Palazzo Merulana / "La miccia sotto le pietre di Roma"
«A Roma l’amore per l’arte è più scontroso, forse il giudizio romano è infine un confetto da spezzare con la martellata, ma amore e giudizio non si conciliano mai a Roma. Meglio così che le braccia larghe quanto il Colosseo. (…) Per camminare sul suolo di Roma ci vogliono le gambe lunghe». È il 1943, Libero de Libero firma un articolo dal titolo “Belle Arti”. In piena Seconda Guerra Mondiale, ma sapendo che «in ambienti di innocua apparenza quali sempre appaiono i luoghi dell’arte, resisteva qualcosa che nei dizionari va sotto il nome di civiltà, per la quale milioni di persone possono benissimo sacrificare la propria vita», come precisò nel 1945 sulla rivista “Cosmopolita”. Lo riporta Lorenzo Cantatore, curatore del diario deliberiano Borrador (Nuova Eri, 1994), uno dei più luminosi del Novecento, nel catalogo “Libero de Libero e gli artisti della Cometa” (Palombi, 2014) realizzato per la mostra alla Galleria d’Arte Moderna di Roma nel 2014.
A distanza di qualche anno, la capitale annovera un nuovo spazio per l’arte: Palazzo Merulana. L’ex Ufficio d’Igiene è ora un delizioso edificio pronto a farsi, all’occorrenza, “hub culturale”. Il bianco contorna la salita sino in terrazza, il piano luci disegna occhi sulle opere e si può rimanere chiusi dentro le cabine dei bagni misteriosi di De Chirico. Inaugurato lo scorso 11 maggio, la Fondazione Cerasi ha esposto una serie di capolavori per lo più riguardanti la cosiddetta scuola romana di pittura, grazie alla collezione della omonima coppia di mecenati, proprietari di un gran numero di opere d’arte italiana del primo Novecento, tra cui Capogrossi, Raphaël, Mafai, Scipione, Trombadori, Pirandello, Fazzini, Leoncillo, De Chirico, Savinio. E, non ultimo, “Il direttore delle stelle” di Jan Fabre, artista e performer belga: incursione del contemporaneo.
Proprio qui risiede una prima corrispondenza fortissima, sebbene non citata nella mostra: in mezzo agli artisti di via Cavour si staglia questo astronauta con bacchetta da direttore d’orchestra, ma i musicisti sono nel firmamento, tra cui certamente s’avverte il passaggio d’una Cometa. Libero de Libero fu direttore della Galleria d’arte “La Cometa” a Roma in un brevissimo periodo – come pensare a più tempo nel caso del fugace passaggio di questo corpo celeste così raro? Dal 1935 al 1938 questo giovane poeta dagli occhi blu, proveniente dalle campagne di Fondi e della Ciociaria, è stato un indiscusso protagonista della Roma degli artisti, grazie al mecenatismo – questa volta – della contessa Anna Laetitia Pecci Blunt, da tutti detta Mimì, che dapprima ospitava concerti e mostre nella sua dimora di palazzo Malatesta, su una terrazza affacciata sul Campidoglio (artisti del calibro di Jean Cocteau, Paul Valery, Salvador Dalì, Georges Braque), ma che poi affidò a un poeta – e non a un critico d’arte – la direzione d’un progetto che così poteva approfondire «la sua ricerca di una dimensione europea» dell’arte. De Libero ne era certo, tanto da scrivere in una lettera a Mimì, appena due mesi prima dell’inaugurazione della galleria, che «gioveremo all’arte italiana più d’ogni vaga parola». E così
«Il 15 aprile 1935, alle ore 17.00, in piazzetta Tor de’ Specchi 18, accanto al Campidoglio, dove, con la mostra dei disegni di Cagli si inaugura la galleria della Cometa e si incontrano Afro e Bartoli, Capogrossi e Fazzini, Ferrazzi e Franchina, Gerardi e Guttuso, Longanesi e Maccari, Mafai e Melli, Mirko e Moravia, Pirandello e Savinio, Tomea e Ziveri, Ungaretti e Cecchi, Alvaro e Cardarelli, Sibilla Aleramo e Maria Luisa Astaldi, Bontempelli e Goffredo Bellonci, Beccaria e Alfredo Casella, Colla e Don Giuseppe De Luca, Gerardi e Praz, Pannunzio e Petrassi, Rieti e Labroca, Signorelli e Severini, Tamburi e Vigolo, Trilussa e Brandi appena rientrato da Rodi, Roma è un libro aperto di pensieri, aneddoti, abitudini, modi morali del passato dove il cicaleccio letterario, filosofico e artistico (ciò che de Libero chiama “le vicende quotidiane, gli sviluppi e le gelosie, i sodalizi e le rivalità, le astuzie e i tradimenti, le rivelazioni: tutto quanto infine ha realizzato, manomesso, perduto e guadagnato la società romana degli artisti”) è un pensare e ripensare al mutevole specchio dell’io, dove azioni e malizie, luci e voci, colori e rumori, note e inchiostri sono impastati con l’aria che si respira, dove la vita e la storia hanno ritmi diversi, mutano col mutare dei rapporti, si scandiscono tra un libro, un dipinto e una scultura che, fissando la loro memoria del tempo e dei luoghi, in una lenta progressiva osmosi, fanno di Roma l’Italia e viceversa».
Restituisce la vividezza del tempo Giuseppe Appella, critico d’arte che da de Libero “ereditò” le edizioni della Cometa, che si affiancarono all’attività galleristica già dal 1935. De Libero a Roma approda 24enne nel 1927. Studente alla “Sapienza”, sotto la Minerva incontra Luigi Diemoz: amicizia fulminea e fulminante. Fondano il giornale di lettere e arti “L’interplanetario” dove de Libero inizia a scrivere d’arte per poi continuare sulle pagine di “L’Italia letteraria” e poi, in fondo, per non smettere mai. Dove ci si vede con gli altri la sera? Da Aragno, che, come ebbe a scrivere Cardarelli, «non era un caffè, ma un foro, una basilica, un porto di mare». «Da Aragno, dove ormai andavano in gruppo – racconta de Libero – la rivelazione di Mafai e Scipione fu messa in sordina, dai celebri tavoli venivano occhiate gelide, ci chiamavano surrealisti, eravamo poeti ignoti, ma a noi importava la pittura. (…) Fu allora che scrissi la mia prima cronaca d’arte per gridare alla gente quei due nomi che avevano messo la miccia sotto le pietre di Roma». Lo stoppino infiamma: Bruno Barilli definisce «mitraglia incandescente» l’arte di De Chirico che sarà esposta nella Cometa dal 30 novembre 1937.
Per capire il legame strettissimo tra gli artisti, basti pensare che Scipione era anche poeta e uno dei suoi componimenti più intensi s’intitola “Solstizio”, esattamente come l’opera d’esordio di de Libero, pubblicata da Ungaretti nei Quaderni di Novissima nel 1934, un anno dopo la morte del pittore. Proprio Ungaretti fu grande collaboratore della galleria, tanto da scrivere il testo introduttivo della seconda mostra, affidata a Guglielmo Janni e inaugurata l’11 maggio 1935: «Piazze deserte di De Chirico, infuocati cieli romani di Scipione, punti di campagna, attentamente prediletti per vecchia consuetudine, di Morandi, marine di Carrà, popolo di Rosai: l’occhio nostro non potrà più dimenticare osservando gli aspetti della vita, un’intensità del vedere che è la vostra. (…) Nella pittura dei più giovani, e nella pittura di Guglielmo Ianni che invito il pubblico ad ammirare con me, questo sentimento della nostra gioventù spirituale è vivissimo. In particolare, nella pittura di Ianni c’è un impeto sorvegliato da tanta grazia che fa pensare a quel Quattrocento il cui mito fu Davide. Pittura sempre castissima, e velata dal sogno, come sono casti e sognanti i forti».
I ritratti sono la cifra dell’epoca, il ritratto non come merce di scambio, ma come dono per entrarsi a vicenda nelle viscere, per colmarsi di poesia il pittore e di colore il poeta. L’arte è una. Come scrive Giuseppe Lupo in “Poesia come pittura. De Libero e la cultura romana 1930-40” (Vita e Pensiero, 2002)
«poeti e pittori amano specchiarsi gli uni negli altri o raffigurarsi, molto spesso in un interno, fra tavolozze, cavalletti e colori, tanto in pose pensierose, quanto in atteggiamenti perplessi, ilari, statuari e perfino freddi. In un modo e nell’altro si muovono alla ricerca della propria identità, consolidando la volontà a fare dell’espressione creativa uno strumento d’introspezione. (…) Quando poi sono i profili dei letterati che si prestano alla tavolozza degli amici pittori, si percepisce il clima di generale concordia disposto ad avvolgere in un percorso parallelo la cultura romana tra le due guerre».
Il ritratto, citando ancora il saggio del professor Lupo, è lo strumento per «sancire un’affinità elettiva». Sorprende come recentemente anche Palazzo Barberini sia stato restituito al suo splendore (con l’inaugurazione di 11 sale precedentemente non aperte al pubblico) e nell’occasione sia stata allestita una mostra dedicata proprio ai ritratti, in questo caso quelli delle collezioni del MAXXI e della Galleria Barberini-Corsini. S’intitola “Eco e Narciso”, e in apertura campeggia il celebre Narciso di Caravaggio. Scoppia una ulteriore affinità con de Libero: a metà anni Cinquanta il poeta scrive un’opera teatrale ad oggi ancora completamente inedita, il “Don Giovanni”, ma che sarà portata in scena in autunno, in cui nell’epilogo il protagonista fissa, più che lo specchio di sé, la costola mancante di un Narciso che in fondo è stato solo “burlatore di se stesso”.
Per tornare agli anni “cometini” (come definisce anche Mimì gli artisti che giungono in galleria) entre deux guerres, la galleria viene chiusa nel 1938 dopo la promulgazione delle leggi razziali. Il tempo pare rabbuiarsi, invece de Libero fonda con Falqui “Beltempo”, almanacco annuale delle lettere e delle arti in cui non compare una unica classe, ma «pittori scultori poeti»: senza alcuna virgola a separarli, senza ostacolo alcuno a separarne le arti: «Una pittura una scultura una poesia esistono: e, ci puntiamo sopra, fanno il nuvolo e il bel tempo, spente ormai in Europa tante altre faci. In un domani, non lontano, a riconoscerlo non saremo soltanto noi, d’Italia». Eppure fuori impazza la guerra, è il 1942, e questi pittori scultori poeti pensano soltanto all’arte, oppongono soltanto l’arte alle armi, devono contrapporre la bellezza alla devastazione. In questo trambusto sorprende la lucidità, la guerra che è mondiale ma è anzitutto continentale crea una idea di Europa da ricostruire, e sconforta pensare alla pochezza dei giorni nostri.
La Cometa, come scrisse il poeta, artista e biblista Emilio Villa aveva «dettato legge nelle Biennali veneziane come nelle Quadriennali» perché vi erano avvenuti «i fatti più significativi, le indicazioni più precise della pittura italiana contemporanea». Vi erano avvenuti, al contempo, anche i fatti più intimi, le amicizie più preziose e irrecuperabili, i furori più amorevoli e i gesti d’affetto e le separazioni più strazianti. Il 6 maggio 1952 muore Alberto Savinio, «il più intelligente di tutti» lo definisce de Libero nel suo diario, commosso fino alle lacrime («ho singhiozzato a lungo contro la parete, era da tempo che non lo facevo») per un’amicizia che «non è soltanto un’esigenza del cuore, è anche una conquista della mente, una gratitudine senza fine». Ci auguriamo che anche Roma possa essere grata a un uomo come de Libero, poeta in cerca di ordigni bellici da far brillare in spazi sicuri, in una galleria d’arte romana per esempio.