ricamo palestinese. Queste donne per me, metaforicamente parlando, rappresentano tutte le donne palestinesi. Nel documentario ti rendi conto che non importa quanto sia diverso l'ambiente personale e l'educazione di queste donne. Tutte loro sentono allo stesso modo la Palestina come qualcosa di così forte e profondamente fondante nelle loro vite.

 

Dopotutto chi tramanda l'eredità culturale e la narrativa di una famiglia è, il più delle volte, una donna. Sei d’accordo?

Sì, assolutamente. Di solito sono la madre, la nonna, le persone che raccontano la storia di una famiglia, la sua appartenenza e la sua eredità culturale.

 

Puoi raccontarci qualcosa di più sul tuo prossimo progetto documentario, quello a cui stai lavorando in questi giorni?

Sì, certamente. È una storia incentrata su mia madre. Ho filmato mia madre negli ultimi due anni di vita prima che morisse nel 2015. Era affetta da Alzheimer in quel momento e l'ho filmata con il mio telefono senza la volontà di utilizzare quei filmati per farne un documentario. Prima di morire mia madre ha espresso la volontà di essere cremata. Così, quando è morta, ho iniziato a cercare un modo per trasportare le sue ceneri in Palestina. In quel momento ho scoperto un’intervista che avevo girato con lei nel 2007 in cui mi raccontava come fosse stata costretta a fuggire dalla Palestina. Così, mentre guardavamo questo filmato, Muna ed io ci siamo rese conto che avevamo già il materiale per un nuovo documentario. Nella storia di mia madre ci sono tanti livelli e aspetti narrativi diversi. C'è la relazione madre-figlia, c'è la questione della memoria, c'è la Palestina, c'è il diritto al ritorno.

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