Ernesto Laclau / La ragione populista
“Il populismo potrebbe rappresentare alla fine la strada maestra per comprendere qualcosa circa la costituzione ontologica del politico in quanto tale.” (Laclau, La ragione populista, p. 63)
Da anni assistiamo a una valanga di libri sul populismo. Tra gli scritti più importanti su questo tema di questi ultimi quindici anni, trovo che abbia un posto di rilievo il libro del filosofo Ernesto Laclau: On Populist Reason (La ragione populista, Laterza, 2008), uscito nel 2005. In effetti, non si tratta semplicemente di una ricostruzione della dinamica dei populismi, ma assume la statura di una teoria del politico in generale.
Questo libro viene per lo più interpretato, non senza qualche ragione, come una rivalutazione filosofica del populismo. E in effetti sappiamo che negli ultimi anni Laclau (morto nel 2014) simpatizzava per certe forme di populismo di sinistra, in particolare per il regime di Hugo Chávez. Si ispirano inoltre al pensiero di Laclau movimenti come Podemos in Spagna e Syriza in Grecia. Ma si può leggere il testo in modo diverso. Nel fondo, in questo libro non si tratta veramente di una rivalutazione del populismo, come vedremo.
È vero che Laclau rovescia completamente quella “denigrazione delle masse” implicita nel concetto stesso di populismo. Per lui invece il populismo coincide con il politico stesso. “Il populismo è… un modo di costruire il politico” (p. XXXIII) e “Non c’è intervento politico che non sia in qualche misura populista” (p. 146). Perché “il popolo” è una costruzione politica, non un datum della natura sociale. Non c’è prima un popolo, che poi si dà una data organizzazione politica; è l’organizzarsi politicamente di una massa che ne fa un popolo. Per populismo intende il processo attraverso cui una plebs, una massa non determinata e non rappresentata di persone, si costituisce come populus, ovvero si rappresenta come una totalità. La politica porta con sé una sorta di transustanziazione simbolica della realtà sociale. Insomma, la politica, oltre che essere scontro tra interessi, è scontro tra rappresentazioni.
Un ‘popolo’ si costituisce in contrapposizione a qualcos’altro che diventa il suo ‘esterno’, il nemico. Come per Carl Schmitt, anche per Laclau la politica è antagonismo, divisione tra amici e nemici.
Laclau mostra quanto utile possa essere oggi la teoria freudiana delle Massen, “folle” (S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, 1921). Per Freud qualsiasi aggregazione sociale si costituisce grazie a un leader, Führer. Il leader prende il posto dell’ideale dell’Io di ciascun membro del gruppo, così i membri si identificano reciprocamente attraverso questo ideale incarnato nel leader. C’è però una differenza tra Laclau e Freud: alla funzione strutturante del capo Laclau sostituisce la funzione del significante vuoto. “Baffone” (Stalin), “il Grande Timoniere” (Mao) o “il Cavaliere” (Berlusconi) potranno anche essere a un certo punto ripudiati, o passare a miglior vita, ma i significanti Comunismo, Maoismo e Berlusconismo potranno continuare ciascuno a ‘fare catena’. Laclau osa chiamare “significante vuoto” tutto ciò che per ogni militante è invece passione ideale.
La costruzione di Laclau scommette insomma sul primato del significante, concetto ripreso dalla rielaborazione originale che ne ha fatto Lacan. Il primato del significante in politica fu espresso comicamente dal personaggio di re Ubu di Alfred Jarry: “Viva la Polonia! Perché se non ci fosse la Polonia, non ci sarebbero i polacchi!” – detto in un’epoca in cui la Polonia non esisteva ancora come stato. La Polonia è un significante, i polacchi sono il suo prodotto. Per capire la dinamica politica, non dobbiamo presupporre degli insiemi coerenti – classi sociali, etnie, gruppi religiosi, ecc. – prima della nominazione che essi prendono all’interno del gioco politico. Sono le rappresentazioni politiche a dare una identità sociale alle esigenze più svariate.
Per Laclau gran parte del conflitto politico segue regole di opposizione tra significanti, ma si tratta di significanti vuoti, ovvero di simboli che rendono un popolo riconoscibile a sé stesso – Italia, Europa, proletariato, mussulmani, fascismo, Palestina, ecc. Nelle società reali questi significanti vuoti vengono interiorizzati come proprie identità da ciascuno dei suoi membri. Nella realtà sociale, la molla che porta ai conflitti politici sono le svariate demands, termine che in inglese significa domanda [per avere] anche nel senso di reclamo. Il desiderio politico si manifesta attraverso una miriade di richieste-reclami. Le richieste-reclami sono la matrice stessa del politico.
Uno stretto collaboratore di Andreotti mi diceva che il senatore a vita soleva dire: “Il mio mestiere consiste nell’essere il luogo dove miriadi di desideri affluiscono”. Laclau chiama demand quel che Andreotti chiamava “desiderio”. Aggiungerei: se oggi fiorisce tanto risentimento nei confronti della “casta politica”, questo accade perché il presupposto diffuso è che l’uomo politico è Colui-che-può-soddisfare-i-miei-desideri; ma siccome la gente constata che tanti propri desideri non vengono soddisfatti, allora la delusione nei confronti del politico onnipotente si tramuta in risentimento e odio.
Laclau parte da una frase che Mrs Thatcher rese famosa: “La società non esiste”. Per la ‘nominalista’ Thatcher quel ‘tutto’ che chiamiamo società si risolve nelle interazioni tra individui, ciascuno con proprie credenze e desideri. Questa è la base ontologica del liberismo. Per Laclau piuttosto, come abbiamo visto, all’origine delle contrapposizioni politiche ci sono delle domande-lamentele eterogenee portate dagli agenti sociali. Laclau tenta insomma una genealogia del politico partendo dal concetto di domanda.
Laclau si ispira alla linguistica strutturale proponendo una distinzione fondamentale tra logica delle equivalenze e logica delle differenze. La linguistica strutturale distingue due assi del linguaggio, il sintagmatico e il paradigmatico. Il primo è la successione dei significanti per costituire frasi e discorsi; il secondo è la selezione che ogni parlante fa di un significante a partire da una lista implicita di termini che costituisce un paradigma linguistico. “Io amo Lina” è un sintagma, che implica vari paradigmi:
“io/tu/egli/lei”;
“amare/odiare/essere indifferente ecc.”;
“nome femminile/nome maschile”.
La logica delle equivalenze corrisponde al piano sintagmatico: un partito o movimento politico inanella le varie domande in una sorta di catena. Questa catena però non può essere una sommatoria di domande, deve essere come transustanziata da un significante vuoto che le sussuma.
Per esempio, la Lega Nord di Bossi aveva raccolto domande disparate: disprezzo per gli italiani del Sud e poi rigetto degli immigrati e di culture considerate inferiori; richiesta di minor centralizzazione del potere politico a Roma; protesta per le tasse troppo alte; ripristino di un’identità cattolica conservatrice; promozione delle tradizioni vernacolari e dei dialetti locali del Nord, ecc. Tutte queste domande furono concatenate dalla Lega, ma ognuna di essa è differente dall’altra perché ciascuna appartiene a paradigmi diversi. La domanda “più spazio alle tradizioni e ai dialetti locali” si oppone nel paradigma a “più spazio alla cultura cosmopolitica e alle lingue di comunicazione internazionale”. La Lega – fino al cambio della guardia con Matteo Salvini – aveva subordinato tutte queste richieste variegate a una rivendicazione globale: Federalismo e, in prospettiva, Secessione del Nord.
Ora, esisteva un “popolo leghista” finché c’era una tensione continua tra subordinazione delle domande a un progetto politico da una parte, e autonomizzazione delle domande dall’altra. Ogni identità politica oscilla sempre tra questi due estremi: o si riduce a una totale subordinazione al significante politico (come vi si subordina il politico di professione) o a una totale autonomizzazione delle domande, che sfocia nell’anti-politica. Ogni domanda quindi ha una doppia faccia: da una parte è una domanda differenziale – ad esempio, “voglio pagare meno tasse”, “voglio creare uno stato indipendente della mia regione” – dall’altra ha una faccia equivalenziale, nel senso che tutte sono rappresentate da un significante vuoto, nel nostro esempio “Padania”. Il significante vuoto costituisce comunque una frontiera; la Lega Nord esisteva come opposizione a una serie di altri soggetti politici, l’esterno ‘eterogeneo’ e ostile (l’italianità, il cosmopolitismo, la sinistra). Non bisogna pensare che solo certi movimenti politici si rappresentino attraverso significanti vuoti: per Laclau, non può esistere un movimento politico, di alcun tipo, senza un significante vuoto.
Laclau porta l’esempio dei ceti di lavoratori nel corso della Rivoluzione francese. L’idea rivoluzionaria di “popolo” era evidentemente un costrutto equivalenziale, ma la storia della Rivoluzione illustra la tensione continua tra l’universalità della catena equivalenziale (“il popolo”) e le domande particolari che componevano i vari anelli. Così ci fu una costante tensione tra le domande delle varie aree di lavoratori e il discorso equivalenziale di una radicale democrazia popolare che non prevedeva divisioni di classe. Il discorso rivoluzionario ufficiale non poteva ignorare le richieste dei lavoratori, ma nella misura in cui erano in contraddizione con gli interessi di altri strati, la Rivoluzione ha avuto sempre un andamento zigzagante: da una parte riconosceva le domande dei lavoratori, dall’altra cercava anche di reprimerle.
Si prenda la storia del comunismo. Nel corso degli ultimi due secoli, i partiti comunisti occidentali hanno fatto proprie richieste eterogenee: l’emancipazione operaia certamente, ma anche l’emancipazione delle masse contadine; la richiesta di una democrazia pluralista “borghese”, anche se solo come fase di passaggio evolutiva verso una democrazia socialista; la promozione dell’emancipazione femminile, della libertà di pensiero e di media, dell’intervento dello stato per redistribuire le ricchezze, del welfare state, della liberazione dall’egemonia della morale religiosa… Tutte queste esigenze differenziali sono certo evolute nel tempo. Ad esempio, i comunisti hanno finito a un certo punto col far proprie anche le esigenze degli omosessuali, dell’emancipazione dei giovani rispetto all’autorità patriarcale, ecc. Il comunismo ha finito col fare proprie molte richieste della narrazione liberale e libertaria, che esalta l’autonomia soggettiva, quindi individualista. Ma tutte sono state rese equivalenti grazie ai significanti vuoti Socialismo e Comunismo.
La politica è insomma sempre una tensione continua, mai risolta, tra logica delle equivalenze e logica delle differenze. Per Laclau ogni agente sociale fa differenza rispetto a qualsiasi altro, e quel che contano – come nella linguistica strutturale – sono le differenze. Ma d’altro canto, perché queste differenze si aggreghino ‘facendo sistema’, occorre una sorta di pseudo-totalità, grazie alla quale le domande di molti agenti divengono equivalenti. Il populus come totalità non si dà mai – questo punto è essenziale. La dialettica del ‘politico’ secondo Laclau si impernia sul fatto che alcune parzialità diventano la rappresentazione di una totalità impossibile, assumendo quindi un ruolo egemonico. L’egemonia è sempre quella di parti sul tutto.
Il concetto di egemonia – che Laclau riprende da Gramsci – indica il fatto che un elemento particolare della plebs finisce con l’assumere un significato universale. “La storia è una successione discontinua di formazioni egemoniche” (p. 214) scrive lapidariamente Laclau. Oggi, direi, la parzialità egemonica in Occidente è la concezione liberal-democratica che si cerca di imporre anche nei paesi non liberal-democratici. Così l’Occidente ha portato questa concezione liberal-democratica anche a paesi storicamente impreparati a essa, come l’Iraq o la Libia.
Quel che rende fragile e mai definitiva la contrapposizione tra due o più fronti politici – ognuno rappresentato da qualche significante vuoto – è la presenza di significanti fluttuanti, ovvero di domande che possono essere inscritte sia in un fronte che in quello contrapposto. I significanti fluttuanti sono demands che possono essere “concatenate” da schieramenti del tutto diversi.
Ad esempio, in Italia sia la sinistra classica che il Movimento 5 Stelle hanno un significante comune: la lotta alla povertà. Così il M5S ha voluto il reddito di cittadinanza, una forma di ammortizzazione sociale. Si tratta di un significante fluttuante perché una richiesta del genere può essere fatta propria anche dalla sinistra classica. Ma l’opposizione di sinistra ha rigettato questa misura proprio per marcare la propria differenza rispetto al M5S: ha insistito allora su un altro significante fluttuante, “il diritto al lavoro”. Per la sinistra si tratta non di dare un sussidio a chi non ha lavoro ma trovare lavoro a chi non ce l’ha. La differenza tra le due domande però tende a stemperarsi quasi fino a sparire. E in effetti già la sinistra, col governo Gentiloni, aveva dato inizio al “reddito d’inclusione”, che anticipava il reddito di cittadinanza.
Eppure lo stesso significante – “lotta alla povertà” – ha sensi diversi a seconda che la narrazione (uso questo termine che Laclau non usa) sia quella della sinistra o del M5S o di altre parti politiche. La sinistra si basa su equivalenze che hanno come riferimento fondamentale “il lavoratore”: è bene dare un reddito a chi non lavora in quanto la disoccupazione è concepita come un intervallo tra due lavori. Il discorso populista di Grillo e Casaleggio ha invece come riferimento fondamentale “il cittadino”, non il lavoratore. Anzi, la narrazione pentastellata è intrisa di pessimismo economico: dà per scontato che sarà sempre più difficile trovare lavoro, che lavorare a tempo pieno sarà sempre più un privilegio (è tutto il tema della “decrescita felice”, che di fatto sarebbe infelice), per cui occorre comunque fornire un reddito al cittadino in quanto cittadino. Il punto fondamentale della narrazione grillina è che la cittadinanza in quanto tale dovrebbe implicare il godimento di certi diritti anche economici.
Anche il ‘popolo’ sotto l’egemonia del significante ‘Padania’ portava domande che altri progetti egemonici rivali potevano rappresentare. Per esempio, quando la Lega si opponeva al governo Monti (che governò dal 2011 al 2013), esibì alla Camera una sua parlamentare vestita da operaia, quale essa era prima, che lanciò un grido di dolore contro la crescente disoccupazione operaia al Nord; una messinscena che avrebbe potuto essere imbastita dal partito comunista negli anni 50. La denuncia della situazione critica dei ceti operai è infatti un significante fluttuante, ovvero un’istanza che subisce una doppia pressione da parte di due catene equivalenziali antagoniste – nel nostro esempio, della catena leghista da una parte, della catena socialista e comunista dall’altra. Tutto dipenderà da quale delle due catene diventerà egemone. Come abbiamo visto, la catena leghista egemonizzava certe tradizionali richieste operaie (niente licenziamenti, salari più alti), anche se limitate agli operai del Nord. La Lega poi ha rinunciato al regionalismo separatista ricollegandosi al nazionalismo delle destre classiche, e il partito comunista è praticamente scomparso. Ciò che è diventato egemone, nella politica di oggi, e che è comune sia alla Lega di Salvini che al Movimento 5 Stelle, è l’anti-europeismo: la rivendicazione di una sovranità nazionale rispetto a élite politiche denunciate come dispotiche, quelle delle istituzioni europee. Ma l’anti-europeismo della Lega e quello grillino si inseriscono in serie equivalenziali diverse.
In altri casi un significante avrebbe potuto essere fluttuante, ma di fatto viene abbandonato da un fronte all’altro. Per esempio, la denuncia della magistratura come longa manus del sistema capitalistico, e dei giudici come agenti del potere, era un luogo comune della sinistra in Occidente. Ma in Italia l’attacco che per anni Berlusconi ha lanciato contro la magistratura, invocando più garantismo, è stato letto dalla sinistra italiana come una strategia del tycoon per sfuggire ai processi contro di lui; così la sinistra ha finito con lo schierarsi compatta a favore del potere giudiziario, abbandonando il suo vecchio significante garantista. La diffidenza nei confronti della magistratura è passata dalla sinistra alla destra.
Un punto fondamentale del sistema teorico di Laclau è quel che lui chiama eterogeneità. L’antagonismo politico non è mai perfetto, completo, ma lascia sempre fuori qualcosa di ‘irrecuperabile’, una eccedenza non integrata nelle opposizioni politiche fondamentali. Era quel che Marx chiamava Lumpenproletariat, il proletariato straccione, che lui aborriva. Laclau concettualizza questa eterogeneità attraverso Georges Bataille: la parte omogenea della società respinge via da sé, come scarto, una parte inassimilabile a questa omogeneità, come i folli, le classi guerriere aristocratiche, i miserabili, i violenti, i sobillatori. Oggi a questa lista vanno aggiunti gli immigrati clandestini. Perciò Laclau dice che l’eterogeneità è un’unità fallita. Usando un altro concetto lacaniano, quello di Reale (in quanto distinto dai registri Immaginario e Simbolico), Laclau scrive che questi individui eterogenei sono il Reale del “popolo”, un resto che resiste a ogni integrazione simbolica. Potremmo chiamarlo l’extra-popolo.
Laclau afferma che, comunque, ogni forma di omologazione grazie a cui si costituisce un popolo esige, come altra faccia del popolo, una eterogeneità. Quest’ultima è fuori del “politico”, ma ne è in qualche modo anche il catalizzatore. Ogni politicità implica la produzione di una impoliticità. Ogni ordine politico ha la sua “delinquenza”.
Ma è proprio vero che questa eterogeneità non è politicamente rappresentata, come dice Laclau? Secondo me, in qualche modo lo è, anche se obliquamente. Basti vedere come anni fa il partito di Berlusconi si sia battuto a spada tratta contro le leggi anti-corruzione dopo aver depenalizzato il falso in bilancio. La peculiarità del berlusconismo consisteva nel dare rappresentanza politica obliqua a certa eterogeneità, insomma all’illegalità. Laclau cita un politico brasiliano corrotto degli anni 1950, Ademar de Barros, che aveva come motto elettorale “Ruba, ma manda avanti le cose”. La dialettica di Laclau quindi andrebbe resa ancor più complessa, dato che l’eterogeneità anti-politica in qualche modo viene rappresentata all’interno delle equivalenze politiche, ovvero il Reale si rappresenta in seno al popolo. Il paradosso è che l’anti-politicità viene, prima o poi, politicizzata.
In termini freudiani, questa eterogeneità – dove il particulare prevale sull’interesse comune – è istanza della pulsione di morte: è la forza che tende a disgregare il sociale. Ma senza questa spinta mortifera alla frammentazione – “ognuno per sé” – non ci sarebbe nemmeno l’Eros sociale, l’aggregazione delle domande nel populus.
Abbiamo visto che per Laclau un’unità (un “popolo”) a partire dall’eterogeneità può nascere grazie a una logica equivalenziale e alla produzione di significanti vuoti.
È quel che non è accaduto invece con la recente rivolta in Francia dei gilets jaunes. Inizialmente il movimento sembrava focalizzato contro una norma del governo Philippe, che prevedeva un aumento del costo della benzina. Ma ben presto il movimento, allargatosi, cominciò ad avere slogan politici: divenne una rivolta violenta di piazza contro la presidenza Macron. Che cosa si rimproverava esattamente a Macron? Le varie componenti avevano ciascuna le loro ragioni, il movimento rese equivalenti insomma, nel senso di Laclau, varie proteste contro il governo. In quanto anti-governativo, il movimento è stato sostenuto da partiti e leader che in qualche modo si oppongono a Macron, dalla sinistra radicale al partito di Le Pen. Ma il movimento non è riuscito a costituire un significante vuoto, a parte la divisa, per chiamarla così, del gilet giallo. È vero che un essere-contro è sufficiente a costituire un gruppo politico, senza che a questo essere-contro corrispondano progetti concreti. È mancato però al movimento dei gilet gialli quel che Laclau chiama “l’unificazione di una pluralità di domande in una catena equivalenziale”. Certamente il movimento di protesta era riuscito a costituire una frontiera interna che separava la società in due campi, quello pro-governo e quello anti-governo. Ma la catena equivalenziale non è stata consolidata dalla costruzione di un’identità popolare, che è qualcosa di qualitativamente superiore a una semplice sommatoria di anelli equivalenziali (p. 72).
Una delle conseguenze dell’analisi di Laclau – che pure è sempre rimasto uomo di sinistra – è la fine della predominanza dell’opposizione sinistra/destra. Per molti lo spettro politico che va dalla sinistra alla destra è quello veramente fondamentale nelle società moderne; anche partiti e movimenti che dicono di situarsi al centro, di fatto si collocano in relazione all’asse sinistra versus destra. Anche i movimenti populisti, che pur dicono di voler trasgredire questa opposizione, prima o poi finirebbero col situarsi entro questa polarità, che resta quella veramente strutturante il campo politico. Chi è di sinistra la pensa come Alain: «Quando mi si chiede se la frattura tra partiti di destra e partiti di sinistra, uomini di destra e uomini di sinistra, abbia ancora un senso, la prima idea che mi viene è che l’uomo che pone questa domanda non è certamente un uomo di sinistra» (Propos sur les pouvoirs, #134, Décembre 1930, Gallimard 1985). Insomma, essere di sinistra significa soprattutto credere fermamente nell’opposizione sinistra/destra. E in effetti gran parte del voto per la destra non radicale sceglie “il Politico che mi Dispensa dalla Politica”, chi vota per un partito conservatore in qualche modo vuole essere liberato dal dover scegliere tra sinistra e destra come atto obbligato. Molto spesso, si è di destra per evitare di scegliere tra sinistra e destra.
La contrapposizione tra sinistra e destra nasce con la Rivoluzione francese, e continua – in parte – a strutturare il campo politico delle società euro-americane, ma non appare pertinente in molti altri sistemi politici, in particolare africani e asiatici. Gran parte dei conflitti politici in tantissimi paesi non sono riconducibili alla differenza sinistra-destra, nemmeno in molti paesi ex-comunisti. Ad esempio, dove situare Vladimir Putin? Insomma, credere nel primato della divisione sinistra/destra è peccare di eurocentrismo: si dà per scontato che tutto il mondo debba strutturarsi secondo categorie europee e americane. Ma le nostre griglie non si applicano a tutti.
Ora, in Laclau le equivalenze possono essere di vario tipo, non solo del tipo sinistra versus destra. Le equivalenze possono formarsi in relazione al contesto politico momentaneo, e quindi si possono costruire continuamente nuovi significanti vuoti. Le opposizioni politiche non sono mai fissate una volta per tutte.
In Italia, ad esempio, la sinistra, socialista e comunista, aveva puntato sulla creazione e l’incremento del welfare state, sull’intervento dello stato nell’economia e sul potere dei sindacati dei lavoratori all’interno delle grandi fabbriche. D’altro canto, la sinistra si faceva paladina dei movimenti dei diritti civili; da qui l’introduzione del divorzio e quindi del diritto ad abortire. Negli anni ‘70 e ‘80, in effetti, questi obiettivi vennero in gran parte realizzati, per cui si ci chiedeva che cosa la sinistra potesse volere d’altro. Si notò piuttosto che il welfare state costava sempre di più e che quindi il carico fiscale si alzava verso livelli inaccettabili; insomma, si cominciarono a notare anche i costi delle realizzazioni politiche della sinistra. Emersero quindi, negli anni 80, domande inassimilabili alle equivalenze della sinistra e della destra. La Lega Nord, in particolare, articolò nuove domande: si fece portavoce delle esigenze del Nord industriale e produttivo stanco di dover finanziare un sistema assistenzialista nelle regioni del Sud; e di una richiesta di abbassare i carichi fiscali. La Lega quindi impose un’opposizione Nord/Sud che il sistema politico fino ad allora dominante – sia di sinistra che di destra – non aveva mai preso in considerazione. Da qui cominciò il tramonto della polarità oppositiva partito comunista versus democrazia cristiana, che aveva caratterizzato il Dopoguerra.
Indubbiamente il pensiero di Laclau è complesso. Comunque, il suo il merito è di evadere dall’alternativa tra una visione neo-marxista della politica da una parte, e una visione neo-liberale dall’altra. Un’alternativa da cui sarebbe ora di evadere.