1989 - 2019 / La città di Stalin in Germania (Est)
Le considerazioni che seguono, come quelle già uscite e altre che si aggiungeranno nei prossimi mesi, al di là del fornire alcune documentazioni e notizie relative alla passata realtà quotidiana nella Germania e nella Berlino divise, hanno l’auspicio di poter essere fonte di riflessione, prese le debite distanze dai coinvolgimenti emotivi e politici, per meglio affrontare e valutare la contemporaneità (nostalgie, demonizzazioni, celebrazioni, anniversari) con un poco di lucidità e qualche strumento in più.
La Repubblica Democratica Tedesca, più comunemente nota come Germania Est, fu fondata il 7 ottobre 1949 e occupò il territorio tedesco che nella spartizione del dopo guerra era confluito sotto la giurisdizione dell’Unione Sovietica. In quello stesso anno, proprio in URSS, il compagno Stalin compiva 70 anni, secondo la data di nascita non reale ma avvalorata come ufficiale. Quale migliore occasione a disposizione della neonata nazione filo-sovietica per dimostrare deferenza e gratitudine alla sorella maggiore-madre che intitolare proprio a Stalin una nuova arteria nel cuore della Berlino socialista? In quell’anno la Groβe Frankfurter Straβe e la Frankfurter Allee furono unite in una magistrale, la Stalin Allee, lunga più di due chilometri che nel giro di alcuni anni sarebbe stata costeggiata da fabbricati realizzati in puro stile impero staliniano, sul modello dei cosiddetti edifici alti costruiti negli stessi anni nelle maggiori città dell’URSS. Una monumentale statua dello stesso Stalin (quasi 5 m. di altezza) sarebbe stata eretta in quella via nel 1951 a ulteriore conferma dell’alleanza tra i due paesi.
La collaborazione della gente fu grande, nel recupero di mattoni integri dalle macerie della guerra, per edificare la nuova arteria del socialismo, ma proprio i massacranti turni di lavoro resi necessari per completarne la costruzione portarono, il 17 giugno 1953, allo storico sciopero dei lavoratori che fu violentemente represso dall’intervento dei carri armati sovietici. Primo e inconfutabile segnale che la mano e l’occhio dell’URSS sarebbero stati presenza invadente e costante. Al punto che, nei settori occidentali della Berlino occupata, si intitolò provocatoriamente la grande arteria che attraversa l’intero Tiergarten, da Charlottenburg fino alla Porta di Brandeburgo, proprio a quel fatidico 17 giugno.
Ma nel frattempo, all’est, ci si era spinti ancora oltre. Nel 1950, nella regione del Brandeburgo a sud-est di Berlino, a ridosso della frontiera polacca sul fiume Oder, si era deciso di costruire una gigantesca acciaieria. Si rendeva a quel punto necessaria una città che ospitasse i lavoratori che sarebbero stati occupati nella produzione di acciaio e le loro famiglie. Nacque così Stalinstadt (la città di Stalin), versione germanica della sovietica e gloriosa Stalingrad, primo insediamento autenticamente socialista della giovane repubblica democratica. Non è forse inutile ricordare che il nome di battaglia scelto per sé da Iosif Vissarionovič Džugašvili, Stalin, derivava proprio dal sostantivo russo stal’ (acciaio). Il legame con il “leader, maestro e amico” si faceva dunque ancora più stretto e forte. La pianificazione permise di realizzare l’utopia di una città modello, priva di centro storico, di tracce di passato, di residui borghesi, clericali o aristocratici. Uno dei punti di forza del progetto, oltre alla presenza massiccia di alberi e acque, fu l’assoluta mancanza di chiese e torri campanarie, come continua a testimoniare nell’immaginario collettivo un intervento di Ulbricht, passato leggendariamente alla storia proprio come “il discorso delle torri”. L’unico pinnacolo in città avrebbe dovuto essere quello del municipio, assieme all’obelisco dedicato alle vittime dell’armata rossa cadute nella liberazione dal nazismo. La planimetria della “prima città socialista tedesca”, come recitavano slogan e cartoline, si basava su un’assoluta simmetria che conferiva sì ordine e regolarità all’insieme ma, al contempo, ne segnalava l’artificiosità, la freddezza e la mancanza di storia.
Nell’irrequieto 1953 sia l’acciaieria che la città furono intitolate a Stalin e la loro autentica storia ebbe inizio. Si doveva fronteggiare l’embargo di fornitura d’acciaio da parte della Germania Ovest e trovare lavoro per i moltissimi rifugiati tedeschi espulsi dalla Polonia durante l’occupazione nazista. Il modello, ancora una volta, fu sovietico. Nel corso del primo piano quinquennale staliniano, intorno al 1929, era stata decisa la costruzione di un’immensa acciaieria nella regione degli Urali, a ridosso di un massiccio detto montagna magnetica in quanto costituito quasi interamente da minerali ferrosi. Nacquero così l’impianto metallurgico e la città di Magnitogorsk, a sua volta progettata ex novo secondo i principi teorici di una città ideale. Prima città al mondo completamente pianificata, sfida e al contempo orgoglio della progettazione sovietica. La realtà fu assai più complessa di quanto la propaganda promuovesse. Il cantiere era un campo di lavoro forzato, le condizioni climatiche tragiche. Il progetto, ispirato alla grandi acciaierie americane e alla cui realizzazione intervennero centinaia di specialisti stranieri, affidato all’architetto tedesco Ernst May, prevedeva lo sviluppo di una città a nastro, ma a causa delle continue variazioni delle dimensioni della zona residenziale e della quantità di abitazioni necessarie alla città, che dipendevano dalla potenza e dalla tecnologia della produzione (costantemente corretta dal governo), a causa della scarsa chiarezza delle esigenze relative alla “concezione dell’idea di città socialista” i tempi della realizzazione del progetto slittarono in continuazione. Quando acciaieria e città furono finalmente costruite, le grandi purghe staliniane erano partite e nel 1937 Magnitogorsk sarebbe diventata “città chiusa” e tale sarebbe rimasta fino alla perestrojka. Stalinstadt in Germania Est fu anche un’occasione per ridare lustro all’epopea di Magnitogorsk, il cui complesso siderurgico aveva per altro fornito al paese acciaio indispensabile e fondamentale durante la guerra.
La struttura monumentale dell’acciaieria tedesca ha, ancora oggi, qualcosa di solenne e addirittura commovente nella sua magnificenza da cattedrale. La cittadina, collocata a debita distanza dal complesso industriale, risultato così meno inquinante del suo omologo sovietico, nel 1953 contava 2.400 abitanti che, nel giro di un paio d’anni, sarebbero saliti a 13.000. Sorto intorno alla fabbrica, come una volta le città sorgevano intorno alle cattedrali, il centro urbano brillava per razionalità, pulizia, eleganza, verde e acqua in abbondanza che facevano della neonata cittadina il fiore all’occhiello della DDR, oltre che il simbolo concreto dell’amicizia tra i popoli socialisti. “Dai minerali sovietici e dal carbone polacco nasce l’acciaio tedesco della pace” recitava un trionfalistico manifesto di propaganda. Le impeccabili e simmetriche prospettive di strade ed edifici contavano sull’effetto spettacolare degli altiforni sullo sfondo, in debita lontananza ma fondamentali. La compiuta realizzazione del progetto fornì alla giovane nazione strumenti importanti per motivare la propria esistenza e convincere gli abitanti che quasi casualmente si erano trovati a diventarne cittadini della bontà del programma utopistico e ideale. Si creava, e la cittadina siderurgica ebbe un ruolo rilevante, un nuovo concetto di patria e di appartenenza, ripreso e divulgato in letteratura, cinegiornali e svariate forme d’arte.
La abitazioni della cittadina erano complessi di tre piani, sempre realizzati secondo il modello architettonico sovietico-staliniano, ma con minor spazio alla monumentalità e una maggior sobrietà nelle decorazioni rispetto a quanto veniva costruito a Berlino o in Unione Sovietica. Lungo l’asse centrale della cittadina, 600 metri di lunghezza per 55 di larghezza, via Lenin all’epoca, si ergevano gli edifici amministrativi e il cosiddetto “nuovo tempio”, il centro culturale. Dal momento che un municipio non fu mai costruito, il governo della città si trasferì nella casa del partito e delle organizzazioni di massa, conosciuto familiarmente, e non senza un accenno ironico, come Kreml’ (Cremlino). Il teatro, intitolato allo scrittore Friedrich Wolf, primo ambasciatore della DDR in Polonia, ospitava spettacoli teatrali, cinematografici e cerimonie ufficiali in occasione delle svariate festività.
Il 1961 portò modifiche sostanziali nei due universi. In URSS, in seguito alla denuncia di Chruščëv, il corpo di Stalin veniva rimosso dal mausoleo di Lenin. A Berlino la grande strada che ne portava il nome fu ribattezzata Karl Marx Allee e la statua del dittatore fu furtivamente smantellata durante una notte. La cittadina siderurgica abbandonò il suo appellativo primigenio per diventare Eisenhüttenstadt, (letteralmente “citta delle capanne di ferro”), città dell’acciaieria e fu amministrativamente accorpata all’adiacente distretto di Fürstenberg (Oder), Schönfließ e Diehlo. La fabbrica, a sua volta, cambiò denominazione in Eisenhüttenkombinat Ost (EKO, per gli addetti ai lavori).
La media di operai impiegati negli anni della DDR fu di circa 12.000, a cui si affiancavano famigliari ed entusiastici visitatori. Nel massimo del proprio fulgore arrivò a contare 50.000 abitanti.
Tra il 1960 e il 1963, in stile brutalista, Stalin era ormai fuori moda anche su quel fronte, fu edificato l’hotel Lunik, ennesimo omaggio all’URSS con riferimento al progetto sovietico di spedizioni lunari. Si connotò come centro della vita mondana della città con i suoi caffè, ristoranti e sale da ballo.
Il declino di Eisenhüttenstadt sarebbe iniziato con il crollo del muro e l’unificazione delle Germanie. Secondo un destino oggi condiviso da molte cittadine dell’ex territorio orientale, nel 1990 l’acciaieria di stato si trasformò in società, EKO Stahl GmbH, e la produzione risentì dell’adattamento alla nuove leggi di mercato. Svariati ulteriori passaggi di proprietà si succedettero negli anni fino alla contemporaneità che vede la struttura ancora operante (l’impianto è oggi di proprietà del più grande produttore mondiale di acciaio Arcelor Mittal) pur con pesanti incertezze economiche. Ci lavorano oggi 2500 operai, mentre il potenziale sarebbe di almeno 10.000. Anche la popolazione della cittadina si è drasticamente ridotta a circa 23.000 abitanti. Il distretto contava sette complessi abitativi. Il settimo fu quasi completamente demolito dopo l’unificazione. A causa del declino della popolazione che molte città della Germania orientale hanno conosciuto successivamente al 1990 (frenetica fuga verso l’occidente, perdita di lavoro, crollo economico), improvvisamente ci si venne a trovare con un eccesso di realtà abitative. Nel complesso, in città sono già stati abbattuti 6.000 appartamenti e altri 1000 attendono lo stesso destino. Quasi tutti edificati con strutture prefabbricate, quindi non di alta qualità, ma i dati sono comunque impressionanti. Il “centro storico” è stato ristrutturato quasi integralmente. I primi insediamenti “staliniani” sono oggi sotto la protezione delle belle arti, lindi e accoglienti nella loro immacolata apparenza priva di graffiti e vandalismi di sorta. Gli infissi alle finestre sono stati sostituiti, le facciate intonacate di fresco, i balconi ospitano vasi fioriti.
Sembra che il messaggio sia: se volete vivere qui, fatelo in centro; la periferia è destinata a scomparire. Lo storico ristorante Aktivist apre tuttora ai visitatori la sua elegante sala neoclassica che sembra essersi ibernata nel tempo assieme alle tovaglie inamidate dei suoi tavoli. Ancora in attesa di sponsor è invece la quasi cadente struttura dell’ex prestigioso hotel Lunik, da anni sul mercato immobiliare ma che ancora non ha trovato chi lo riporti a nuova vita. La sua grigia sagoma di cemento incombe negletta e inquietante nell’insieme composto del resto della zona, con i vetri delle finestre rotti e l’ingresso sbarrato da tavole di legno. Mani anonime hanno vergato, sulle finestre di sinistra dell’ultimo piano, una dichiarazione d’amore tra il beffardo e il commovente: I EHS (I love Eisenhüttenstadt).
Il Lunik simboleggia una politica fiduciaria fallita. Da quando ha cessato l’attività dopo la caduta del Muro, ha cambiato proprietà diverse volte, sempre senza esiti positivi. L’attuale proprietario lo possiede dal 2009 e da allora lo ha lasciato andare in rovina. Il nome e il mito rivivono soltanto in un gruppo musicale (alternative rock, indie rock, ambient, pop) che così si chiama e fa base proprio a Eisenhüttenstadt. Contributo giovanile alla volontà di non lasciar morire del tutto la città.
Le condizioni dell’ex hotel trovano ulteriori riscontri nell’ormai troppo spaziosa strada della Repubblica. Ci sono parecchie case fatiscenti in tutta la zona che appartengono allo stesso padrone. Tra queste un mastodontico ex convitto operaio, sempre di stile brutalista, oggi in condizioni disastrose.
A vegliare sul passato del territorio e a sistematizzarne la memoria pensano lo Städtisches Museum (Museo municipale), che documenta pianificazione e sviluppo della città e dell’area circostante, e il Dokumentationszentrum Alltagskultur der DDR (Centro di documentazione sulla vita quotidiana della DDR). Istituzione ospitata nei locali di un ex asilo, raccoglie e scheda oggetti, documenti e memorie. Molto diverso dai turistici musei della DDR che sorgono per assecondare i gusti un po’ morbosi di affrettati visitatori, documenta con filologica ma non pedante attenzione le varie situazioni esistenziali del paese che non esiste più. Oggi la sua attività è ridotta rispetto al passato. Molti finanziamenti sono venuti meno e una sola addetta espleta tutte le funzioni che, fino ad alcuni anni fa, erano suddivise tra svariati collaboratori. Vanta un eccezionale archivio e organizza periodicamente seminari, laboratori e mostre temporanee che si affiancano alla collezione permanente. Vale da solo un viaggio a Eisenhüttenstadt.
Ci si arriva da Berlino, in auto o in treno, con un paio d’ore di viaggio. A un certo punto il cellulare riceve il messaggio di “benvenuto in Polonia”, tanto vicina è la frontiera polacca. Il moderno bus che dalla stazione ferroviaria porta in centro (il percorso a piedi richiede un’abbondante mezz’ora) attraversa quartieri con tracce architettoniche di epoche diverse in cui l’impressione di abbandono è dominante. Poche realtà commerciali, poche persone per strada, troppo vasti spazi per una scarsa circolazione. Campi gerbidi, file di casamenti compatti con il vuoto intorno. La popolazione è mediamente di età avanzata e la realtà urbana che si scopre è contrastante: pulita e ordinata nella zona centrale, desolata e sciatta in periferia. In ogni caso, tragicamente tediosa. Ci sono bambini ma scarseggiano i giovani. Etnie diverse si individuano come tracce di alleanze politiche del passato sopravvissute ai cambiamenti o di più recenti flussi migratori. L’uggia della provincia non è diversa da altre analoghe realtà nel resto del mondo, ma qui la storia aggiunge capitoli particolari. E narra di un paese che, a dispetto di un innegabile recupero di libertà, risente pesantemente di un’identità perduta, di un’umiliazione subita. Sempre più spesso la stampa contemporanea pone il problema di come l’unificazione delle Germanie sia stata piuttosto una colonialistica annessione che all’ex Repubblica Democratica Tedesca, alla sua storia e alla sua cultura, non ha riconosciuto nulla di salvabile e a cui è stata imposta l’omologazione forzata al “vincente” modello occidentale. Da tempo ormai, negli ex territori tedesco-orientali si è scatenata l’Ostalgie, la nostalgia per l’est che, da accenti estetico-emotivi, è passata a riscontri politici preoccupanti. Neonazismo tra i giovani demotivati, simpatie elettorali per l’estrema destra, spopolamento di intere città e regioni, disoccupazione, economia rovinosa. Eisenhüttenstadt ne è testimonianza concreta e visibile. Una visita a questa città potrebbe essere illuminante e costruttiva per chi volesse provare ad andare più a fondo nel problema dell’ex DDR e non limitarsi alla folkloristica e rincuorante realtà dei turistici musei commemorativi.