Umbria Green Festival / Esercizi di lettura terrestre
«Esercizi di lettura terrestre»: così chiama questi suoi Matteo Meschiari, détournando uno dei titoli più celebri – forse in assoluto il più decisivo, anzi – della critica letteraria del Novecento italiano. Sto parlando ovviamente degli Esercizî di lettura di Gianfranco Contini (ossia quello che era stato, per il maestro di Meschiari Ezio Raimondi, forse il maestro-chiave). Proprio in questo libro del 1939 – proveniente dunque da quella che ci appare, è il caso di dire, un’altra era geologica – si trova un passo citatissimo, a proposito delle poesie di Michelangelo, che malgrado petulanti mode avverse continua ancora oggi ad apparirmi la bussola più attendibile: «lo stile mi sembra essere, senz’altro, il modo che un autore ha di conoscere le cose. Ogni problema poetico è un problema di conoscenza. Ogni posizione stilistica, o addirittura direi grammaticale, è una posizione gnoseologica». Parafrasando Contini, dunque, la lettura terrestre di Meschiari altro non sarà che un modo di conoscere il mondo attraverso quei «documenti spontanei» che sono, per lui, i testi letterari: i quali «registrano, nella storia individuale e collettiva» i «fare spazio» dell’uomo, «cioè modi, strategie e narrazioni del suo stare al mondo nel mondo».
In generale, si capisce, un’espressione come conoscere il mondo può voler dire tutto e il contrario di tutto. Nell’ottica di Meschiari mi pare si connoti però di quella medesima «funzione soggettiva e predicativa» che egli attribuisce a un’altra formula-concetto dalla sin troppo estesa e in generale aproblematica occorrenza, quella del paesaggio. La lettura terrestre sarà dunque una conoscenza della terra attraverso la lettura (dei testi letterari) nonché, biunivocamente, una conoscenza (di quei medesimi testi) attraverso la terra. (Un po’ come la cognizione del dolore, nel titolo-chiave dell’autore-chiave di Contini, Gadda – al quale con insistenza guarda, non a caso, pure Meschiari –, significa tanto la conoscenza oggettiva del dolore umano quanto quella soggettiva attraverso il dolore individuale.)
Tanto varrà a operare quella che Meschiari definisce «un’inversione di paradigma», rispetto alla maggior parte dei tentativi di geografia della letteratura incoraggiati dal tanto reclamizzato spatial turn da qualche decennio in corso: e che ai suoi occhi sono forse accomunati, quale più quale meno, dal rigurgito neo-positivista che (ha scritto nel suo ultimo libro, Disabitare, Meltemi 2018) è tipico di ogni «ripiego disciplinare». Contro il quale egli di contro professa – e performativamente pratica – un’«audacia postdisciplinare» (l’espressione è ripresa dallo Jacques Lévy di Inventare il mondo), «panoramica e visionaria». In questa divisa – che è etica e temperamentale, prima che concettuale e “poetica” – gli è phare un altro maestro oggi forse fuori moda, il Gregory Bateson di Mente e natura che, scrive Meschiari sempre in Disabitare, «in antropologia ha saputo decostruire dall’interno e dall’esterno il concetto di campo (facendo della sua stessa vita un “terreno”) e sforzandosi di pensare l’epistemologia più come un punto di vista che come un riflettore da stadio sparato sulle cose».
Lavorare sul campo – volendo a nostra volta détournare uno dei sintagmi disciplinari più “tecnicamente” connotati – equivarrà allora a decostruire, mediante un contatto più radicato e corporale coi testi, il “campo” non solo delle sempre più asfissiantemente microspecialistiche partizioni delle “scienze umane” ma, più alla radice, dello stesso “modo” discorsivo che chiamiamo “critica”. Di qui la circolarità – che di certo qualcuno non mancherà di rimproverargli – con cui Meschiari affronta problematiche simili, di volta in volta, in sede di lettura ravvicinata di testi (come nel caso presente), di proposta teorica (in pubblicazioni dal taglio quasi pamphlettistico) e di autonoma produzione letteraria (nei testi poetici di Appenninica, per esempio, dopo lunga elaborazione raccolti presso Oèdipus nel 2017; o nella fantasmagoria narrativa di Neghentopia, pubblicata lo stesso anno da Exòrma; forse soprattutto nel suggestivo “fuoriformato” rappresentato da Artico nero, uscito l’anno precedente dallo stesso editore). Un’attitudine multitasking che non è però fine a se stessa (come in troppa produzione “creativa” cui si lasciano andare, blasé, critici saggisti e accademici vari), servendo viceversa a ruotare “cubisticamente” i punti di vista, nel tentativo di fornire un «rilievo come stereoscopico» (diceva Contini, sempre, discorrendo di Renato Serra) al proprio oggetto. Non diversamente operò a suo tempo, in effetti, l’antropologo più “selvaggio” del Novecento, e che dello stesso Novecento è stato fra i maggiori scrittori in assoluto: il Michel Leiris dell’Africa fantasma (anno di grazia 1934: due anni prima dell’esordio di Bateson, cinque prima degli Esercizî di Contini).
«Selvaggio» è a sua volta lessema connotatissimo, si sa, nel vocabolario disciplinare dell’antropologia: a partire dal Pensiero selvaggio di Claude Lévi-Strauss che nel ’62 ebbe in sorte di farsi livre de chevet anche dei “giovani turchi” della letteratura d’allora (il culto di un Arbasino, per esempio, ha trovato pubblica celebrazione, ex post, con un titolo recente come Pensieri selvaggi a Buenos Aires). Anche questo titolo-crocevia Meschiari lo ha fatto proprio, e insieme lo ha détournato, con un libro che di questo che state per leggere si può considerare il fratello gemello (e di fatto ne condivide, inaggirabilmente, alcune pagine). Parlo del testo che giusto dieci anni fa ha fatto conoscere il suo autore anche al di là della cerchia disciplinare: Sistemi selvaggi (Sellerio 2008). Non si pensi però che l’attributo di «selvaggia» connoti questa scrittura in senso spontaneistico, semplificatorio, approssimativamente scapigliato. Tutt’al contrario è quello della «complessità» l’orizzonte cui l’autore sempre rinvia; e un’espressione sintomatica di Calvino – «trasformare il paesaggio in ragionamento» – la sua citazione preferita. Non si dimentichi infatti che selvaggio è il suo sistema: due termini che compongono fra loro, se non un ossimoro, certo un tropo improntato alla tensione (valore-guida, la tensione, del Contini “stereoscopico” di cui sopra).
Nel libro del 2008 definisce «selvaggia», Meschiari, la «mobilità delle correnti» nel «dinamismo paesaggistico» che intende descrivere: nella vocazione a «parlare del movimento di approssimazione più che della terra ferma». Ed è proprio questa, a mio modo di vedere, la più attraente specificità (ancora una volta, mi pare, prima temperamentale che concettuale) del suo pensiero: la quale ne fa uno dei pochi che si possano senza tema definire originali, nella sin troppo ordinata repertoriazione dei saperi cui è solita limitarsi la mia generazione. Riguardo al concetto-totem di paesaggio, infatti, Meschiari rifugge dalle descrizioni, pure affascinanti, che lo ipostatizzano come un dato. Non gli interessa tanto (ha scritto nella Terra postmoderna, Aracne 2015) «la Terra con la maiuscola, quella delle cosmologie, quella ambientalista», quanto «la terra dei paesaggi radicali, fatti di roccia e ghiaccio, la terra nuda delle grandi migrazioni, percorsa da animali selvaggi e da popoli nomadi». Selvaggio è, nella prassi prima che nella teoria di Meschiari, il «pensiero aperto, acentrico, asimmetrico e anarchico» che gli insegna l’ultimo dei maestri-chiave, il Feyerabend di Contro il metodo (citato in questi termini in Sistemi selvaggi): esattamente omologo al frame esistenziale, e insieme concettuale, in cui tale pensiero s’inscrive: il paesaggio, appunto, allo stesso modo «aperto, acentrico, asimmetrico e anarchico».
Dunque oggetto di questo libro non è tanto un Paesaggio-mappa – quello cui s’è ispirato tanto postmodernismo cui Meschiari, contro le mode avverse, non si perita peraltro di riconoscere, quand’è il caso, il proprio debito intellettuale – bensì un Paesaggio-cammino. Non un dato, si diceva, bensì un processo. Come si legge qui, il paesaggio «ci offre una grande lezione di realismo, di pragmatismo, e nella prassi quotidiana o della ricerca è come se garantisse una maggiore apertura ai dati qualitativi dell’esistenza».
La scommessa più rischiosa, e più affascinante, che si possa desumere dagli esercizi di lettura terrestre raccolti in questo libro è quella di proseguire quell’equivalenza “sistematica” fra testi e terre – equivalenza funzionale, bi-univoca s’è detto – non solo in termini descrittivi ma, appunto, interpretativi. Questo il giro di vite di Meschiari quando distingue «testi con paesaggio, testi di paesaggio e testi-paesaggio» (definizione, questa, che proviene dal risvolto di copertina scritto da Calvino, nel 1983, per L’angelo di Avrigue di Francesco Biamonti). Questi ultimi «non fanno solo mimesis o ekphrasis ma tendono ad adottare in ambito verbale la stessa omologia problematica che si dà talvolta tra mappa e territorio». Il trattino della formula «non stabilisce un parallelo metaforico, ma un’omologia strutturale». (Curiosamente mi sono trovato di recente a impiegare questo medesimo dispositivo diacritico, diciamo, per provare a distinguere – nell’ambito iconotestuale dei cosiddetti “libri d’artista” – dalla «Pittura/Poesia», che contempla la mera giustapposizione di parole e immagini, e dalla «PitturaPoesia», che le identifica senza residui come nella cosiddetta poesia concreta, la «Pittura-Poesia», la sola cioè in cui si assista a un’effettiva relazione dinamica, interattiva, fra parola e immagine: nel mio caso parafrasando la distinzione operata dal maggior teorico del Pictorial Turn, W.J.T. Mitchell, fra «Image/Text», «ImageText» e appunto «Image-Text».)
Un esempio brillante di questa omologia interpretativa ce lo offre il saggio, che si legge in questo libro, su un autore che trovo anch’io fra i più sottovalutati del nostro Novecento letterario, Camillo Sbarbaro. Ricordando la nota e allusiva passione catalogatoria del poeta ligure per i licheni (Montale, che lo conosceva bene, non faticava a diagnosticarvi «una forma di disperazione»), di cui finì per diventare uno dei maggiori esperti mondiali, dice per esempio Meschiari che «come la struttura del lichene è metonimica (perché i licheni si dilatano, e moltiplicano in modo progressivo le loro unità minime secondo un principio di autosomiglianza), allo stesso modo la scrittura procede per dilatazioni dello sguardo, montando catene sintagmatiche di immagini in cui presenza e assenza si allargano, si propagano a vastità insospettate, ma restano sempre attaccate, come licheni, al dettaglio minimo, a un irrinunciabile sostrato piccolo e rassicurante». È un’osservazione suggestiva non solo e non tanto nel merito, quanto appunto nel metodo: un esempio di «isomorfismo», come lo chiama Meschiari, «tra paesaggio verbale, realtà geografica e struttura dei saperi», osservabile appunto in quelli che lui chiama, come detto con Calvino (altro scrittore-botanico, se non altro per lignée genealogica, come Manzoni e poi Gadda nel prosieguo del libro), «testi-paesaggio».
Ma si sarà notato come, nella descrizione della scrittura di Sbarbaro, Meschiari adotti immagini processuali, dinamiche, non a caso affidate ai verbi (le dilatazioni dello sguardo che montano catene sintagmatiche, presenza e assenza che si allargano, la scrittura che infatti procede). Per questo preferirei – e, senza rifletterci troppo devo dire, in passato ho preferito – parlare, anziché di isomorfismo (formula che mi pare istradi più verso una percezione del dato, che del processo), di isotropismo: concetto questo che mutuo dalla mai troppo lodata Geografia di Franco Farinelli (uno dei libri più nutritivi prodotti dalla critica italiana negli ultimi decenni). Mi permetto questo minimo appunto lessicale in quanto è proprio Meschiari che ci offre, nel resto del libro, una messe di esempi di lettura quanto mai brillanti che vanno proprio in questa direzione.
È il caso della geo-filologia (azzardo a mia volta il conio di una sotto-disciplina, come spesso Meschiari si diverte a fare) cui vengono sottoposti i testi di Biamonti; ma si pensi poi, per fare l’esempio più notevole, a come venga mobilitata – per parafrasare un’ultima volta Contini – una quanto mai suggestiva funzione-Leonardo (si parla, è bene precisare, di Leonardo scrittore, non del pittore; anche se non sarà forse casuale, tale esemplarità di uno scrittore che è anche-e-soprattutto-altro: come quella del Galileo di Calvino, e già di Leopardi, o del Michelangelo, ancora una volta, di Contini): il cui «sguardo empirico», che «scompone il mondo in singoli fenomeni, in serie infinite di rapporti causa-effetto», realizza un «percorso di emancipazione naturale» che si pone come contromodello, sempre attivo e disponibile, rispetto alla spiritualizzazione romantica del paesaggio codificata da Amiel («Ogni paesaggio è uno stato d’animo»: formula di cui Meschiari ritrova l’etimo spirituale, è il caso di dire, nella grande fenomenologia paesaggistica manzoniana – con l’eccezione perturbantemente pre-gaddiana dell’episodio della vigna di Renzo nel capitolo XXXIII del romanzo, al quale Andrea Zanzotto una volta dedicò una pagina memorabile –, filtrata poi nell’«ideologia geografica» di Padre Stoppani e dei suoi tanti “nipotini”… ma che non sarebbe improprio ravvisare neppure alle radici del «correlativo oggettivo» modernista, eliotiano e montaliano; non a caso proprio a Leonardo guardava, di contro, il capofila di una tradizione diversa, quel Dino Campana al quale sempre non a caso ha dedicato una bellissima monografia, Meschiari, lo stesso anno del suo Sistemi selvaggi…).
Il Leonardo la cui «battaglia con la lingua» Calvino, in quelle Lezioni americane che le mode di oggi dileggiano, opportunamente descriveva quale «prova dell’investimento di forze che egli metteva nella scrittura come strumento conoscitivo, e del fatto che – di tutti i libri che si proponeva di scrivere – gli interessava più il processo di ricerca che il compimento di un testo da pubblicare» (mio il corsivo), è a ben vedere lo stesso Leonardo al quale Gadda ispira l’enciclopedismo geo-letterario delle Meraviglie d’Italia e degli Anni (siamo sempre al displuvio degli anni Trenta).
Questo stesso metamorfismo incessante, che in epoca romantica si ritroverà nel diversamente-romantico Goethe della Metamorfosi delle piante (al quale tanto dovettero, come si sta cominciando a mettere in luce, le avanguardie artistiche di primo Novecento – basti pensare a Paul Klee), mutatis mutandis connota pure l’ethos riflessivo, la scrittura irrefrenabile, in definitiva l’inquietudine esistenziale del nostro autore. A Matteo Meschiari dobbiamo non solo il frutto dilettevole, e l’indubbia utilità “disciplinare”, di tante pagine acute; queste le troviamo anche da altre parti. Quello che gli dobbiamo, soprattutto, è un esempio di coraggio intellettuale. E questa, invece, non è merce così comune.
Questo testo è la prefazione al nuovo libro di Matteo Meschiari Nelle terre esterne. Geografie, paesaggi, scritture, per la collana Lettere Persiane dell’editore Mucchi.
Matteo Meschiari e Andrea Cortellessa saranno fra i partecipanti alla terza edizione dell’Umbria Green Festival, in programma fra Terni e Narni da giovedì 4 a domenica 7 ottobre. Letture, spettacoli, mostre e installazioni (quelle, fra gli altri, di Abel Herrero e Giuseppe Sterparelli) si alterneranno con gli interventi di sessanta relatori fra i quali Corrado Augias, Stefano Mancuso, Valerio Rossi Albertini, Nicola Gardini, Michael Jakob, Franco Arminio, Niccolò Scaffai, Paolo D’Angelo, Mariangela Gualtieri, Tiziano Scarpa, Antonio Moresco, Beppe Sebaste, Laura Pugno e Maria Grazia Calandrone. Nella regione “verde” per antonomasia, Umbria Green Festival è un appuntamento dedicato all’ambiente seguendo una doppia prospettiva: quella dei convegni e degli incontri tecnici che coinvolgono specialisti del settore dell’energia rinnovabile e dell’impatto ambientale, e quella sociale e antropologica, che promuove e stimola il dibattito artistico e culturale per un futuro sostenibile. Senza fondamentalismi ideologici: le conferenze d’apertura, giovedì alle 18 alla Biblioteca Comunale di Terni, saranno affidate a punti di vista antitetici come quelli di Giulio Ferroni (Rimediare alla civiltà) e Gianfranco Marrone (Addio alla Natura).