Conversazione con Renzo Guolo / Chi sono gli Jihadisti italiani?
Renzo Guolo, sociologo dell’Università di Padova, uno dei più noti studiosi di radicalismo, ha di recente pubblicato per Guerini e associati Jihadisti d’Italia, testo che mette al centro della riflessione i processi di radicalizzazione nel nostro paese. Un lavoro che completa la ricerca sullo jihadismo europeo, e in particolare sul caso francese, avviata da Guolo in uno dei suoi precedenti volumi, L’ultima utopia.
Professore, quanti sono gli jihadisti italiani?
Innanzitutto precisiamo subito che qui per italiani intendiamo non solo quanti hanno cittadinanza italiana, per nascita o acquisizione, ma anche quanti risiedono stabilmente o hanno vissuto per un certo periodo in Italia. Una metodologia che ci consente di andare oltre la dimensione strettamente giuridica della nazionalità e che ci rivela quanto siano diffusi i processi di radicalizzazione tra cittadini e stranieri che vivono nella nostra società. I numeri si ricavano incrociando più fonti. La lista dei foreign fighters, comprende 129 elementi, dei quali meno del 20% è di nazionalità italiana dalla nascita o per acquisizione. Vi sono poi oltre 350 detenuti classificati come radicalizzati. Ai quali vanno aggiunti altri 150 circa che hanno manifestato indicatori ritenuti di potenziale adesione all'ideologia radicale. Occorre, inoltre, tenere contro delle espulsioni amministrative, più di 200 negli ultimi tre anni, che colpiscono quanti ritenuti simpatizzanti o vicini all'ambiente. Insomma, l'area radicale italiana è costituita da circa un migliaio di persone.
Numeri diversi da quelli francesi, che lei ha esaminato dettagliatamente nell'Ultima utopia.
Certo, e dipende da molti fattori. Tra i quali: una diversa presenza quantitativa di musulmani in Italia, per ovvie ragioni ideologiche e religiose target dell'arruolamento islamista radicale; una presenza recente nella società italiana, il che evita che si siano sedimentati, almeno sino a oggi, troppi antagonismi e memorie irriducibili nei confronti del paese in cui si vive; una fascia ancora ristretta, demograficamente, di giovani tra i 18 e i 30 anni, classicamente quella nella quale i processi di radicalizzazione si affermano con più intensità. Va ricordato che buona parte dei radicalizzati italiani appartengono alla prima generazione, quella nata e cresciuta all’estero. Se guardiamo solo ai foreign fighters, poco meno del 17% è nato o si è scolarizzato in Italia.
Qual è il loro livello di istruzione?
La maggior parte dei radicalizzati ha un'istruzione non elevata, solo il 12% ha un'istruzione medio-alta. Un dato che va messo in relazione con la natura dei processi migratori nel nostro paese e con le politiche di integrazione e scolarizzazione. Soggetti poco scolarizzati e scarsamente integrati alla realtà italiana, sono molto più manipolabili. Anche se va rilevato che una parte dei radicalizzati italiani ha un lavoro. Nel caso italiano, contrariamente a quello francese, in cui è prevalente il profilo del giovane di banlieue, non sono le condizioni di privazione sociale a indurre alla radicalizzazione.
Nel suo lavoro c'è molta attenzione al ruolo delle donne.
Sì, poiché rappresentano un caso particolare. Si guardi alle 10 muhajirat, le donne che hanno scelto di recarsi in Siria o Iraq aderendo allo Stato islamico o a gruppi legati a Al Qaeda: il 42% sono convertite, un dato che rivela una certa sovraesposizione di genere se si pensa che i convertiti rappresentano il 3% della popolazione totale dei fedeli musulmani in Italia. Eppure le italiane non hanno alle spalle né emarginazione sociale né precedenti penali, oltre ad avere un livello medio-alto di istruzione. Un dato che conferma come la radicalizzazione abbia a che fare con la dimensione ideologica oltre che, nello specifico caso delle donne, con la ricerca di protagonismo individuale, di rottura con l'ambiente familiare, e, in taluni casi, con la necessità di ricollocare i rapporti di genere in un quadro di rapporti dai ruoli certi tra uomo e donna.
Altro tema centrale è il carcere.
Il carcere è un luogo di radicalizzazione classico. Nel 2017 erano circa 11mila i detenuti musulmani nelle prigioni italiane e, secondo dati del 2018, 506 di essi sono sottoposti a diverse forme di osservazione speciale. Tra questi 240 sono considerati “ad alto rischio” e 112 a “rischio medio”. I rimanenti sono ritenuti a basso rischio. Insomma numeri ridotti ma in aumento. Il che ci dice che dietro le sbarre si gioca una partita importante sul terreno della diffusione, e del contrasto alla radicalizzazione.
Esiste un profilo dominante di radicalizzato nel caso italiano?
Direi di no. Tra i seguaci del jihad vi sono uomini e donne, istruiti o meno, giovanissimi e ultra quarantenni, molti vivono in comuni rurali o in aree di montagna e, in misura minore, nelle grandi città. Alcuni appartengono a classi medio-basse altri sono ai margini della società. Vi sono occupati con lavori stabili e lavori saltuari. Alcuni sono coniugati e altri no; pochi hanno precedenti esperienze di pratica o militanza religiosa, altri erano del tutto deislamizzati prima di aderire al radicalismo. Insomma, un'eterogeneità dei profili sociologici che rinvia, più che a un'ipotetica condivisione della medesima condizione, a una frammentazione sociale ricomposta dalla forza dell'ideologia.
Lei parla di "ritardo" del caso italiano: cosa intende esattamente?
Per una volta godiamo di un benefico "ritardo" rispetto a paesi come Francia, Belgio, Gran Bretagna, Germania, dove i processi di radicalizzazione sono più intensi e i numeri dei simpatizzanti o militanti jihadisti sono più alti. Perché accade? Innanzitutto, dipende dall'andamento demografico del ciclo migratorio: In Italia le classi d'età a rischio sono più ristrette. Inoltre, rispetto a altri paesi europei, vi sono contesti economici e urbanistici radicalmente diversi. Non abbiamo insediamenti come le banlieues parigine o Molenbeek in Belgio. Gli stessi foreign fighters italiani provengono prevalentemente da contesti provinciali, più che dalle metropoli, agglomerati che, generalmente, agiscono da moltiplicatori della radicalizzazione attraverso la presenza locale di reti locali di militanti, di fenomeni di emarginazione sociale ed economica. I migranti seguono il lavoro e il policentrismo produttivo, oltre che la piccola struttura tipica dell'impresa italiana, hanno contribuito alla dispersione territoriale della popolazione immigrata. Il pluralismo etnoreligioso dell'islam italiano, prodotto di fedeli che vengono da una miriade di paesi islamici, è marcato e funge da oggettiva barriera di resistenza a un'ideologia transazionale come quella radicale. Tanto è vero che, sopratutto tra le seconde generazioni, si aderisce al radicalismo in solitudine o in piccoli reti corte di amici e parenti. Ma questi fattori ritardanti stanno venendo meno. Le seconde generazioni si affacciano nella scena italiana in numero significativo, e diverse comunità etnonazionali sono sottoposte a processi di secolarizzazione e, nel corso del tempo, diventano permeabili a influenze culturali, religiose, politiche, diverse ma anche a quelle radicalizzanti. Inoltre il crescente peso di forze politiche che fanno della xenofobia e dell'islamofobia un tratto rilevante del loro discorso pubblico esaspera le tensioni e può favorire il riferimento all'islam radicale come ideologia antagonista.
Che fare per evitare che il ritardo sia colmato?
Oltre che la prevenzione sul terreno della sicurezza, è fondamentale la prevenzione culturale. Il contrasto alla radicalizzazione si fa, anche e soprattutto, sul campo della "battaglia delle idee". Integrazione sociale e coinvolgimento dell'associazionismo musulmano ostile a posizioni radicali, oltre che riconoscimento del pieno esercizio della libertà religiosa, sono tasselli essenziali per arginare un fenomeno che, certo, non dipende solo da quanto accade nella società italiana ma che da essa può trarre linfa.
Vi è stata una certa efficacia delle reti di sicurezza nel nostro paese.
Certamente forze di polizia e intelligence hanno affinato la conoscenza del fenomeno e incrementato la loro capacità d'azione. Il numero, sin qui relativamente esiguo di radicalizzati, ha facilitato.
Quanti, tra i foreign fighters italiani, sono morti in battaglia o sono ritornati?
Il 33% è morto in Siria, il 20% è tornato in Europa, il 9% è rientrato in Italia. Naturalmente, come dimostrano inchieste e procedimenti giudiziari, non tutti i radicalizzati italiani sono foreign fighters.
Non crede che la destrutturazione dell’ISIS nel contesto siriano abbia ridimensionato il pericolo della radicalizzazione in Europa?
Nonostante la fine della dimensione statuale dell'Isis il fenomeno jihadista non è destinato ad esaurirsi presto. Esisteva prima della guerra siriana e continuerà dopo, sotto diverse forme e sigle. anche dopo la caduta di Raqqa e Mosul. Certo, ha subito una sconfitta dura, Ma il suo ciclo ideologico è ancora lontano dall'esaurirsi e il suo appeal, soprattutto tra i giovani, anche quelli che vivono in Occidente, è ancora rilevante. Occorre poi ricordare che Al Qaeda ha sempre sostenuto che non erano maturi i tempi né per la fondazione di uno stato islamico né per la proclamazione del Califfato. Da questo punto di vista il filone qaedista dello jihadismo esce con meno danni dalle vicende siro-irachene.