Fiorucci / Love Therapy. Riflessi di un’Epoca memorabile
Per Enzo Biagi è stato l'uomo che ha distrutto la moda per costruirla a modo suo, creando un sistema inclusivo, manovrato dalla strada, mentre per Oliviero Toscani rappresentava un innovatore modello, un esemplare raro, capace di sporcarsi le mani pur di perseguire il cambiamento.
Di certo si tratta l’identikit di una persona che ha saputo sospendere il tempo per lasciare la propria impronta nella storia, diventando così anfitrione di avvenimenti memorabili, e detentore di un’epoca, la sua, l’Epoca Fiorucci, in mostra a Venezia dal 23 giugno 2018 al 6 gennaio 2019.
Elio Fiorucci, scomparso a 80 anni nel 2015, ha incarnato, prima che diventasse un hashtag e un tatuaggio scritto male, il concetto di wanderlust, il desiderio viscerale di viaggiare ed entrare in contatto con nuove culture, col fine di tradurle, plasmarle, studiarne e decodificarne gli oggetti caratteristici, per poi avvolgerli nell’aura della moda, affidandoli ai suoi clienti e alla loro reinterpretazione degli usi e degli abbinamenti. Fiorucci progetta una forma di vita tout court, non soltanto uno stile, perché è conscio del ruolo fondamentale della moda nelle dinamiche sociali, politiche e del peso ricoperto dal cambiamento dei gusti in un momento storico ricco di tensioni, in cui mettere la parola fine alla corrispondenza diretta tra marchio, abbigliamento e status risulta di fondamentale importanza.
Fiorucci è alla ricerca del punto di rottura con gli schemi della borghesia benestante a cui appartiene, una sorta di missione che lo conduce a trasformare un’attività famigliare dedita al commercio di pantofole in uno dei luoghi del consumo più avanguardisti e visionari, prima in Italia e poi nel mondo. La rivoluzione comincia da un paio di ciabatte di gomma, ornate da un fiore, vendute insieme a degli orecchini en pendant, immediatamente notati dalle due “Anne” del giornalismo di moda italiano, Riva e Piaggi, che decretano il successo dell’idea di Elio, trovatosi improvvisamente a gestire un flusso inusitato di clienti. A Fiorucci interessa divulgare un immaginario o, meglio ancora permeare i suoi spazi con un’atmosfera, cioè un’esperienza affettiva e corporea della moda, immateriale, sapientemente riprodotta dai curatori della mostra – Gabriella Belli e Aldo Colonetti, con Elisabetta Barisoni – nel salone di Ca’ Pesaro, grazie all’utilizzo di luci neon, colori fluo, grafiche cartoon, appenderie fluttuanti, degna cornice per protagonisti dell’universo tematico di Fiorucci, adeguatamente storicizzati, ma non musealizzati, perché l'acme della dinamicità non va imbrigliato nella staticità.
Le atmosfere non possono essere irregimentate sugli scaffali, devono trovare riparo in un rifugio dove sopravvivere allo scorrere inesorabile del tempo, ma con la libertà di volatilizzarsi se è necessario: per queste ragioni Fiorucci credeva nella magia degli spazi e riteneva importante creare un negozio senza soglie, un prolungamento diretto del marciapiede, del sidewalk, vale a dire il catwalk più reale e veridico, con le vetrine senza quinte per annullare il confine fra dentro e fuori. Il 31 maggio 1967 Fiorucci trasforma la Galleria Passerella, Piazza San Babila e per estensione Milano, strappando via la coltre di cachemire e visone mediante l’esposizione di oggetti volti a provocare un effetto di senso straniante, a meravigliare, solo perché, come direbbe Heidegger, si oppongono all'abituale rimanendo volutamente inconsueti, per non cadere nel baratro della banalità conosciuta, a cui non si presta più attenzione. Cosa c'è di più sorprendente dell'altro e dell'ulteriore se non una cultura lontana? La moda di Fiorucci non è più ideata a tavolino, ma gemma spontaneamente per strada, grazie alle tribù indigene e metropolitane, risiede nel Greenwich village, in Giamaica, a La Jolla, a Brixton, a Portobello road, in India, a Rio de Janeiro, sulla spiaggia di Copacabana. Non bisogna più seguire ciecamente i diktat della moda, ma vivere secondo l’imperativo del poter fare, per fingere di “esserci” autenticamente e costruire il simulacro della propria identità.
Fiorucci pratica il culto del corpo femminile con uno sguardo scevro da malizia, ma puramente estetizzante, desidera che tutti possano gioire della forma più alta di bellezza, e così decide di importare dal Brasile bikini, monokini e tanga, pubblicizzati tramite la distribuzione di poster numerati e in edizione limitata, inventando una pratica che nel millennio successivo sarebbe diventata il perno dei consumi di moda. In effetti, oltre alla ristretta disponibilità dei beni, Fiorucci è stato il precursore anche dell’idea del negozio come bacino creativo, uno spazio di socializzazione comunitaria che ritroviamo nello streetwear anni Novanta con Supreme, una versione made in USA più esclusiva e settoriale dei luoghi del consumo disseminati sul globo terraqueo dal creativo milanese. A ben vedere, sembra proprio che l’Epoca Fiorucci abbia piantato i semi germogliati in quella dei social network, la cui manifestazione più evidente si trova nei virtuosi di relazioni che nascevano all’interno dei suoi negozi, basti pensare a Keith Haring, Jean-Michel Basquiat, Andy Warhol, e alla progenitrice di tutte le influencer, in origine semplice sorella di un commesso del flagship store di New York, poi salita agli onori della cronaca come Madonna.
In effetti, nel sistema della moda contemporaneo predomina l’estetica del riassemblaggio, come testimoniano i designer-guru Virgil Abloh e Demna Gvasalia, già materializzata e applicata da Elio Fiorucci con grande umiltà, come fosse un talento innato, non appreso. Fiorucci, infatti, ha creato una matrice invariante della sua visione dell’essere alla moda, basata prevalentemente sul bricolage e sul sampling, grazie a cui mettere insieme i vari tasselli provenienti dalle ispirazioni attinte qua e là, usate per comporre una mitologia del vestire in linea con lo Zeitgeist, replicabile e riconoscibile.
Così come avviene nelle collezioni del secondo decennio del 2000 con l’alta moda e la moda da strada, Fiorucci riesce nella creolizzazione dell'immescolabile, dell'incompatibile per convenzione, dove la complessità costruisce sensi e realtà sociali nel nome dell'autenticità, determinata dalla non classificabilità in generi antecedenti. Insomma, anche se spesso si dice che Fiorucci non ha inventato nulla, bensì citato e “copiato” in modo sublime, in realtà dobbiamo riconoscergli di essere stato l’antesignano di tutto ciò che oggi etichettiamo come avanguardia pura e l’ha capito anche chi ha acquisito il suo marchio, visto il ritorno sul mercato e sui corpi delle influencer delle stampe con le teste d’angelo, uno dei suoi simboli più potenti. I due esserini riccioluti e alati sono espressione di purezza e innocenza, figure asessuate dotate di qualità sovrannaturali che sublimano l’amore come mezzo per ottenere la virtù e raggiungere l’armonia cosmica.
Gli angeli racchiudono il senso profondo dell’opera di Fiorucci, il cui atto finale è la terapia dell’amore – il marchio Love Therapy – che promuove la gentilezza per sovvertire la rozzezza dei dettami del consumo, tramite la diffusione di valori radicalmente opposti.
Fino a gennaio 2019 gli angeli e i nanetti di Love Therapy osserveranno il mondo dalle anse del Canal Grande, frutto della creatività di colui che è riuscito a vendere il jeans agli americani, ha ideato il marketing esperienziale, diffondendo nei suoi negozi profumi corrispondenti al comparto merceologico (es. bambini/borotalco), un uomo da considerare non solo come modello di imprenditoria e saper fare, ma anche in quanto figura esemplare del rispetto e della valorizzazione della diversità culturale.
E perciò oggi abbiamo un gran bisogno di imparare da lui e dalla sua Epoca.