Cina e USA: lo scontro tra imperi

31 Agosto 2022

La comparsa della Cina globale è il portato della globalizzazione economica delle decadi trascorse, sorretta da relazioni fondamentalmente costruttive fra la Cina e gli Stati Uniti. A partire dal momento carmico rappresentato dall’ingresso della Cina nell’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio) nel 2001, le economie cinese e statunitense sono diventate sempre più interdipendenti, un motivo d’ottimismo per la gestione dei vari conflitti suscettibili di sorgere fra le due nazioni. Ciò, tuttavia, è stato messo in discussione durante i tumultuosi anni dell’amministrazione Trump, alla ricerca di un rimedio allo squilibrio commerciale con la Cina, oltre che dalla pandemia del Covid-19 e dallo sconquasso creato nell’ordine globale, di una gravità ancora in parte inesplorata. Nel suo nuovo libro, Clash of Empires: From ‘Chimerica’ to the ‘New Cold War’ (Cambridge University Press, 2022), Ho-fung Hung fornisce un’analisi delle relazioni sinoamericane in divenire e una critica della politica economica globale.

Focalizzandosi sull’ideologismo di molte tesi, Hung sostiene che gli Stati Uniti agevolarono l’integrazione cinese nell’economia globale negli anni 90 del secolo scorso e nel primo decennio di questo indotti a farlo soprattutto dall’interesse delle sue aziende, alla ricerca di un accesso al mercato cinese e alla sua manodopera a basso costo. Questo interesse si esaurì quando venne spento dalla politica cinese di promozione delle industrie indigene a partire dalla fine del primo decennio di questo secolo. L’integrazione della Cina nell’economia globale ebbe conseguenze diverse in Cina e negli Stati Uniti, dove aveva creato un’interdipendenza strutturale fra le due economie.

Dato che entrambe queste economie capitaliste andarono incontro a una crisi di sovraccumulazione, la rivalità ‘interimperiale’ nell’economia mondiale finì per prendere il posto dell’interdipendenza. Con le due aree economiche separate, anche la rivalità geopolitica fra le due nazioni è diventata più difficile da conciliare. In quest’ottica, il brodo di cultura della ‘Nuova Guerra Fredda’ è la “concorrenza intercapitalistica” fra Cina e Stati Uniti, piuttosto che le divergenze ideologiche. Mentre l’approccio marxiano di Hung alla politica estera statunitense sembra essere ravvivato dalla lente analitica delle differenze, la sua dissezione dell’economia politica globale impone un radicale ripensamento del tipo di ordine economico globale che potrebbe prevenire conflitti futuri. 

Hong Zhang: Il tuo libro fornisce un’esauriente visione dei cambiamenti nei rapporti societari sinostatunitensi, che secondo te sottostanno ai cambiamenti nei rapporti politici fra le due nazioni. Qual è stata la spinta a sviluppare quest’analisi e quale visione politica pensi di dover contrastare? 

Ho-fung Hung: Molte visioni assai popolari del deterioramento nelle relazioni sinostatunitensi lo attribuiscono alle differenze ideologiche fra democrazia e dispotismo. Esse forniscono sufficienti giustificazioni alle azioni e alle politiche delle rispettive amministrazioni. Ma noi, in quanto studiosi, abbiamo la responsabilità di  guardare oltre questa visione ovviamente manchevole. Se fosse veramente questione di scontro fra democrazia e dispotismo, come mai le relazioni fra la democratica America e la dispotica Cina furono tanto armoniose negli anni novanta e nel primo decennio di questo secolo? Qualcuno dirà, Xi Jinping è molto più despotico dei suoi precedessori Hu Jintao e Jiang Zemin, quindi lo scarto è diventato più visibile. Ma davvero Xi è più tirannico? Deng Xiaoping scagliò l’esercito contro le proteste popolari e tenne al potere il PCC coi carri armati. Eppure, gli Stati Uniti e il mondo democratico in genere non hanno considerato Deng tanto dispotico da non poter fare affari con lui. Lungo tutta la storia, le democrazie capitalistiche non hanno mai arretrato dal fare affari e alleanze con i dittatori. La differenza fra democrazia e dispotismo non si presenta mai qui. Perché allora dovrebbe contare all’improvviso nelle relazioni sinostatunitensi? Ci dev’essere sotto qualcos’altro. La mia ricerca e il libro cercano una risposta a quest’interrogativo. Per indagare i possibili scenari delle relazioni sinostatunitensi e su cosa sia possibile fare prima che il deterioramento delle relazioni sfoci in una catastrofe, dobbiamo innanzitutto portare allo scoperto le forze che operando sottotraccia ci hanno portato alla situazione attuale.

Hong Zhang: Tu hai affermato che lo scontro fra Stati Uniti e Cina è fra due “imperi”, che si tratta di una competizione interimperialistica. Ma qual è secondo te la natura di questi due imperi? Dato che la Cina ha concorso alla formazione dell’impero statunitense ed è cresciuta all’interno di un sistema a guida americana, come risulta chiaro dalla tua analisi, fino a dove può arrivare la Cina nella sua sfida agli Stati Uniti? Oppure li suggella una relazione simbiotica? Potrebbero divaricarsi? 

Ho-fung Hung: Come dico nel libro, è detto “impero” qualunque Stato con l’ambizione e le capacità di proiettare il suo potere militare e politico oltre confine. Gli Stati Uniti costituiscono un impero “informale”, senza vere e proprie colonie, come fecero un tempo gli imperi inglese e francese. La Cina è un impero informale alle prime armi, e i suoi intellettuali di regime siono stati anche più espliciti in merito alle sue ambizioni imperiali — usando “impero” in un’accezione positiva. L’integrazione economica fra due imperi non previene la formazione e l’aggravamento della rivalità interimperialistica. A questo proposito è utile il confronto con la rivalità anglotedesca agli inizi del XX secolo. Nel giugno 1914, un economista inglese tenne il discorso d’apertura alla Società Statistica Reale rilevando come tutte le statistiche suggerivano l’idea che gli imperi britannico e tedesco fossero legati insieme nel commercio, gli investimenti e ogni altra cosa (Crammond 1914). Egli predisse che il Regno Unito e la Germania avrebbero mantenuto relazioni reciproche e benefiche per entrambi con la Germania nelle vesti della principiante, dell’emergente, e non sarebbero mai rimasti coinvolti in un conflitto. Sappiamo bene quello che successe giusto qualche mese più tardi. In realtà, a quei tempi l’integrazione fra Regno Unito e Germania era molto più stretta di quella sinostatunitense di oggigiorno. Fra le élites dirigenti delle due nazioni c’erano perfino molte alleanze matrimoniali. La casa reale dell’Impero Britannico, il Casato dei Windsor (il Casato di Sassionia-Coburg-Gotha prima della Prima Guerra Mondiale) era per metà tedesco. La madre di Guglielmo II, imperatore di Germania, era inglese, era la figlia maggiore della Regina Vittoria. Le classi dirigenti delle due nazioni alla vigilia della Prima Guerra Mondiale erano integrate come lo sarebbero Cina e Stati Uniti se il figlio di Biden o di Trump fosse sposato con la figlia di Xi Jinping. Alla vigilia della Grande Guerra la Gran Bretagna era anche la maggior destinazione e fonte delle importazioni ed esportazioni tedesche. Ma questo livello d’integrazione non impedì che i due imperi entrassero in guerra. Il peso preponderante degli imperativi geopolitici e degli investimenti di capitale è schiacciante. Ma c’è anche una ragione per essere ottimisti. A paragone della Germania della fine del XX secolo la Cina d’oggi, che pure è sempre più militarizzata e aggressiva, è ancora molto meno militaristica della Germania dell’epoca (anche meno della Russia di oggi, se è per questo). A differenza della Germania del XIX secolo e degli inizi del XX, che fu costantemente in guerra, la Cina non ha mobilitato l’esercito in un conflitto militare serio dai tempo della guerra col Vietnam del 1979. L’ultima seria mobilitazione militare è avvenuta nel 1989, quando l’EPL intervenne per sedare disordini entro i confini. Se le élites delIo Stato Partito sono ragionevoli (un se che non fa che aggravarsi), saranno molto attente a evitare qualsiasi serio conflitto militare con gli Stati Uniti. Questo è tanto più evidente di fronte allo spettacolo dell’avventura russa in Ucraina, destinata a risolversi in un disastro per la Russia. Io rimango ottimista. La rivalità sinostatunitense può anche deteriorarsi, ma ci sono buone speranze che potrà essere incanalata in competizioni entro le istituzioni governative globali, come l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’Organizzazione Mondiale per il Commercio, le Nazioni Unite ecc., invece che sfociare in un conflitto militare aperto. 

Hong Zhang: Ho notato che tu t’accosti allo Stato cinese e a quello statunitense in maniera diversa. Sul côté cinese, hai concesso allo Stato Partito una notevole autonomia, come risulta nella tua analisi della cooptazione degli interessi aziendali statunitensi negli anni novanta, delle sue politiche industriali e del perseguimento dell’agenda geopolitica negli anni dieci di questo secolo, che si alienò le aziende statunitensi. Sul côté statuntense, invece, tu dai il primato alle aziende; sono le preferenze aggregate del comparto aziendale che determinano in ultima analisi l’orientamento della politica estera USA, anche se sono forze secondarie per le considerazioni geopolitiche. In un certo senso, descrivi uno Stato cinese weberiano e uno Stato americano marxiano. A che si deve quest’asimmetria? 

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Ho-fung Hung: È così. Ogni Stato ha settori autonomi dalle grandi corporazioni e settori influenzati o subordinati alle corporazioni o ad altri gruppi sociali dominanti. La prevalenza delle une o delle altre varia da Stato a Stato. Theda Skocpol (1985), nell’introduzione al suo ormai classico Bringing the State Back In (libro che trasferisce la prospettiva weberiana dello Stato nelle scienze sociali nordamericane), fa notare che non fu un caso se l’approccio stato-centrico weberiano si sviluppò in Germania. Ha a che fare con la mano forte dello Stato centralizzato di formazione tedesca, con l’inclinazione alla guerra e il processo di sviluppo industriale dai tempi di Bismarck. In paragone, l’approccio allo Stato sociocentrico, che include l’approccio marxiano col suo accento sulle classi e l’approccio pluralistico (alla Robert Dahl) che mette in evidenza i gruppi d’interesse – ha dominato nell’accademia angloamericana a causa dei sistemi politici che offrono molte possibilità di partecipazione politica ai gruppi sociali. Questa prevalenza dell’approccio sociocentrico negli USA e nel Regno Unito ha indotto gli studiosi a trascurare che certe componenti chiave dello Stato sono molto autonome e operano in una logica weberiana. Negli Stati Uniti, secondo Skocpol, le istituzioni della politica estera sono una di queste componenti. Le differenze fra I regimi politici statunitense e cinese richiamano quelli del contesto Stati Uniti/Inghilterra–Germania. Per la precisione, l’analisi della formazione politica condotta in Clash of Empires non è propriamente marxiana, ma piuttosto marxiano-weberiana. Seguendo l’imperativo weberiano di sostenere il potere e il prestigio globale degli Stati Uniti, le élites della politica estera statunitense hanno visto la Cina come un rivale geopolitico già dalla fine della Guerra Fredda, agli inizi degli anni Novanta. Ma gli apparati statali, cruciali nello stabilimento della politica economica, ivi compresi il Tesoro, il Consiglio Nazionale per l’Economia e il Congresso sono più sensibili alle pressioni delle grandi corporazioni. Negli anni novanta e nel primo decennio del Duemila, le corporazioni statunitensi indussero i comparti dello Stato a tenere a freno la tendenza al confronto attiva negli ambienti della politica estera. Solo negli anni dieci di questo secolo, allorché gli interessi delle corporazioni e quelli geopolitici convennero sull’opportunità di confrontarsi con la Cina, la politica cinese degli Stati Uniti si allineò completamente con quest’ottica. Al contrario, nel sistema capitalistico dello Stato Partito cinese, il processo di formazione delle politiche economica e estera è completamente centralizzato al vetice dell’élite statale-partitica. La crescita economica e la redditività delle aziende sono fra le preoccupazioni maggiori nell’elaborazione politica dell’élite dello Stato-Partito, ma sono tutte sottomesse all’imperativo di mantenere ed espandere il potere dello Stato-Partito in Cina e nel mondo. Le corporationi, per quanti appoggi politici possano avere, restano a disposizione dello Stato Partito. Le grandi aziende tecnologiche ne sono il migliore esempio. Lo Stato le ha allevate ed aiutate a monopolizzare il mercato interno. Ma non appena lo Stato le ha percepite come una minaccia, le ha spietatamente ridimensionate. Le pressioni autonome delle grandi aziende sullo Stato cinese sono semplicemente incomparabili con il potere delle corporazioni statunitensi di fronte allo Stato. Questa caratteristica dell’economia politica cinese, in cui tutti gli imperativi sono soggetti alle grandi strategie dello Stato Partito, è analizzata nel dettaglio da Rush Doshi in The Long Game (2021). Personalmente, non ho avuto occasione di leggere il libro prima di ultimare The Clash of Empires; lo avrei senz’altro incluso nella bibliografia. 

Hong Zhang: Sembrerebbe che la tua analisi focalizzata sugli interessi delle corporazioni e altre spiegazioni strutturali vogliano evitare il determinismo strutturale, infatti lasci spazio alle manovre politiche, alle contingenze e alle circostanze. Riandando alle trascorse tre decadi, potresti immaginare una storia delle relazioni sinostatunitensi alternativa? Col senno di poi, sarebbero state possibili scelte migliori di quelle fatte? 

Ho-fung Hung: Secondo me, la brusca svolta politica di Clinton che nel 1994 subordinò l’apertura del mercato statunitense alle merci cinesi a basso costo alla questione dei diritti umani in Cina fu un errore che sarebbe stato possibile evitare. Com’è documentato nel libro, l’amministrazione Clinton si divise sulla questione, col Dipartimento di Stato e molti congressisti democratici favorevoli a tale subordinazione. Robert Rubin, un uomo di Wall Street, allora a capo del Consiglio Economico Nazionale s’impegnò a recidere il nesso. Il libro documenta anche che all’epoca le maggiori corporazioni degli Stati Uniti non consideravano ancora la Cina un mercato vasto. Quando l’accordo nordamericano di libero scambio fra USA, Canada e Messico (il NAFTA, North American Free Trade Agreement) entrò in vigore nel 1994, globalizzazione significava soprattutto estensione del NAFTA in ambito panamericano. Furono le corporazioni mobilitate da Pechino a premere per lo sganciamento dal panamericanesimo. Vinse Pechino. Supponiamo che per tutti gli anni novanta avesse prevalso l’ottica panamericana. In tal caso, si sarebbe esercitata su Pechino una pressione per l’adozione di misure liberali, in un momento in cui c’era ancora un’élite di Partito con tendenze liberaleggianti e Pechino si sentiva vulnerabile e pronta ad aprire di più alle influenze esterne. L’apertura della Cina e la conseguente espansione statunitense in Cina sarebbe stata più graduale e l’impatto sulla classe operaia statunitense sarebbe stato più dolce. Ma non è la strada che fu presa. La recente legge sulla prevenzione del lavoro forzato uiguro, che mette al bando tutte le merci prodotte nel Xinjiang, a meno che gli esportatori non possano dimostrare che non sono state fatte nei bagni penali, rappresenta un ritorno alla politica clintoniana del 1993 nel commercio con la Cina – ovvero alla subordinazione dell’accesso delle merci cinesi sul mercato americano con i diritti umani. Ma ormai è troppo tardi per creare una pressione avvertibile e far cambiare strada alla Cina. L’esito più probabile sarà un’accelerazione nella spartizione dell’economia mondiale in due blocchi in competizione, un processo detto spesso sganciamento. 

Hong Zhang: Nel libro si esprimono dubbi sull’“impegno costruttivo” dell’amministrazione Clinton quando decise di non subordinare la concessione dello status di nazione più favorita alla situazione dei diritti umani in Cina, sostenendo che l’integrazione della Cina nel sistema del commercio globale avrebbe inevitabilmente condotto a una liberalizzazione del sistema politico cinese. La cosa si è naturalmente rivelata una speranza mal risposta. Lei però pensa che non fosse neanche un’aspirazione sincera, ma solo una copertura per una politica decisa dagli interessi delle corporazioni? 

Ho-fung Hung: L’idea che la partecipazione al sistema del commercio globale possa di per sé condurre alla liberalizzazione politica è probabilmente il pretesto più spudorato del discorso politico moderno. In tutta la storia del dopoguerra non si contano le dittature che hanno prosperato in regime di partecipazione al commercio globale. Dal Cile di Pinochet all’Arabia Saudita, il capitalismo di mercato non ha mai eroso i sistemi dittatoriali, anzi ha contribuito a tenerli in piedi. Il capitalismo di mercato si adatta perfettamente alla dittatura, anche se magari avrebbe altre preferenze. L’idea che il rapporto commerciale con la Cina potesse promuovere la liberalizzazione politica non è che una foglia di fico sulla piroetta a 180 gradi fatta dall’amministrazione Clinton nel 1993–94 e Clash of Empires lo dice in dettaglio. Nel primo anno, l’amministrazione Clinton connetté l’accesso alle basse tariffe dei beni cinesi per il mercato statunitense con la situazione dei diritti umani in Cina. Dopo un’intensa attività di corridoio, Clinton nel 1994 abbandonò quella politica. Subito dopo la teoria del rapporto causale fra libero commercio e liberalizzazione politica fu affrettatamente formulata per giustificare il voltafaccia. È una teoria mirante a farlo sembrare meno una resa ai ricatti delle corporazioni e più una saggia politica per il bene del mondo. Ironicamente, la teoria dell’“impegno costrutivo” aveva già fatto la sua comparsa, durante la Guerra Civile Americana, quando nel Regno Unito molti corifei del libero commercio e dell’affarismo avevano parteggiato per il Sud e difeso l’accesso al cotone a buon mercato consentito dal lavoro schiavile. Gli intellettuali schierati con loro, incluso The Economist e molti pensatori liberali, elaborarono la tesi per cui se l’Inghilterra avesse sostenuto il Sud contro Abramo Lincoln – dipinto da molti in Inghilterra come un bieco dittatore contrario al libero commercio – avrebbe potuto persuadere una Confederazione indipendente ad abolire gradualmente e pacificamente la schiavitù. Retrospettivamente, si capisce bene che la tesi era solo una copertura ipocrita alla domanda inglese di prodotti a basso costo provenienti dal lavoro schiavile. Fu una versione ottocentesca dell’ “impegno costruttivo”. 

Hong Zhang: Anche se è convinto che la rivalità sinostatunitense s’aggraverà negli anni avvenire, alla fine del libro esprime la speranza di evitare un conflitto devastante grazie alla mediazione delle istituzioni del governo globale e a un ribilanciamento delle economie cinese e statunitense. Spera che un ribilanciamento del genere possa avvenire? In Cina, abbiamo sentito parlare molto di ridistribuzione della ricchezza e finanche di “terza distribuzione”, che è stata accantonata dalla metà del 2022 visto che l’obbiettivo urgente è diventato il mantenimento della crescita dell’economia cinese, danneggiata dalle quarantene per la panedmia di Covid-19. Anche negli USA vediamo l’urgenza di ricreare il lavoro nella manifattura e di investire maggiormente nelle infrastrutture nel welfare e nell’economia verde. Pensa che ci siano meccanismi auto-correttivi nei due paesi e in questo caso che siano abbastanza efficaci? 

Ho-fung Hung: Come ho detto sopra, il fatto che la Cina sia stata molto meno militarista della Germania di un secolo fa è un motivo di ottimismo. È possibile che l'intensificarsi della rivalità tra Stati Uniti e Cina si limiti alla competizione tra i due Paesi all’interno delle istituzioni di governo globali. Sono invece meno ottimista per quanto riguarda la parte del riequilibrio interno. Il governo cinese parla di riequilibrare l'economia stimolando i consumi interni delle famiglie attraverso la ridistribuzione, e lo fa almeno dalla fine degli anni '90. Zhu Rongji (primo ministro dal 1998 al 2003) ne ha parlato subito dopo crisi finanziaria asiatica del 1997-98 e Wen Jiabao (primo ministro dal 2003 al 2013) ne ha parlato dopo la crisi finanziaria globale del 2008. Lo schema è che ogni volta che l'economia incontra un vento contrario a livello globale, Pechino ha cercato di avviare una risposta redistributiva e di stimolare i consumi domestici. Ma ogni volta la redistribuzione non si verifica e il governo si affida al vecchio trucco di stimolare gli investimenti con più prestiti per sostenere la crescita economica, proprio come sta accadendo ora. Questa strada evita temporaneamente una recessione economica, ma aumenta la disuguaglianza e lo squilibrio dell'economia nel lungo periodo. Il ricorrente fallimento della politica redistributiva è il risultato della mancanza di rappresentanza istituzionale dei lavoratori e dei contadini nel processo di elaborazione delle politiche in Cina. Negli ultimi due decenni, un grande Paese in via di sviluppo che ha realizzato una significativa riforma redistributiva è stato il Brasile sotto la presidenza di Luiz Inácio Lula da Silva (2003-11), con il programma di trasferimento diretto di denaro Bolsa Familia che è stato ben accolto a livello internazionale. Il programma è stato istituito da un governo eletto dai poveri e che li ha rappresentati. Una volta in vigore, il programma è stato così popolare che nemmeno Jair Bolsonaro, diventato presidente del Brasile nel 2019, è riuscito ad annullarlo. Rispetto al processo politico brasiliano, non ci sono molte ragioni per cui l'élite del Partito-Stato cinese, più legata alle imprese statali o alle imprese private politicamente ben collegate e dipendenti dal modello di espansione del prestito e dell'investimento, persegua seriamente una vera riforma redistributiva. Sono altrettanto pessimista riguardo al riequilibrio negli Stati Uniti attraverso il riportare le industrie manifatturiere nel paese (reshoring). L'industria manifatturiera statunitense ha goduto per decenni di profitti esagerati affidandosi alla manodopera straniera a basso costo. La guerra commerciale e la richiesta di Washington di disaccoppiarsi (decoupling) dalla Cina – e il disaccoppiamento accelererà sicuramente dopo che le imprese straniere avranno sperimentato la politica cinese di zero Covid – motiveranno le imprese statunitensi a ridurre la propria esposizione verso Cina. La maggior parte di esse non tornerà probabilmente negli Stati Uniti. Potrebbero esserci alcune eccezioni nei settori considerati strategicamente così importanti che Washington sarebbe disposta a sovvenzionare il loro ritorno. I microchip e l'estrazione di terre rare potrebbero essere due esempi. Ma per la maggior parte delle imprese, sganciarsi dalla Cina significherebbe solo trasferirsi in altri Paesi con lavoro a basso costo del Sud-Est e dell'Asia meridionale o in altri luoghi del mondo in via di sviluppo. Quindi, siccome gli squilibri sia negli Stati Uniti che in Cina non sono destinati a diminuire, la spinta all'esportazione di capitali e la competizione intercapitalistica tra i due paesi non potranno che aumentare, portando all'inevitabile intensificazione della rivalità geopolitica negli anni futuri.

Traduzione e cura di GioGo. Tratto da Global China Pulse. Titolo originale: Clash of Empires: A Conversation with Ho-fung Hung.

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