Intervista con Eva Truffaut
Eva Truffaut è inconfondibilmente riferibile a suo padre François, per fisicità e sensibilità artistica. A Palermo come Presidente di Giuria nell'ottimo Sicilia Queer Film Fest ai Cantieri Culturali alla Zisa, Eva Truffaut si scopre innamorata della Sicilia (“In questi giorni ho fatto tante foto in questa terra di opposti, dall'incredibile fermento. Qui l'ombra è nera e la luce è immensa”) e vive il suo ruolo con consapevolezza e concentrazione:
“Mi piace stare in Giuria. Quale altra situazione permette il confronto di personalità così diverse tra loro per un tempo dato, nella condivisione di un'esperienza comune? Vedo i film più volte e non mi interessano le critiche fini a se stesse, quelle che esprimono un mero giudizio di gradimento, piuttosto amo il dibattito e il confronto di idee. La sensazione è quella di vivere in questo tempo preciso un po' più intensamente, un tempo più appassionato. Vivere i Festival è un'esperienza un po' privilegiata: si sta insieme per scoprire le possibili opere d'arte, perché un film dev'essere un'opera d'arte, tanto quanto un quadro o una performance”.
La sua sensibilità nei confronti delle tematiche LGBTQI è da attribuire alla loro intrinseca istanza civica? Cos'è “Queer” per Eva Truffaut?
Penso che LGBTQI sia tutto tranne che un cadre: la nozione di “Queer” è nata proprio dall'impossibilità di collocare alcuni generi, abbraccia tutte le minoranze, culturali, sociali, di pensiero e si riferisce alle scelte di vita, alla propria espressione. Il termine “Queer”, che risale al libro degli anni '50 di William Burroughs, è un termine di avanguardia ma è divenuto anche mainstream. Esiste un vero e proprio mercato Queer: prodotti queer, bar queer, club queer, trasmissioni televisive queer. Gli stereotipi sul Queer sono l'opposto della sua definizione. Oggi, rispetto a ieri, la situazione è migliorata, ma non può essere abbandonata. Su queste tematiche, in Francia, cerco da sempre di impegnarmi politicamente e culturalmente, sulla scia di una tradizione familiare gauchiste, tramandando anche a mia figlia gli stessi valori. Collaboro con due associazioni che si occupano proprio di questo, tra cui Le Refuge, un'associazione per giovani omosessuali allontanati dalla famiglia in quanto gay: li accoglie, li aiuta a terminare gli studi, segue il loro inserimento nella società.
“Avant de nous plonger dans le cinema”, cosa pensa della situazione socio-politica odierna in Francia in relazione al contesto europeo?
Penso che sia una vergogna. Certo, anche in Italia c'è stato un periodo tremendo. Bossi ha cercato di inculcare idee separatiste, Berlusconi per anni ha cercato di dividere il paese nell'Italia dei ricchi e l'Italia dei poveri. Ora pare muoversi. Credo che il vostro paese sia una sorta di laboratorio: quello che accade in Italia è ciò che accadrà dieci anni dopo in Europa. Anche ai francesi piace avere un bel capo, pieno di le medaglie. È insopportabile pensare di dover arrivare a tanto per risvegliarsi. Marine Le Pen è già più che abbastanza. Quello che è accaduto nelle scorse elezioni in Francia è stato il trionfo dell'astensionismo: ancora una volta collaborazione passiva.
“Non si finisce mai con l’infanzia e le storie d’amore…”– ripeteva spesso François Truffaut – “Forse perché non ho avuto una vera madre ho sempre considerato le donne come qualcosa di misterioso, magico, inaccessibile.” Fu in Italia, alla Mostra del Cinema di Venezia, che nel 1956 François Truffaut, conobbe Madeleine Morgenstern (figlia di Ignace Morgenstern, amministratore delegato di Cocinor, importante compagnia di distribuzione cinematografica francese), che lo sposò e lo sostenne agli inizi della sua carriera. Con lei, il regista ebbe due figlie: Laura ed Eva. Anni dopo nacque anche Josephine, dal legame con Fanny Ardant. Com'è il rapporto tra queste “donne di Truffaut”?
In effetti, da adulta, non ho mai visto mancare d'amore François... mai. Se c'è un uomo che possiamo definire amato dalle donne era proprio lui! Le mie sorelle sono diverse da me, ma andiamo molto d'accordo. Laura è la più grande, ed è professoressa e traduttrice di francese. Vive a Berkeley, in California, con suo marito, di origine cinese, e tre ragazze che vivono questo clima culturale eterogeneo. Nostra sorella Josephine è la più piccola, bellissima, fisicamente forse è quella che più assomiglia a nostro padre. Lei è molto ardente, chiedo venia per il gioco di parole! Josephine è psicanalista nelle prigioni, lavora con i detenuti per pene gravi. E io, beh, io non amo definirmi “donna”. Preferisco “una persona”, “qualcuno”, a volte un “uomo gay” perché a mia volta amo gli uomini. Facendo una piccola digressione: le classiche icone femminili sono quanto più lontano da me! Ma ne riconosco la bellezza, ad esempio trovo che Anna Magnani, con la sua semplicità, sia la donna più bella del mondo.
E infine, mia madre, riservata, intelligentissima, dotata di spiccato senso del sarcasmo e grande curiosità culturale. Ama l'opera, le arti visive, il balletto, il teatro. Ha un'apertura di spirito che mi ha molto aiutato a diventare madre. Quando ero un'adolescente pensavo di costruirmi in opposizione a lei e invece ho poi scoperto di aver fatto il contrario. Mia figlia è stata la persona che più ha avuto influenza sul mio comportamento: mi ha costruita, ha dato consapevolezza alla persona che sono oggi. Educandola, ho capito di orientarmi alla luce degli insegnamenti di mia madre. Inconsciamente sceglievo posizioni affini. Rispetto alle mie sorelle, sono la sola che veramente ha continuato con il cinema. Il cinema di François non ha certo bisogno di essere sostenuto, io cerco di promuovere quello che il mio amico Vincent Dieutre ha definito “Tiers-Cinéma”, un cinema più fragile, di ricerca, di sperimentazione, che abbraccia l'arte contemporanea, l'archivio.
A questo proposito il regista francese Vincent Dieutre scrive: “ai confini del documentario, della fiction, della letteratura, delle arti plastiche, si starebbe inventando un Tiers-Cinéma, uno luogo ibrido, inafferrabile”. Dove è possibile abitare questo luogo ibrido e ineffabile?
Tracce di cinema d'autore artistico e creativo, beh, si trovano nelle gallerie di arte contemporanea, in posti come il Centre Pompidou di Parigi, o il Moma di New York, guardando Arte, andando al teatro, e, a volte, persino al cinema! Di certo non nei programmi televisivi di seconda serata. Prediligo il caos, il confronto, le contraddizioni, per me il fenomeno estetico non esiste, o meglio: un film non è una questione di bellezza, ma di contemporaneità, di approfondimento, di durata. Con l'estetizzazione si è giustificato l'orrore, il che è riconducibile anche ad un immaginario duale e falsato, diviso tra la scelta tra l'accademico e la “merde”, i professionisti virtuosi e i semplici appassionati, gli artisti ufficiali e i dilettanti. Per fare un esempio sul cinema italiano, mi sono molto piaciuti i primi film di Nanni Moretti, poi mi sono accorta che ha un po' ceduto ai meccanismi del cinema “ufficiale”, contro cui lottava inizialmente.
Quanto incide sul proprio percorso, a suo avviso, il contesto in cui si nasce e cresce, in relazione a quella che Balzac definiva la théorie du milieu (tra l'altro Balzac era una lettura che suo padre amava molto)?
Sì, penso che in gran parte l'influenza esercitata dal contesto sia determinante. Balzac ha anticipato Freud in qualche modo. Tuttavia, si può contraddire ciò attraverso Foucault, il quale sostiene che a volte per sopravvivere al proprio contesto, è necessario costruirsi contro di esso. Io ho avuto la fortuna di avere un'infanzia stimolante e libera, intellettualmente. Ma non sempre si è fortunati. Mio padre è stato sfortunato, non è stato riconosciuto come un figlio, ma come un peso da sua madre Janine. Le letture lo hanno da sempre confortato, e in seguito il cinema. Se il contesto in cui cresci è negativo, o generi opposizione oppure soccombi. La terza possibilità è andare dall'analista.
Accade qualcosa di speciale con alcuni film d'autore. La visione di questi, a volte, è come un'epifania. La rivelazione, nel dispiegare un velo, di un frammento celato, inespresso o persino dissimulato della propria identità. Le è mai capitato qualcosa di simile?
Assolutamente sì. I bei film possono addirittura rivelare parte della propria identità. Il primo film che, da bambina, avevo cinque o sei anni, mi lasciò una traccia indelebile fu Persona, di Ingmar Bergman, ero lì a bocca aperta: “Questo è il mondo degli adulti, questa è la vita”, ho pensato. Adesso mi piace rivederlo, ma preferisco altri film, anche le sue belle fragole selvagge (Il posto delle fragole, n.d.r.). Più da adulta, film imprescindibile è sempre di Ingmar Bergman, Scene da un matrimonio. Per citare qualche italiano, da piccola mi piaceva molto Federico Fellini. Ma io mio cineasta italiano preferito è senz'altro Pier Paolo Pasolini, soprattutto per il suo impegno politico.
François Truffaut è senza dubbio uno dei maestri della narrazione intimista, degli intrecci emozionali, delle contraddizioni dell'animo umano. Emblema della Nouvelle Vague è quella “straordinaria qualità di situazioni ordinarie”. Alle forme di verità assoluta o a querrelles filosofiche preferiva dunque personalissimi aneddoti o spunti dati dal contesto...
Suzanne, la sua assistente dall'inizio alla fine, che sul lavoro lo conosceva meglio di chiunque, è una di quelle che si è espressa chiaramente sul coinvolgimento autobiografico (scrisse Suzanne Shiffman: “Ho sempre avuto l'impressione, e lui stesso lo ha confermato, che François parlasse di sé sia negli adattamenti che nei soggetti originali”, n.d.r.).
Fin da I quattrocento colpi, attraverso il ciclo di Antoine Doinel, per arrivare a La signora della porta accanto: tutto proveniva da aneddoti dati dal contesto, dalla famiglia, dagli amici. Non c'era invenzione, al massimo qualche spunto o citazione, come per esempio accadde con i testi di Henri-Pierre Rochè, da cui nacquero Jules e Jim e Le due inglesi.
François non aveva teorie ben definite da dispensare, anche se ci sono dei film che rivelano i suoi modi di pensare, per esempio ne Gli anni in tasca sono riassunte tutte le sue convinzione politiche. Lui era un sostenitore del diritto di voto a favore dei giovanissimi, l'unico modo di stimolare maggiore interesse sulle politiche legate all'infanzia e all'adolescenza.
In fase di lavorazione dei film era un regista disponibile ma molto attento; lei ha recitato con lui nel 1970 (Il ragazzo selvaggio), nel 1971 (Le due inglesi) e nel 1975 (Gli anni in tasca), che ricordo ha di lui sul set? Ma soprattutto, a casa com'era?
Era un uomo appassionato. Ma non di tutto. Solo di ciò che gli interessava: il cinema, la letteratura, i bambini e le donne. Non gli interessava nulla di ciò che solitamente amano gli uomini, le macchine, le proprietà, il cibo. Sul set era leggero, non c'era mai atmosfera di sforzo, anche perché les equipes erano piccole, non c'erano i budget di oggi, non c'erano co-produzioni e televisioni. A casa era divertentissimo, un clown, molto più che nei film, era insolente. Mi ha insegnato cos'è l'ironia: prendeva tutto in giro, soprattutto la politica, e pure noi bambini, che dunque abbiamo dovuto apprendere presto cosa era il sarcasmo e come reagire. Non gli interessava molto come andavamo a scuola. Diceva: “a scuola, meglio essere il penultimo che l'ultimo!”. Il penultimo è discreto in relazione al suo senso di libertà, non ha l'ego dell'ultimo, che vuole farsi notare. All'uscita da scuola, a volte mi veniva a prendere e andavamo al cinema, alla proiezione delle 14. Il primo film che abbiamo visto credo fosse un Chaplin, forse alla Cinémathèque française.
Hitchock, Renoir, Lubitsch, Ophüls: molti sono stati i registi che hanno influenzato Truffaut e a cui rende omaggio tramite i suoi film. Chi secondo lei ha più fortemente influenzato suo padre nella fase di rivelazione ultima della verità o del dispiegamento dell'intreccio?
François a fine giornata amava radunare il cast e organizzare dei cineclub. A volte proiettava i suoi film preferiti, proprio di questi autori, altre volte film che lo avevano ispirato per quel set. Alcune illuminazioni in chiave tecnica spesso provenivano da Ernst Lubitsch , un genio nel trovare le soluzioni. Il dispiegamento dell'intreccio e la sua risoluzione era per François, la maggior parte delle volte, comico ed economico oppure sofisticato ed elegante, ma sempre naturale. Preferiva risolvere problemi complicati con semplicità, magari in un gesto. La cronaca che leggeva sui giornali certamente forniva lo spunto per certi finali eclatanti.
Dal 1954 al 1983 Truffaut ha girato ventiquattro film (tre cortometraggi e 21 lungometraggi). Suo padre non ha lasciato soltanto il segno in quanto regista, ma anche in relazione alla sua analisi critica, certamente sostenuta dal suo amore per la scrittura. Sono passati 30 anni dalla sua morte. In questo senso, come è cambiato il cinema in questo spazio temporale?
I film di François erano film artigianali. Non si dovevano bloccare le strade per girare, per poi realizzare queste enormi produzioni, spesso anche brutte. Beh, sì, a volte dove girano più soldi escono i lavori più brutti. Non sempre, ok!
Oggi, alcuni registi non si rendono conto di fare un'altra cosa, che non è cinema ma entertainment. I loro lavori non hanno nulla a che vedere con l'azione artistica: confezionano un prodotto da vendere, da portare ai Festival. Poi esiste un 15 % di arte, resistenza, visione, invenzione, creazione, proposta nuova, apertura di porte e spiriti, pensieri. Questo mi interessa. A volte mi chiedono “hai visto questo film?” No, perché non è un film. “Le parole sono importanti”, diceva Moretti in Palombella rossa, un film è un'opera d'arte, un film è un'esperienza.
Tempo fa in un'intervista a La Stampa ha dichiarato “sono una persona che ha bisogno di lavorare molto”. Nel tempo è stata attrice, stilista, fotografa. Ha mai pensato di fare la regista?
Un giorno ho visto un film di Rainer Werner Fassbinder, che è uno dei miei registi preferiti. Ero con mio padre. Sono uscita dalla sala, e ho pensato: “ora so che non sarò mai una regista”. Quel ragazzo aveva appena fatto quello che sognavo di fare. Mi è capitato lo stesso vedendo i film di Yasujiro Ozu: ho capito che non avrei mai potuto realizzare qualcosa di così sobrio e puro. Anni fa ero una stilista e un giorno ho visto la sfilata a Parigi di Rei Kawakubo con la maison “Comme des Garçons”, che oggi non è molto importante, ma dagli anni '80 agli anni '90 aveva fatto una rivoluzione, ecco, lì ho capito che non sarei mai una fashion designer. Questo genere di constatazioni non sono tristi, non c'è rammarico o dolore, ma anzi gioia, ricchezza! Quando ho visto a 13 anni danzare Pina Bausch, ho pensato “qualcuno danza come vorrei danzare”! Pina Bauch. La zia di tutti. Tata Pina.
Tra queste molteplici forme, è definitivamente prediletta la fotografia?
Sì, la fotografia mi viene naturale. C'è qualcuno che mi sconvolge. Penso a Nadar, con i suoi incredibili ritratti. Provo ammirazione per August Sander, fotografo tedesco, con i suoi meravigliosi Ritratti del Novecento, ma il suo lavoro non ha niente a che vedere con la mia ricerca. Mi piace molto Sarah Moon, con la sua sensibilità un po' cupa, che ha anche esposto al Regio di Torino le sue foto del teatro. Lei è un'amica carissima e una fotografa superba, ma non cerco di fare il suo lavoro. La fotografia è una ricerca personale, sperimentale e in continua evoluzione. L'ispirazione sopraggiunge dalle cose che succedono, che semplicemente accadono, non le scelgo e non le vado a cercare, è come se fossero loro a venire a me.