Ritorno al futuro. Il futuro non è più quello di una volta
Che un soggetto rifiutato da più di quaranta Studios sarebbe potuto diventare uno straordinario successo commerciale e (rarissima combinazione) uno dei cult più famosi della storia del cinema, dovette sembrare abbastanza improbabile nel 1985. Zemeckis e il suo co-sceneggiatore Bob Gale, ad esempio, temevano che la trama del film fosse troppo infantile per gli adolescenti di allora (famelici della combo sesso e violenza sdoganata ormai da un po’) e al tempo stesso la consideravano troppo rischiosa per una destinazione disneyana, vista la sotto-trama del possibile incesto madre-figlio. Senza la tenacia del regista e l’aiuto provvidenziale di Spielberg nelle vesti di produttore, oggi non avremmo Ritorno al futuro, uno dei film più citati, parodiati e amati della storia recente.
Difficile stimare se anche in Italia come negli Stati Uniti la saga vanti la stessa quantità di fanatici ammiratori, o di nerd e geek che ne fruttano ogni elemento (arrivando a darsi pena di costruire una DeLorean con le lattine di Pepsi). Quel che è certo è che anche da noi il film conta infiniti passaggi televisivi ed è considerato più o meno da tutti un classico dell’infanzia. Scriverne ancora, considerati i fiumi d’inchiostro già versati, sembra quasi sacrilego: ma oggi, mentre ovunque si vedono e leggono omaggi, tributi e celebrazioni – perché oggi è il 21 ottobre 2015, data in cui Doc e Marty nel secondo film della trilogia vanno nel futuro dal 1985 per cambiare il corso degli eventi –, ci sembra il momento adatto per gettare uno sguardo indietro e chiedersi cosa è successo nei trent’anni esatti dall’uscita del primo film della trilogia.
Ritorno al futuro è un capolavoro nato per caso: quasi un divertissement senza particolari ambizioni, che mostra però trovate geniali e implicite ma azzeccatissime riflessioni sui mondi che rappresenta. L’alchimia perfetta di commedia, fantascienza, avventura e film generazionale ne fanno uno dei più celebrati feel good movies di sempre. C’entra la nostalgia, certo, e in primis la nostalgia per la propria infanzia. Quasi tutti ricordano di averlo visto da piccoli, dal momento che il carattere “perbene” del film, in cui il giovane ribelle al massimo arriva tardi a scuola o guarda le altre ragazze mentre è in giro con la fidanzata, lo rendeva allora assolutamente adatto a tutti i tipi di audience. Ci si domanda, anzi, come abbia fatto a diventare così cool e a costruirsi una base di fan trasversale per età e generazioni. Di film “per tutta la famiglia”, perfetti e senza tempo, gli anni ’80 sono pieni, eppure in Ritorno al Futuro c’è qualcosa che lo rende un film generazionale anche per chi all’epoca non c’era; per chi l’ha scoperto con almeno un decennio in ritardo, ma non ha faticato ad amarlo e ad appropriarsene, a vederlo, rivederlo e mitizzarlo.
Una delle ragioni potrebbe essere l’universalità del “coming of age”. Il viaggio di Marty McFly è quasi una terapia psicanalitica che prende corpo: tornando indietro nel tempo, esperendo addirittura in forma cosciente il tabù dell’incesto, non solo Marty risolve e migliora la sua vita futura, ma riesce a superare quello che nel primo film era il suo fatal flaw, la sua coazione a ripetere, ovvero la paura dell’opinione degli altri (unita a quella di diventare come suo padre) (“Nessuno può permettersi di chiamarmi codardo!”). Attraverso il confronto con il passato Marty “diventa ciò che è”, comprendendo i propri limiti e facendoci i conti.
Com’è noto, i due sequel del primo Ritorno al futuro, usciti nel biennio 1989-1990, non erano previsti; lo divennero in seguito allo straordinario successo al botteghino, che portò Zemeckis e Gale a concepire, su pressioni della Universal, quello che avrebbe dovuto essere un unico film, poi diviso in due ma girato in contemporanea. Grazie ai due sequel che ironizzano sulla struttura perfettamente conchiusa e classica della sceneggiatura del primo film (paradigmatica al punto da essere utilizzata come esempio sia di struttura in tre atti sia di viaggio dell’eroe), il film diventa modello per eccellenza anche di qualcos’altro, ovvero dello stile ludico e postmoderno tipico di quegli anni e ancora largamente maggioritario nei blockbuster di oggi.
Se già il primo Ritorno al futuro mischiava generi e modelli, confidando in un pubblico smaliziato che mastica cultura pop dalla culla, i sequel non solo aggiungono altri generi (in primis, il western) al pastiche, ma utilizzano il primo film come ennesima opera pop da cannibalizzare in un caleidoscopio di citazioni, riferimenti e inside jokes. In questo senso, Ritorno al futuro sembra quasi rappresentare un’infanzia pop della nostra società, quello che potremmo chiamare il volto ingenuo e benevolo della postmodernità.
Ritorno al Futuro è una sorta di paradosso temporale: universale, e al contempo impensabile se realizzato in un’altra epoca. Come farà più tardi con Forrest Gump (1994), Zemeckis parla soprattutto di Storia – di storia degli Stati Uniti. Riporta il tempo indietro agli anni ’50 al vecchio west, due fasi clou del sogno americano ancora privo di macchie (almeno nell’idealizzazione che ne ha seguito); ma in realtà fa anche qualcosa in più: l’infanzia (o l’adolescenza) raccontata da Ritorno al futuro, infatti, non solo è l’infanzia individuale di ogni spettatore, ma l’infanzia della nostra attualità, che oggi più che mai sembra nata proprio negli anni ’80. Come ormai sappiamo (e come più o meno cantavano gli Afterhours), da quel decennio nessuno esce vivo, compresi quelli che allora non erano ancora nati e che Ritorno al futuro al cinema (o al massimo in vhs pochi anni dopo) non l’hanno mai visto. Trent’anni dopo, gli anni ’80 sono più presenti che mai nell’immaginario contemporaneo, forse perché, come ha scritto Aldo Spiniello, “il passato […], è più capace di raccontare il mondo e di immaginare il futuro, di quanto non siano i discorsi attuali”. Riguardare gli anni ’80 un po’ caricaturali di Ritorno al Futuro, così come anche il 2015 immaginato da Zemeckis in Ritorno al futuro 2 e nel quale oggi ci dovremmo trovare, dice allora qualcosa su ciò che nel frattempo siamo diventati.
Si è parlato molto di quanto Zemeckis non cerchi nei suoi film di fare un’apologia del passato. Eppure, anche il presente di Ritorno al futuro (il 1985, cioè), per quanto “migliorato” nel finale del primo film, appare abbastanza conservatore e un poco squallido: i bulli ci sono ancora, il centro della città è in mano a banche, predicatori e squallidi cinema a luci rosse, la felicità è essere snelli, avere un lavoro d’ufficio, vestiti firmati, poter schiavizzare il proprio sottoposto e vivere per sempre nella stessa villetta a schiera. Le cose, poi, sono destinate a peggiorare: se nel 1985 il fallito (Biff Tanner) era comunque un imprenditore che aveva aperto un autolavaggio, mentre l’uomo di successo (George McFly) scriveva libri di fantascienza e riceveva premi letterari tra una partita di golf e l’altra, nel 2015 distopico persino Doc casca nello specchietto per le allodole del ringiovanimento chirurgico. Il futuro sembra insomma un’ovvia conseguenza del presente, una sua intensificazione mostruosa. Gli avvocati sono stati aboliti, il “canale paesaggi” permette una volta di più di vedere realizzato a casa propria quello che Anne Friedbreg identifica come la componente che lega la tarda modernità al postmoderno (dai primi panorama al cinema), ovvero lo sguardo mobile virtuale (mentre colpisce l’ingenuità di dotare Doc e Marty di walkie talkies invece che di cellulari). Se è vero che nel primo film, come ha scritto Garry Mulholland, «The McFly family are sad and ugly because they are working class», e che l’ossessione per il benessere economico come misura per il successo nella vita non sembra abbandonare mai Marty, non si può dire che il futuro rappresentato da Zemeckis sia privo di spunti critici e amaramente satirici.
Il successo di Ritorno al Futuro, infatti, non si basa né sull’ovvio insegnamento individualista per cui ogni scelta porta con sé delle conseguenze, né sul mito americano ormai trito del self made man. La trilogia è per buona parte ambientata nel passato e il capitolo proiettato nel futuro è senza dubbio il più cupo di tutti (con quel secondo presente, o futuro rispetto agli ’50, che sembra saltare fuori da un immaginario alla Carpenter, solo un po’ più levigato nei toni). Ritorno al futuro invita perciò a superare ogni positivismo progressista, ricordando che non c’è un futuro senza un passato. La DeLorean, così futuristica, va distrutta. Anche se poi non bisogna smettere in alcun modo di pasticciare con le dimensioni temporali, e allora al massimo si costruisce una locomotiva a vapore che mescola la scienza con la magia e fa tanto steampunk. Doc e Marty, andando a correggere i passati errori, sembrano intenzionati a “spazzolare la storia contropelo”, come suggeriva Walter Benjamin, cogliendo insomma l’attualità del passato nel presente.
Per questi, insomma, e per molti altri motivi, non si può non continuare ad amare Ritorno al futuro. Un film a cui si perdona tutto, anche lo scivolone – in quanto a cultural appropriation – secondo cui sarebbe stato l’irlandese McFly a inventare il rock’n’roll, o la celebre battuta un po’ omofoba di Marty sulla paura di frequentare troppo la madre e magari risvegliarsi gay nel futuro, all’epoca opportunamente eliminata dal montaggio finale, ma oggi facilmente rintracciabile in rete. E mentre nel secondo film il 2015 sarebbe dovuto essere l’anno di uscita del diciannovesimo sequel di Lo squalo, stupisce ma rassicura sapere che Zemeckis ha posto un veto sulla possibilità di produrre ulteriori seguiti o remake. Ritorno al futuro, girato oggi, non avrebbe alcun senso. Del resto, proprio in quanto caso unico e irripetibile, il film resta una macchina commerciale di rara portata: Pepsi lancia oggi la sua “Pepsi Perfect”, con tanto di spot dedicato, mentre da qualche tempo è stata brevettata una versione magnetica del “volopattino”. Noi, però, da bravi figli degli anni Ottanta, aspettiamo soprattutto le Nike con gli autolacci.