La Biblioteca di Atlantide / Jurij Tynjanov, un formalista con il senso della parodia

23 Dicembre 2019

Ci sono momenti storici in cui la parodia è necessaria – dal punto di visto teorico, non solo pragmatico. Se la parodia è quella funzione in atto, per cui gli idoli vengono rovesciati, se non ora quando è il momento di essere fanciulli, giocare, e candidamente osservare i vestiti nuovi dell'imperatore?

 

Per parodia non intendo lo sberleffo, l'imitazione, il camuffamento, il burlesco, il travestitismo. Per queste funzioni si può parlare generalmente di pastiche ironico. Per parodia intendo l'eccesso della funzione trasformativa, la quale, nei fatti artistici più potenti, raggiunge quel grado di assurdità che disvela ogni convenzionalità dell'agire umano e ogni tentativo conservativo di assecondarla. Per parodia intendo una trasformazione categorica, per cui l'opera-occasione, l'opera parodiata, infine scompare, tanto da far rimanere come un fatto solo quella parodiante, purché generi, appunto, una nuova categoria, un nuovo genere.

 

Questi pensieri sembrano figli della cultura occidentale strutturalista e post-strutturalista, per cui, per un certo verso, essi sono contemporaneamente affini e lontani, ma in ogni caso comprensibili.

 

Eppure c'è chi, attorno a questi pensieri, in altre epoche e in altri contesti, si è posto la domanda se la parodia fosse un genere o una funzione, se essa fosse volgare e popolare o raffinata ed elitaria, se insomma la parodia giocasse – e avesse già giocato – un ruolo decisivo nell'evoluzione delle nostre culture.

 

Che sia un caso oppure no, questo autore è Jurij Tynjanov (1894-1943), una delle figure più rappresentative del Metodo Formale russo o, comunemente detto, del Formalismo Russo. Questo autore e critico dirà poco al lettore contemporaneo, mentre di Viktor Šklovskij e Roman Jakobson egli conoscerà già le parole-chiave di straniamento/defamiliarizzazione e letterarietà. Eppure, oggi come oggi, non esiste studioso della storia della parodia che non riconosca a Tynjanov, che pubblica il suo primissimo saggio, “Dostoevskij e Gogol' (Per una teoria della parodia)”, nel 1921, un ruolo pionieristico nella riflessione sul termine. Il saggio viene pubblicato in italiano da Dedalo nella raccolta tynjanoviana Avanguardia e tradizione del 1968 (mentre nell'originale russo del 1929 il volume recava il titolo Arcaisti e innovatori).

 

 

Nell'Europa un po' più a ovest, tra la fine dell'Otto e l'inizio del Novecento, abbiamo dei precedenti illustri, che recano alla parodia implicazioni più sfumate, rispetto alle popolari esperienze della cultura satirica e cabarettistica. Nietzsche sottintende alla parodia – come funzione e non come genere – un principio fondamentale del suo lavoro letterario-filosofico. Nell'introduzione alla seconda edizione di La gaia scienza (1882-1887), Nietzsche annuncia, che dunque cominci la parodia. E solo nel penultimo capitoletto dello stesso libro, egli scrive che, di ora innanzi, comincia la tragedia. Alla post-tragedia di Zarathustra si arriva dunque attraverso la parodia del sapere occidentale. Henri Bergson afferma in Il riso (1900) che la trasposizione dal solenne al triviale – cioè dalla tragedia alla commedia, attraverso la parodia – sia certamente comica, ma che il processo inverso, dal triviale al solenne, possa esserlo ancora di più. Virginia Woolf nel saggio “Parodie” (1917) afferma che la parodia è sì intrattenimento, ma può assumere una funzione critica più audace di quella esercitata dal critico di professione. Una funzione della parodia già abbozzata da Carlo Dossi, nelle sue postume Note azzurre (1912).

 

Tynjanov fa qualcosa di diverso nel suo saggio del 1921, qualcosa di veramente moderno. Se Dostoevskij ha affermato che “siamo tutti usciti dal cappotto di Gogol'”, il giovane Jurij si chiede, ma che cosa significa questo, esattamente? È possibile rintracciare questo suo lavoro “in secondo grado” su Gogol', e quali conseguenze se ne possono trarre? Il lavoro di Fëdor su Nikolaij è di tipo parodico, infine? Questo è già il senso rivoluzionario del giovane critico Tynjanov, il quale abbandona positivismi, biografismi e psicologismi, od opinioni critico-filosofiche, per guardare alla specificità dei testi, alla loro analisi, ad analogie e conflittualità, per giungere dove l'oggetto stesso del suo studio non era arrivato a concepire: l'utilizzo di una funzione, quella parodica, come veicolo di evoluzione della letteratura.

 

Dunque Tynjanov traccia la “lotta” che Dostoevskij intrattiene con Gogol' e delinea come, agli esordi, il primo rifletta sui cardini della scrittura gogoliana: l'alto e il comico. Ma con questa riflessione Tynjanov non intende una qualsivoglia imitazione o influenza, quanto una stilizzazione, un gioco proattivo con lo stile. Allora per Tynjanov esistono due piani, sui quali vivono le due opere in relazione funzionale – più tardi Julia Kristeva parlerà di intertestualità –: se i due piani corrispondono, si dirà di stilizzazione, se essi sfasano, si dirà di parodia. Curiosamente parafrasando Bergson: “parodia della tragedia sarà la commedia […], parodia della commedia può essere la tragedia”. Secondo Tynjanov, è la motivazione comica a rendere la stilizzazione una parodia.

 

 

La parodia è però non solo funzionale al rapporto tra due testi specifici ed essa risponde a una possibile teoria più generale. La parodia lavora sulla meccanizzazione di un procedimento letterario. Quando questo procedimento viene percepito ed evidenziato come epigono attraverso il lavoro parodico stesso – per ripetizione, inversione, spostamento –, la trasformazione in atto permette la sua riorganizzazione in un nuovo materiale. Questo è un passaggio fondamentale verso una teoria della parodia, perché questa tende ora a subordinare l'elemento comico: nel momento in cui l'opera parodiante non viene più percepita in relazione a quella parodiata, la prima perde la parodicità e vive di vita autonoma.

 

Mettere al centro del dibattito culturale (siamo nei primi anni Venti in Unione Sovietica) la parodia come motore letterario non sembra un'idea vincente, e infatti l'asserzione tra parentesi “per una teoria della parodia” non indica propriamente una teoria. Ma, qua e là, se ne sentono i tremori sotto crosta. 

 

Nel 1924 Tynjanov pubblica il suo libro teorico più importante, Il problema del linguaggio poetico, pubblicato in edizione italiana da Il saggiatore nel 1968. Il volume, un caposaldo dello studio formale e strutturale del verso poetico, propone una visione dinamica del segno, basata sui suoi principi e fattori costruttivi, intesi non in quanto composizione di elementi, bensì in quanto interazione (ancora, “lotta”) tra gli stessi. Pertanto, il “ruolo storico della parodia poetica” – cautamente messo da Tynjanov di nuovo tra parentesi, nel testo – accade quando nuovi fattori – nuovi perché dimenticati o presi da un sistema diverso (non solo letterario) – entrano in interazione attraverso la lotta, in modo da de-automatizzare o de-meccanizzare l'epigonismo del linguaggio poetico contemporaneo.

 

Le intuizioni di Tynjanov avranno un impatto inaspettato sulle scienze letterarie meno formaliste e più socio-antropologiche, come su Olga Freidenberg e Mikhail Bachtin in Russia – e da Bachtin poi sull'Occidente. 

 

Il concetto di de-meccanizzazione, oggi attualissimo, viene poi ripreso più volte e, in fondo, accomuna Formalisti dagli interessi così diversi, come Šklovskij e Jakobson. Nel saggio incompiuto “Sulla parodia” (1929), Tynjanov arriva a riconoscere che non si dovrebbe più discutere di “parodia”, quanto di forma o funzione parodica. La funzione parodica è per lui quella propriamente critica, ed essendo critica, essa può solo applicarsi alla contemporaneità. Quella della prossimità storica o meno tra due testi – o immagini – in interazione è un problema che ancora oggi dovrebbe essere preso in analisi, quando si studia e si critica un'opera contemporanea, la quale pratichi un certo grado di citazionismo. Dal 1977 è stata disponibile la versione originale russa e ora (2019) anche quella in traduzione inglese, nel volume Permanent Evolution, edito e tradotto da Ainsley Morse e Philip Redko per l'Academic Studies Press di Boston. Ne sarebbe necessaria anche una versione in italiano.

 

 

Come Šklovskij, Tynjanov non esaurisce le sue riflessioni in campo accademico, ma le espande in quello della fiction e del cinema, divenendo perfino pop e affermandosi in quanto artista – fama di cui gode ancora oggi nelle lettere russe. Alla pubblicazione del suo primo romanzo, Kjuchlja (1925, Metauro 2004), incentrato sul poeta contemporaneo di Puškin, Wilhelm Kjuchel'beker, gli dice Majakovskij: “Da ora, Tynjanov, possiamo parlare come tra due grandi potenze”. I suoi primi romanzi, appunto Kjuchlja così come La morte del Vazir Muchtar (1929, Silva 1961) riverberano il sottotesto di una conoscenza enciclopedica della storia, intesa non come documentaria, bensì culturale – e critica, nel senso nietzscheano. In fondo, afferma Tynjanov, i documenti ufficiali “mentono, come gli uomini”, e “dove finisce il documento, là comincio io”. Il lavoro sul parodico della scrittura tynjanoviana infetta dunque le convenzioni della continuità storica. Tra le sue altre opere narrative, Il sottotenente Summenzionato del 1927-1928 (per Sellerio, 1992) va qui citato. Nella novella, Tynjanov lavora sull'assurdo gogoliano, iperbolizzando, se possibile, le storture burocratiche degli apparati russi, già evidenziati da Gogol' ne Le anime morte. Ai tempi di Paolo I, zar dopo la madre Caterina la Grande, per un errore di trascrizione su un documento ufficiale, il sottotenente Summenzionato prende vita dalla carta e comincia a vivere una vita propria, facendo carriera e perfino combinando un matrimonio, senza che mai alcuno lo veda. Sullo stesso documento, un altro errore dichiara defunto il tenente Sinjuchaev, il quale, dismesso dall'esercito, conduce una vita raminga da fantasma, fino a scomparire senza lasciar traccia. Comico, grottesco e parodia si intrecciano, tracciando genealogie letterarie e witz tipicamente russi: come avevano già insegnato i cubo-futuristi negli anni Dieci del Novecento, non esiste futuro senza parodia del passato.


Avanguardia e tradizione (1968), che contiene il saggio “Dostoevskij e Gogol'”, è forse ancora disponibile nei magazzini della Dedalo di Bari, ma Il problema del linguaggio poetico (Il saggiatore, 1968) e Formalismo e storia letteraria: tre studi sulla poesia russa (Einaudi, 1973) meritano una ristampa per il lettore contemporaneo, non solo per gli oggetti di studio ivi presentati, ma soprattutto per le implicazioni critiche e metodologiche attuali che la scrittura di Tynjanov ancora comporta. I suoi romanzi e le sue novelle, laddove non ancora disponibili, meritano la stessa sorte.

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