Highline, New York
La Highline di New York è stata celebrata negli ultimi anni sia come capolavoro dell’architettura del paesaggio sia come esempio pericoloso di iper-gentrificazione. Si tratta, come sappiamo, di una iniziativa collettiva partita dal basso ma pure di una operazione di promozione immobiliare di grande successo. La Highline è anche un modello virtuoso di archeologia industriale, un parco urbano orizzontale di grande originalità (pur avendo il suo precursore nella Promenade plantée di Parigi), uno spazio che fa concorrenza a Central Park, e tante cose ancora (Cf. Michael Jakob, Dall’alto della città, Lettera Ventidue, 2017).
Ciò che la rende veramente interessante e rilevante è il suo essere un (nuovo) gigantesco occhio sulla città. Questa sua qualità oculare è evidente a metà del secondo segmento, laddove la Viewing Frame (o Viewing Spur) accaparra tutta l’attenzione dei visitatori. La Viewing Frame è un rettangolo metallico che dirige lo sguardo verso la 26ma Strada e su uno squarcio della città. Una panchina-tribuna invita le persone a sedersi e godere per un tempo indeterminato dello spettacolo scopico. L’imponente cornice ricorda il formato classico delle immagini fotografiche, degli schermi cinematografici, nonché le dimensioni delle billboards, le insegne pubblicitarie dell’epoca in cui nacque la vecchia Highline (quella che era prevista per il trasporto merci). La cornice vuota collega la Viewing Frame con lo strumento rinascimentale del velo o reticolato, utilizzato da artisti e architetti.
Come gli “intersettori” di Leonardo o di Dürer, anche l’artefatto centrale del parco sopraelevato di Manhattan è trasparente, e lascia filtrare lo sguardo dai due lati liberi. Proprio come il celebre rettangolo albertiano – quello della “finestra aperta” – anche questo dispositivo ottico accentra lo sguardo e permette una focalizzazione più precisa sulla realtà. L’happening urbano di Brunelleschi, che nel lontano 1425 dimostrava la potenza quasi magica della prospettiva centrale utilizzando una cornice totalizzante, rivive sulla Highline, con un dispositivo che appartiene a pieno titolo al repertorio di congegni tecnologici; quelli che contribuirono a generare uno sguardo nuovo sulla città, e da lì sul mondo.
La Viewing Frame fa parte in altri termini di una tradizione specifica che inizia, in epoca moderna, con il Buongoverno/Malgoverno senese. Gli affreschi realizzati dai fratelli Lorenzetti sono infatti il risultato della volontà cittadina di (far) vedere la città. Siena si riflette su quei muri e fa riflettere sui modi in cui una simile rappresentazione si dà a vedere: è uno spettacolo dinamico, un luogo di scambi e flussi da un lato (quasi seicento anni prima del Monet dell’Orangerie, il Buongoverno implica già il movimento dello spettatore obbligato a seguire la dinamica positiva della città) e, dall’altro lato, uno spettacolo infernale che immobilizza e gela lo spettatore. Alla rappresentazione mortifera e al locus terribilis del Malgoverno, allo scenario assoluto della distruzione, alla stasi terrificante, risponde la rappresentazione plurale, aperta e policentrica del Buongoverno, che introduce addirittura la prospettiva del contadino, cioè di un protagonista sino ad allora assente dalla storia dell’arte.
L’opera che permette di identificare al meglio le implicazioni della Viewing Frame è il celebre quadro di Jan van Eyck intitolato Vergine del Cancelliere Rolin. Questo straordinario dipinto dell’artista fiammingo è in primo luogo una meditazione sulle modalità percettive. La composizione confronta la visione religiosa del primo piano, incarnata dal Cancelliere, con il desiderio scopico, incarnato dalle due figure minute sul terrazzo, dall’artista stesso e da noi come spettatori. Immedesimandoci in un primo tempo all’interno dello spazio sacro e allontanandoci in seguito da quest’ultimo, siamo esposti alla logica di un dispositivo che dimostra il fascino di una macchina ottica diretta verso il mondo esterno, e cioè verso il paesaggio. La triplice apertura della finestra lascia entrare il “fuori” che si impone accanto e in opposizione all’interiorità tradizionale come spettacolo visivo.
Percepita in questa luce, lo spazio sacro-strumento ottico appare come una camera obscura e una camera lucida ante litteram. A cosa serve in effetti questa complicata rappresentazione? A guardare diversamente il mondo, la città, la campagna, il fiume, la foresta, l’ultimo orizzonte occupato dalle montagne. Posti sulla piattaforma all’esterno dell’hortus conclusus (infiltrato da presenze allegoriche ambigue: pavoni, gazze), i due nani segnalano la caratteristica potenzialmente peccaminosa dell’apertura verso l’esterno, le contraddizioni della moderna sete di spazio. Chi si perde nella contemplazione della città e dei suoi dintorni, chi soccombe alla curiosità, chi non si fa guidare dalla Bibbia e dal diktat di un mondo chiuso su sé stesso, non andrà in paradiso, resterà “piccolo”. Gli sguardi partendo dalla piattaforma sono obliqui (la persona sulla sinistra guarda in basso) oppure relazionali (la persona a destra guarda l’altra persona guardare). Se, come pare probabile, la persona con il turbante rosso rappresenta in verità il pittore stesso, le cose si complicano.
L’affermarsi lì, dove la città si dà potenzialmente come uno splendido spettacolo, indica che l’autore dell’intera composizione sta dalla parte dell’accesso sensibile e aperto al mondo, e non della censura religiosa. Anzi, se la nostra lettura della cornice architettonica come macchina ottica è corretta, allora la funzione dell’autore può essere capovolta, e la composizione intera intesa come un’immagine che il pittore ci fa vedere sulla parete invisibile dell’edificio (occupato ora dall’impressione visiva del mondo come proiezione). Anche il dipinto di van Eyck è quindi una “viewing frame”, è la mise en abîme di un tale congegno. Il Quattrocento si apre al mondo o, più precisamente, la città quattrocentesca (secondo gli specialisti la città del quadro amalgama varie città come Autun, Dijon, Gent e Bruges), la città moderna proiettata nel futuro, invita a osservare sé stessi (come a Siena) e ad andare nel contempo oltre, fino all’estremità del conoscibile (l’orizzonte alpino). La cornice utilizzata, la finestra trilobata, appartiene sia al vecchio mondo (chiuso, religioso), sia al nuovo mondo.
Nel seguire lo spettacolo urbano, peri-urbano e paesaggistico guidati dalle piccole figure sulla piattaforma, anche noi scopriamo grazie a questa prospettiva nuova (e in sé peccaminosa, la curiosità è un peccato capitale) qualcosa di straordinario. E perché non leggere quest’esperienza al rovescio, cioè come un tentativo a posteriori di stigmatizzare un modo nuovo di vedere (e soprattutto di vedere il territorio tutto), una prospettiva talmente potente da risultare in palese opposizione con i dettami della religione?
Va sottolineato come alla prospettiva unidirezionale dello sguardo che unisce il Cancelliere e la Vergine (alla visio, alla preghiera, all’immaterialità) si opponga un sistema pluridirezionale. Questo comprende gli sguardi delle piccole persone sulla piattaforma, ma pure lo sguardo di coloro che, appostati sul ponte pieno di gente, possono a loro volta volgere gli occhi nella nostra direzione, creando un vero e proprio teatro di sguardi incrociati. Per tutti questi spettatori di un paesaggio urbano che si è fatto spettacolo, la città è diventata – per dirla con Marco Romano – un fenomeno estetico. Il fatto di essere toccati dalla bellezza della città, ma anche da quella del mondo circostante, dal paesaggio, ha nell’affresco senese e nel dipinto di van Eyck una valenza testimoniale importante. Partirà da lì infatti una tendenza – quella di contemplare, specie da un punto di vista altolocato e in modo inconsueto uno scorcio del mondo, quella di incorniciare con lo sguardo il territorio e di trarne notevole piacere – che trova il suo prolungamento proprio nella Viewing Frame di Manhattan.
Esiste tra l’altro un testo chiave che collega ciò che può sembrare un lontano punto di partenza medioevale con la situazione newyorkese attuale. Si tratta di quelle brevi pagine nell’Invenzione del quotidiano, in cui il filosofo gesuita francese Michel de Certeau sottopone lo sguardo totalizzante del visitatore del World Trade Center a una critica radicale. La città moderna offre un punto di vista troppo alto, astratto e cartografico (“La masse gigantesque s’immobilise sous les yeux”), una prospettiva che, malgrado l’illusione di potere scopico, impedisce di vedere ciò che conta. Per vedere bene, correttamente, occorre scendere quasi a livello del suolo. È per questa ragione che la posizione di chi si trovi sulla Highline appare così accattivante: è il fatto di trovarsi sopraelevati di soli dieci metri da terra che rende tutto interessante poiché accessibile in un’ottica inusuale.
La Highline è la materializzazione della riscoperta della meravigliosa stranezza del quotidiano, che annulla i voli pindarici dell’occhio divino totalizzante, e la Viewing Frame è questo altro tipo di occhio. Il dispositivo installato nel mezzo della passeggiata orizzontale cita e ricorda evidentemente il cannocchiale, il viewfinder, e tutti gli altri strumenti di controllo visivo che conosciamo. Lo fa però soltanto per capovolgere la situazione, dato che la cornice resta trasparente e vuota. La persona che “utilizza” la cornice per vedere diversamente la città non deve identificare il risultato della sua libertà scopica con un pattern o un ideale, come lo farebbe se si fermasse su di un vista point tradizionale (quello dei circuiti turistici, per intenderci). Qui, il soggetto, che resta libero, soprattutto in senso temporale, vive appieno la sua capacità scopica, perché privo di obblighi di ogni genere. In quanto metonimia della Highline tutta, la Viewing Frame segnala l’inutilità immediata di questo sguardo che non possiede finalità esterne: l’essenziale sta semplicemente nell’insolito vagabondare degli occhi.
Il dispositivo escogitato non è, certo, scevro da ambiguità. Se questa è una billboard svuotata di contenuti, allora è l’oggetto auratico ad essere presentato, quello che si fa vedere, è la città stessa. Seduto sulle panchine della Viewing Frame, il soggetto ubbidisce alla città narcisistica che si auto-realizza nel momento in cui il visitatore si trasforma nell’occhio della città. Ciò che lo salva dal sentirsi rinchiuso all’interno di un sistema autoreferenziale è la presenza altrui. Nel dispositivo stesso il soggetto non è quasi mai solo e condivide la prospettiva con altri visitatori. Come in un quadro di Caspar David Friedrich, dove più persone sono esposte a un paesaggio e dove l’intersoggettività dell’esperienza comune non è assicurata, anche in questo caso la prospettiva individuale di x non è quella di y o di z, e così via. Anzi, lo spazio scenico della Viewing Frame è un teatro di sguardi che si fanno concorrenza, di corpi che cercano il punto di vista più adatto, di elettricità somatica, ecc.
A tutto ciò si aggiunge una ulteriore peculiarità: in basso, laddove l’occhio del visitatore ha concentrato l’attività foveale, non appare quasi mai soltanto la città minerale o infrastrutturale. La città colta dalla Viewing Frame è il luogo dove esistono gli altri. Nel momento in cui una o più di queste altre persone “toccano” con il loro strale visivo gli spettatori all’interno del sistema Highline la situazione si complica. La contemplazione piena ma solipsistica, l’attenzione ritrovata per il semplice piacere di incorniciare un ritaglio di città, viene disturbata e amplificata dalla presenza dell’occhio dell’altro che invade il campo visivo. L’altro relativizza il mio sguardo, mette in questione la mia prospettiva, mi dice: “cosa fai lassù?” “Che diritto hai di volermi osservare?” L’altro mi insegna però anche che il mondo che ho appena scoperto, quello affascinante che conoscevo così male, diventa ancora più ricco grazie agli sguardi che si incrociano.
Seduti sulla panchina della Viewing Frame ciò che si impone in ultima conseguenza è la differenza. La differenza dell’ora e del tempo che precede e che verrà; la differenza sottile che, spostandosi di alcuni centimetri, porta alla creazione di una realtà diversa; la differenza che distingue le immagini generate qui dalle immagini esotiche, paradossalmente quasi tutte standardizzate, anche quelle di Manhattan, che qui non è “Delirious New York” e neanche la New York pittoresca di Olmsted, ma uno squarcio urbano della 26th Street che si fa specchio del mondo.