Francesco Tedeschi. Il mondo ridisegnato

13 Agosto 2012

Credo sia noto a tutti che in Italia la geografia sia una tra le materie più maltrattate e meno studiate, assieme alla storia dell’arte. Dato che viviamo in un paese ricco di opere d’arte, oltre che geograficamente e geologicamente complesso (basti pensare al problema pressoché costante dei terremoti, delle frane e delle esondazioni di fiumi e torrenti), ai nostri sagaci politici è sempre parsa un’ottima idea evitare con cura che gli italiani acquisissero una qualche consapevolezza sia del territorio su cui poggiano i piedi (se non gli cade addosso travolgendoli) sia del patrimonio storico e artistico che gli si para innanzi quasi a ogni passo. Ebbene queste due reiette (la geografia e l’arte), senza che molti ci facessero caso, da tempo hanno istituito tra loro un rapporto intenso e proficuo. A raccontarci i complessi intrecci tra arte e territorio è il denso e documentato libro di Francesco Tedeschi, Il mondo ridisegnato. Arte e geografia nella contemporaneità (Vita e Pensiero, Milano, 2011, pagg. 429, € 25).

 

Partendo, capitolo dopo capitolo, da opere simbolo del passato (da Il geografo di Vermeer a La grande riserva presso Dresda di Friedrich, tanto per fare qualche esempio), l’autore costruisce una mappa esaustiva delle molte modalità messe in campo dall’arte moderna e contemporanea per portare alla luce e rendere più diretti gli aspetti articolati e polimorfi della geografia. Sfoderando competenze che gli permettono di spaziare senza incertezze dalla Land Art fino ai giovani artisti, Francesco Tedeschi – nel capitolo “Istanze di trasformazione” – analizza i lavori di autori che hanno realizzato opere a partire da mappe, percorsi e mappamondi (con esempi che spaziano da Manzoni a Boetti, Jaar, Parmiggiani, Fulton, etc.) per poi indagare anche quelle che intervengono direttamente e realmente nel territorio (come quelle di Matta-Clark, Christo o Garutti), offrendo così una visione a 360 gradi del rapporto tra l’arte e una geografia intesa nel suo senso più ampio.

 

Alighiero Boetti, Mappa, 1971

 

Entriamo ora più nello specifico e osserviamo il capitolo “Definizione e controllo del territorio”. Qui il tema trattato è la carta geografica intesa come uno spazio astratto sul quale sono incisi i segni del potere politico, con tanto di confini ben indicati. Distaccandoci in parte dal testo di Tedeschi, proviamo a concentrarci sull’intricata situazione territoriale tra Israele e i Territori palestinesi. Una scelta, la nostra, dovuta non a una presa di posizione politica, ma proprio per verificare – attraverso una situazione concreta, e molto dibattuta – come e con quali strumenti diversi artisti siano riusciti, in modo emblematico, a uscire da una logica puramente informativa. Per prima cosa prendiamo in mano una carta dettagliata di Israele, come quella che proprio ora sto guardando. Già di primo acchito si capisce che c’è qualcosa di non pacificato e stabile: la striscia di Gaza pare l’angolo della punizione tanto è schiacciata verso il mare, e il confine con la Siria, là dove s’innalzano le alture del Golan, è segnato con una doppia linea di demarcazione che delimita una vasta terra di nessuno. In compenso le strade si snodano sciolte e libere, come se si potesse allegramente andare da Hebron a Be’Er Sheba e da lì fare un salto a Gaza per incontrare gli amici.

 

Insomma la carta geografica è un indicatore forte del potere politico, ma si presenta fredda, astratta, ambigua, priva della vita reale di chi vive le contraddizioni e i problemi di tali confini. Come usarla aprendola a nuove emozioni e riflessioni? – si sono chiesti appunto alcuni artisti, tra cui la palestinese Mona Hatoum. Con l’opera Present Tense tale autrice ricostruisce una carta dettagliata dei territori amministrati dall’Autorità Nazionale Palestinese: territori che paiono tanti atolli precari, tragicamente sconnessi l’uno dall’altro. Tale mappa è tracciata da Mona Hatoum con perle di vetro rosse inserite in mattonelle costituite da un sapone realizzato in modo tradizionale dai palestinesi di Nablus. Come nota giustamente Tedeschi, la mappa della Hatoum, presentando un tracciato sanguinoso e potenzialmente scivoloso, evidenzia in modo immediato e forte il dolore e il senso di precarietà sotteso alle complesse relazioni tra popolazione palestinese e Stato israeliano. Ma c’è dell’altro: per sentire la forza della sua opera, dobbiamo anche immaginarci il profumo intenso del sapone di Nablus, dove emerge con forza l’aroma dell’olio d’oliva con cui viene realizzato. La sua mappa non è infatti solo da vedere asetticamente con gli occhi, ma avvolge lo spettatore, lo tocca a livello corporeo, emozionale, coinvolgendo con forza il suo olfatto. Quel profumo di sapone presentifica la cultura antica dei palestinesi e il legame con la loro terra (non a caso, nella sua prima presentazione, l’opera era accompagnata da fotografie che documentavano oggetti e prodotti tradizionali creati dai palestinesi). Diviene una sorta di corpo sdrucciolevole, forte come un mattone, ma anche fragile e pronto a sciogliersi fino a sparire; contraddittoriamente intriso di saperi oppressi e tenaci come il profumo che emana. Saperi costretti a sopravvivere a stento (come fare a creare tale sapone se ai palestinesi viene sottratta proprio la terra, con i suoi campi di ulivi?), ma al contempo salvati e resi ancora vivi in quest’opera d’arte. Il suo lavoro si rivela dunque una sorta di crocevia metaforico e intenso fra tensioni irrisolvibili che coinvolgono lo spettatore impedendogli una visione pacificata.

 

Mona Hatoum, Present Tense, 1996 (dettaglio)

Mona Hatoum, Present Tense, 1996

 

 

Basata sulla concretezza della vita è anche l’opera di Sophie Calle, Public Spaces - Private Placet. Con stile documentario l’artista fotografa i segni che indicano le separazioni tra la Gerusalemme ebraica e quella palestinese, ma li accompagna a dense testimonianze di storie personali, spesso tragiche, segnate da separazioni e lutti. Nuovamente ci troviamo di fronte ad un’opera paradossalmente calda e fredda al contempo, in cui già dal titolo si comprende come questa autrice non intenda appianare le contraddizioni, né esprimere una personale posizione politica.

 

E come sono, nella realtà, quei confini che la nostra carta geografica ci ha illusoriamente mostrato facilmente attraversabili? La palestinese Emily Jacir – nel video Crossing Surda (A Record of Going to and from Work) – cammina due giorni nel fango e nella polvere, attraversando faticosamente decine di checkpoint israeliani, per percorrere i soli due chilometri che dividono Ramallah da Birzeit. Un altro palestinese, Taysir Batniji, con Transit crea un video a partire da una serie di immagini che ha scattato di nascosto quando, per tornare a trovare i genitori a Gaza, ha dovuto necessariamente passare attraverso l’unica via d’entrata concessa: Rafah, al confine con l’Egitto. Lì niente è facile: migliaia di persone bivaccano per giorni e notti in un’attesa snervante e avvilente, dato che le forze israeliane stabiliscono quotidianamente un numero variabile di possibili ingressi. Non ci sono quindi tempi precisi, si aspetta e ancora si aspetta, fino all’improvviso e imperscrutabile va libera delle guardie di frontiera militari. Vedendo il suo lavoro si ha l’impressione di essere lì, di sentire gli odori di stantio di persone costrette a sostare in quei capannoni squallidi e afosi. Si avverte il senso di spossamento e umiliazione di chi non può decidere nulla, fare nulla, se non aspettare arbitrarie decisioni altrui.

 

Tali lavori non si limitano dunque a farci vedere la realtà come farebbe un reporter: la vivono fisicamente in prima persona e ce la mostrano attraverso la loro esperienza diretta, senza filtri o commenti. Le loro opere sembrano cioè ricalcare le indicazioni suggerite da John Berger proprio durante un suo workshop tenuto a Ramallah: “Una storia non può che appoggiarsi sulla fisicità, sulla concretezza della vita. I sentimenti di indignazione e rabbia spesso appiattiscono tutto, mentre la realtà non lo fa mai. Nel mondo reale c’è resistenza, durezza. È qui che entriamo nel racconto, dove c’è battaglia tra volontà e necessità” (John Berger, a cura di Maria Nadotti, Riga 32, Marcos y Marcos, Milano, 2012, pag. 142).

 

Emily Jacir, Crossing Surda (a record of going to and from work), 2002

 

Per quanto l’ampia ricerca di Tedeschi non presenti sempre il taglio etico che noi abbiamo volutamente evidenziato, tuttavia, tramite i numerosi esempi che fornisce, permette di avvicinarsi alle potenzialità politiche espresse dall’arte a partire da riflessioni geografiche. Così come evidenzia le strategie messe in campo dagli artisti per uscire da una logica puramente informativa, in cui lo spettatore si limita ad acquisire notizie nelle vesti di uno spettatore passivo. Questo libro si rivela dunque prezioso perché indaga quel territorio dell’arte, spesso poco o nulla affrontato dai media, che non punta alla spettacolarizzazione o ai record di vendita, ma a qualcosa che tocca i problemi reali della contemporaneità.

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