Una conversazione con Marco Belpoliti / Perché studiare Primo Levi?
Aspettando il Salone Internazionale del Libro di Torino, la lectio di Marco Belpoliti Il poliedro Primo Levi, con i disegni live di Pietro Scarnera, lunedì 15, ore 18 (nell’ambito di Torino che Legge) all’Aula Magna della Cavallerizza Reale, patrocinata dall’Università di Torino. In occasione del centenario della nascita di Primo Levi, l’autore di Primo Levi di fronte e di profilo (Guanda) e curatore della nuova edizione delle Opere complete (Einaudi) ripercorre la vita e le opere dello scrittore torinese, testimone per eccellenza dello sterminio ebraico e poliedro dalle tante facce: da quella di narratore a quelle di poeta, traduttore, chimico, artista, antropologo, linguista, etologo.
Marco Belpoliti ha frequentato i libri, i manoscritti, gli appunti e le lettere di Primo Levi più di ogni altro lettore in Italia. Lo ha fatto sempre con la passione dell'uomo che ama la letteratura contemporanea, la scrittura, il modo con cui le parole sulla pagina ci dicono qualcosa, ci rincorrono ma, anche, si susseguono e si intrecciano tra loro, con risonanze e sequenze ritmiche, ridondanze e silenzi, cadute nell'ombra e scivolate decise dentro squarci di luce. Nel testo di Levi, proprio per passione, ha oltrepassato la lettura critica e filologica, entrando nel tessuto (nello scheletro e nella polpa) delle storie, dei racconti, delle poesie e della vita di colui che, ormai in Europa, più che in Italia, è considerato non solo il più lucido testimone dello sterminio degli ebrei, ma anche uno dei maggiori scrittori del secondo '900.
Con Marco ci siamo conosciuti da ragazzi, ai tempi in cui a Reggio Emilia, insieme a Willer Barbieri eravamo partecipi di Elitropia, una piccola e seria casa editrice nella quale abbiamo dato corpo a un lavoro editoriale che sentivamo appartenerci, pubblicando anche i nostri primi lavori. E la cifra umana di Marco è sempre stata il perno su cui ha svolto i suoi lavori d’indagine e ricerca sulle scritture degli altri e sulla propria.
Il Levi che dopo quasi trent'anni di lavoro, tra le molte difficoltà e i tanti ostacoli, ci consegna oggi, nei suoi libri, con la cura dei tre volumi delle Opere complete (Einaudi 2016 e 2017) e nei suoi lavori culminati in Primo Levi di fronte e di profilo (Guanda 2015), è certamente diverso da come fu presentato dalla critica e dai media fino al giorno della sua morte. L'uomo, il testimone, lo scrittore, il poeta: ma non solo. Primo Levi grazie al suo lavoro è oggi per noi anche un «segnalatore d'incendio», per riprendere la definizione usata da Enzo Traverso a caratterizzare alcuni intellettuali ebrei del '900 esuli dalla loro lingua, dalle tradizioni dei padri ma, soprattutto, da un mondo che non ha voluto ascoltarli (Günter Anders, Paul Celan, Theodor Adorno); «uniti da una trama di affinità umane e intellettuali» rimasta ancora sepolta nell'ombra della post-modernità.
Questa sua rilettura dell'esperienza quotidiana di prossimità e contatto con il testo Levi ci restituisce con chiarezza la misura di un modo di fare la critica oggi. Insieme dentro la tradizione colta della storia della letteratura e dei grandi maestri (da Contini a Maria Corti) e lontano da quel lavorio a volte impantanato tra le varianti del testo che lo stesso Levi probabilmente non volle per le sue pagine. Così quando raccoglie nelle note essenziali ai testi, informazioni e varianti, lo fa essenzialmente per restituirci il corso, spesso interrotto, dei pensieri e dei progetti di scrittura di Primo Levi, quasi che tutto, proprio tutto, fosse già rinchiuso in quel primo manoscritto che diventerà Se questo è un uomo. Da lì si parte e poi si cammina insieme a Levi per arrivare a I sommersi e i salvati: dentro a un cerchio (chiuso tragicamente da Primo Levi) che per noi oggi è aperto al mondo e alla sua decifrazione complessa e difficile.
Trovo anche per questo importanti le parole di questa breve intervista, una sorta di punto fermo, per riprendere il lavoro su un testo, quello di Primo Levi, che ci potrà suggerire mille strade ancora da seguire, per leggere il domani a partire dalla nostra fragile umanità. L’intervista qui di seguito è stata pubblicata in una rivista francese.
Quando hai cominciato a lavorare sugli scritti di Primo Levi e perché? La prima edizione delle opere di Levi curata da te, per conto della casa editrice Einaudi, risale al 1997, a dieci anni dalla morte di Primo Levi. Dello stesso anno è il numero monografico della rivista «Riga» n.13 (ed. Marcos y Marcos), dedicata a Levi. Inoltre puoi spiegarci perché la casa editrice Einaudi decide di affidarti la cura di una nuova edizione delle Opere, visto che, nella collana della Biblioteca dell'Orsa, diretta da Paolo Fossati, aveva già raccolto gran parte degli scritti di Primo Levi, solo dieci anni prima, a partire dal 1987?
L’idea di affidarmi il lavoro di curatela è venuto a Paolo Fossati che aveva accolto in Einaudi il mio libro L’occhio di Calvino. Andavo ogni tanto in casa editrice e parlavo con Fossati della ricerca che stavo conducendo sugli scritti sparsi di Levi, mai raccolti nelle opere precedenti, compresi alcuni racconti sparsi, e soprattutto sulla sua importanza come scrittore, così poco considerato dalla critica letteraria italiana. Fossati mi ha portato da Ernesto Ferrero, che già conoscevo, perché parecchi anni prima, quando avevo cominciato a pubblicare, aveva letto alcune mie cose e mi aveva chiamato alle Edizioni di Comunità dove lavorava. Ferrero era stato l’editor di Levi negli ultimi anni, o almeno la persona che lo seguiva con altri in Einaudi. Dopo un paio d’incontri con lui, Ferrero mi ha proposto di portare avanti il lavoro come curatore da solo, lui mi avrebbe seguito come editor, ma in realtà ha fatto molto di più. Fossati pensava che io fossi la persona giusta per quel lavoro perché affrontavo Levi come scrittore, e non più, o non solo, come testimone. Il lavoro che ho fatto è stato in questa direzione. Con una battuta una volta mi ha detto: Non sei ebreo e abiti a più di cento chilometri da Torino. Voleva dire che non avevo pregiudizi nel valutare Levi come scrittore, che non ero legato al suo ebraismo e neppure all’ambiente torinese o piemontese. Nei due decenni successivi Levi è passato da essere considerato un testimone e uno scrittore memorialista, di ascendenze ebraiche e torinesi, a essere un grande scrittore tout court. Credo che quel lavoro sia servito. Non solo quello. Come ti ricorderai, dato che a “Riga” dedicato a Levi hai collaborato anche tu, era maturata in una generazione di scrittori e studiosi nata negli anni Cinquanta e Sessanta una diversa considerazione del suo ruolo di scrittore. Io ho solamente dato voce a quel cambio di stagione.
Sappiamo che è assai difficile accedere a tutti i materiali d'archivio riguardanti gli scritti di Primo Levi. In particolare, non sono disponibili le diverse stesure dei libri pubblicati da Levi in vita, ma anche le lettere a vari interlocutori e amici sono di difficile reperimento, gli appunti... Come hai lavorato per costruire un apparato critico ai singoli scritti? Quali archivi hai consultato? E quali archivi ti è stato impossibile consultare? E ancora, quali sono i limiti, secondo te, del tuo apparato critico?
In effetti le carte di Levi non sono accessibili. Restano a casa sua, nel suo archivio. Le ha la famiglia. Io ho lavorato attraverso l’aiuto degli amici di Levi. Per esempio Bianca Guidetti Serra aveva un dattiloscritto della prima stesura completa del capitolo “La zona grigia” di I sommersi e i salvati e me l’ha dato. Altri amici mi hanno fornito carte e lettere, mi hanno indicato dove cercare in archivi privati e pubblici. Non era mai stato fatto e così ho trovato varie cose. Poi i due biografi di Levi, Angier e Thomson, stavano lavorando alle loro monumentali biografie. Ho chiesto a loro, dando quello che avevo trovato io e ricevendo in cambio carte da loro. In particolare Thomson mi ha mandato via fax una delle prime stesure di Se questo è un uomo inviata da Levi alla cugina Anna Foa Jona in America, perché la pubblicasse. Non era completa, ma è stato importantissimo avere in mano un testo così, da cui si capiva come Levi lavorava. Poi c’era l’Archivio Einaudi, su cui avevo lavorato per scrivere un libro, che è uscito negli anni seguenti Settanta. Non era ancora organizzato bene come oggi, ma l’ho spulciato per settimane e settimane e qualcosa è saltato fuori. Non c’erano ancora disponibili i dattiloscritti dei suoi primi libri, che ho visto solo dopo il 2000 per l’edizione uscita nel 2016 delle Opere complete. In particolare non avevo avuto la versione 1958 di Se questo è un uomo, vista solo da poco e usata per le nuove note. Giovanni Tesio aveva, e credo ancora abbia, la stesura manoscritta di La tregua. Non mi ha concesso di consultarla, ma un paio di cose me le ha fatte vedere. Aveva poi pubblicato su “La Stampa” un indice di quel manoscritto e da lì sono risalito ad altre cose. Poi c’era un suo articolo poco conosciuto sul confronto tra edizione 1947 e edizione 1958 del primo libro di Levi, con la visione di un quaderno dove lo scrittore aveva appuntato varianti usate e non usate, che Levi gli aveva prestato. Ho fatto un lavoro da detective, in cui forse sono più versato, rispetto a quello di filologo. Ho fatto infatti studi di filosofia e di semiotica con Umberto Eco, con cui mi sono laureato; forse ho imparato proprio da lui il metodo della abduzione che è più efficace di deduzione e induzione. Insomma, mi sono arrangiato con quello che avevo. Posso solo dire che è stato divertente, come una caccia al tesoro. Mi ha aiutato Alberto Cavaglion che aveva varie cose anche lui e poi tesi di giovani studiose italiane e straniere che mi hanno indicato altri sentieri da percorrere. Difetti di questo lavoro? Mancano i manoscritti, ma credo nonostante tutto, anche grazie a chi mi ha preceduto, Cavaglion, Tesio e altri, di aver indicato il metodo di lavoro di Levi. Certo ci sarà molto da rivedere quando e se le carte usciranno, ma si tratterà di datare le varie opere e le parti, si riempiranno le caselle. Certo io per formazione e convinzione non sono un fanatico degli scartafacci e nel caso di Levi la filologia rischia di ucciderlo: resta sempre un testimone per quanto un grande scrittore e non si può dimenticare Auschwitz nel fare filologia.
Quali sono le differenze più rilevanti tra le Opere che hai curato per la casa editrice Einaudi del 1997 e le Opere Complete di Levi del 2017/18? Tra l'altro, hai inserito alcuni nuovi materiali nel numero 38/2017 (ed. Marcos y Marcos) della rivista «Riga», che sembra a prima vista una ristampa del numero 13, dedicata a Levi, ma che solo in questo volume si possono leggere: interviste e contributi critici. Perché non li hai inseriti nelle Opere Complete?
La nuova edizione s’intitola Opere complete ed è in tre volumi. Ci sono nuove acquisizioni di scritti di Levi che sono stati reperiti da me, da altri studiosi e dal Centro Primo Levi di Torino, che nel 1997 quando ho lavorato alla prima edizione non esisteva. Poi le note alle opere le ho riscritte e arricchite. Erano trascorsi 20 anni e poi c’erano i dattiloscritti riapparsi nell’Archivio Einaudi. Altre cose comprese da me e da differenti ricercatori. Ho dato una forma migliore alle note precedenti e in alcuni casi le ho riscritte. Avevo avuto accesso all’epistolario con Hety Schimtt-Mass in Germania, importantissimo e inedito, che ho usato anche per scrivere un capitolo del mio libro Primo Levi di fronte e di profilo uscito nel 2015 da Guanda, dedicato al rapporto tra finzione e testimonianza in Levi, tema ancora da scandagliare. Per rispetto della volontà della famiglia, che mantiene sui carteggi una certa cautela, non ho affrontato ancora quel carteggio tedesco nella sua interezza, ma ti assicuro che è di grande importanza non solo per datare le opere, per capire la complessa personalità di Primo Levi. Questo sarà il tema principale del lavoro delle prossime generazioni di studiosi e biografi: un uomo straordinario per coerenza e complessità. Davvero le lettere che ho letto, che sono molte, e altre ancora che salteranno fuori, ci cambieranno la percezione della sua statura: grande testimone, grande scrittore e anche grande uomo. Il terzo volume delle Opere complete perfeziona un lavoro iniziato nel 1995 quando poi è uscito due anni dopo il volume di Primo Levi. Conversazioni e interviste: erano 300 pagine, oggi sono oltre 1000 pagine di interviste. Le avevo già raccolte allora, per la maggior parte e avevo sentito e trascritto i nastri delle sue conversazioni a radio e televisione. Ho fatto con Anna Stefi un lavoro di revisione e sbobinature di altre registrazioni. E non è ancora tutto. Nel volume ci sono molte cose, ma non tutte le interviste e altre restano ancora da trascrivere. Ma il più è fatto. In “Riga” (era previsto insieme al terzo volume delle conversazioni, ma poi uscito prima per un ritardo di Einaudi) ci sono cose che non sono entrate nel volume dell’editore torinese. Ho voluto che anche il “parlato” di Levi entrasse nelle opere, perché era un parlatore, un testimone, uno scrittore che parla del proprio lavoro. Mi rammarico solo che chi l’ha interrogato gli abbia chiesto così poco sulle sue idee sullo scrivere e su come lavorava, perché è molto interessante in un uomo, che faceva il chimico tutto il giorno, capire come scriveva, con che tecniche e con che metodi: c’è ancora poco sul suo laboratorio di scrittura. In “Riga” ho messo cose scartate dal volume Einaudi, che non volevo andassero perse. Si tratta di un volume, “Riga”, diretto per lo più agli studiosi e ai ricercatori, o ai lettori molto curiosi e attrezzati.
Quali ostacoli e quali difficoltà hai incontrato nel raccogliere e ordinare tutte le interviste (raccolte nel volume III delle Opere Complete ed. 2018) e gran parte della corrispondenza? Quale Ente o organizzazione, o quali privati, ti hanno appoggiato in questo lavoro immenso, che tuttavia tu giudichi ancora non «filologico»; aggiungendo nella tua «Avvertenza del curatore» che «Lo studio filologico delle opere di Levi è ancora di là da venire».
La difficoltà è la stessa: ho dovuto cercare le interviste in archivi e giornali, presso gli amici e gli studiosi. Ho trovato aiuto in tante persone. Poi il Centro Primo Levi di Torino (Fabio Levi, Domenico Scarpa, Cristina Zuccaro) ha fatto un ottimo lavoro bibliografico perfezionando quello che avevo fatto per il mio libro uscito da Guanda, e andando molto avanti nella ricerca di tante cose. Davvero un grande aiuto. E poi la mia Università che mi ha dato un semestre sabbatico per finire le note alle Opere complete. L’Einaudi, naturalmente, nella persona di Ernesto Franco, che ha voluto che mi rioccupassi della edizione delle opere complete di Levi; poi senza l’aiuto di Stefania Picco, Anna Farcito, Marco Bertoglio e Mauro Bersani dell’équipe della casa editrice non l’avrei conclusa. Non ho avuto borse di studio o sostegni per questo lavoro, come avviene all’estero, negli Stati Uniti ad esempio. Devo dire che il bilancio tra spese da effettuate per viaggi, permanenze, per ricerche in loco, e i compensi che ho avuto per questo lavoro non è in pari; però c’era la mia università, e poi vuoi mettere la soddisfazione di lavorare sulle opere di Levi? Credo che restino ancora da cercare interviste americane, alcune francesi e forse tedesche. Abbiamo cercato dove era possibile. Ci sono forse altri nastri d’interviste di studenti e ricercatori. Se salteranno fuori in seguito, e se sarà materiale interessante, verranno pubblicate credo. Negli anni ottanta alcune giovani ricercatrici estere hanno registrato delle belle conversazioni, poco editate, e perciò molto vive. Sono nelle Opere compete ora. Per la filologia ci sarà tempo. Non era il mio scopo. Per me viene prima la critica letteraria, di cui la filologia è uno strumento per fare buoni ragionamenti. Il pericolo su Levi, che lui aveva intuito e cercato di evitare, e forse è anche per questo che c’è una cautela a divulgare le sue carte, è che i giovani studiosi si sleghino dall’aspetto “politico” del suo lavoro e vedano solo la vasta prateria delle varianti. La mia generazione, cui appartieni anche tu, ha studiato Levi per via del contenuto politico e testimoniale del suo lavoro di scrittore e testimone. Abbiamo virato a un certo punto mettendo in luce lo scrittore, ma era il testimone che ci aveva mossi, e lì siamo tornati come generazione quando abbiamo individuato l’importanza che ha il suo ultimo libro I sommersi e i salvati: un discorso sul rapporto tra l’individuo, il singolo, e il potere. Mi auguro che i nuovi studiosi non si dimentichino di questo aspetto importantissimo. Adesso che abbiamo riscoperto lo scrittore rispetto al testimone, va portato lo scrittore nel terreno del testimone e aperta la strada ad altri discorsi: rapporto tra finzione letterarie e testimonianza, ad esempio. I tempi sono maturi per questo.
C'è anche una tua dichiarazione nell'«Avvertenza del curatore»: «Tuttavia, quando saranno disponibili gli scartafacci, le varie versioni dei testi, quando si potrà esercitare la critica delle varianti sugli originali, bisognerà tener conto che non si tratta di uno scrittore qualsiasi, ma del testimone del più terribile e scientifico genocidio del XX secolo». Puoi spiegare che cosa intendi dire? Dato che per te, Primo Levi è anche e, forse, uno dei più importanti scrittori del secondo Novecento. Come dichiara Levi Auschwitz è stata la sua università, il suo laboratorio di scrittore, senza il quale non sarebbe diventato lo scrittore che era?
Credo di avere già risposto alla tua domanda. Il pericolo lo vedo così: che diventi uno scrittore come altri, come Gadda, ad esempio in cui, per quanto utile, il lavoro sulle varianti è diventato quasi soffocante. Come si fa a leggere i suoi libri oggi accompagnati da un apparato enorme? Utile per gli studiosi e i lettori curiosi, ma inadatto a esser usato dai nostri studenti. Infatti Gadda è difficile da insegnare all’Università. Non lo capiscono più i ragazzi, per il suo linguaggio, certo, ma anche per eccesso filologico. Spetta alla critica letteraria, materia che insegno, a spiegarlo ai giovani. La critica è una mediazione, passaggio di qualcosa a qualcuno; il critico garantisce la bontà di questo passaggio, che non si alteri nulla: tutto è conservato con amore e verità. La critica degli scartafacci è diventata uno strumento per la carriera universitaria. Intendiamoci, lo era già; era una cura-Ludovico riservata agli scrittori-scrittori. Con Levi non si può, né si deve. Oggi l’Università tende a rendere gli studiosi staccati dal contesto sociale e politico. Sta diventando un giardino delle delizie (e forse anche degli orrori…). Noi abbiamo studiato Levi perché eravamo militanti, non iscritti a partiti, perché eravamo impegnati politicamente. Levi ci insegnava a non essere ideologici, a farci continue domande, sul potere, ad esempio. Adesso cosa succederà in una società depoliticizzata? Poi sono convinto di una cosa che Fossati mi aveva detto, non so con quanta veridicità: Levi stesso era preoccupato che lo studio degli scartafacci, la filologia, nuocesse alla sua opera di testimone. Credo che abbia lasciato scritto oppure detto qualcosa di preciso su questo. La ritrosia degli eredi a consegnare l’archivio credo derivi anche da questa convinzione. Non ne sono sicuro, ma con gli anni questa convinzione mi è cresciuta. C’è il pericolo che venga deprivato del suo ruolo di testimone, per diventare uno scrittore buono per le carriere accademiche.
Nel I volume delle Opere Complete, hai pubblicato la prima edizione di Se questo è un uomo, del 1947 (ed. De Silva) e la prima edizione Einaudi di Se questo è un uomo del 1958. Quanto è importante, per il lettore di Levi, conoscere le differenze tra le due edizioni e le successive riprese del testo fatte da Levi nell'edizione scolastica, nella versione radiofonica che viene pubblicata per la prima volta nelle Opere Complete, in quella teatrale (scritta insieme a Pier Alberto Marchesini)? Che cosa significa per Levi Se questo è un uomo? A me sembra che il suo primo libro pubblicato lo abbia inseguito tutta la vita. Che cosa ne pensi?
Già nel 1996 avevo proposto di pubblicare la versione 1947 di Se questo è un uomo a Einaudi, o almeno di rimetterla in circolazione in un volume a sé. Non si fece. Oggi c’è. Deve però uscire dalle Opere complete. Può circolare, credo, in un volume con doppia versione: 1947 e 1958 e un’introduzione che spieghi cosa sono i due libri, in modo essenziale e sobrio. Perché è importante, mi chiedi? Perché è un altro libro, diverso da quello seguente. Non è una questione di pagine in più, circa 30, ma di attenzione agli avvenimenti. Levi diventa sempre più scrittore man mano che passano gli anni. E la testimonianza si avvale della sua volontà di perfezionare la parte narrativa del volume. Faccio solo un esempio: Alberto diventa un personaggio narrativo in senso pieno con l’edizione del 1958. Levi amplia le parti su di lui, non solo perché nel ricordo affiorano altri dettagli; il suo libro è ora importante dal punto di vista testimoniale perché lui è uno scrittore. Si tratta di un processo che cresce col tempo e di cui Levi diviene via via sempre più consapevole. Poi quello è il libro della sua vita, quello generativo della sua personalità di testimone e scrittore. Tutto questo attende ancora una critica letteraria che lo spieghi ai lettori in modo semplice e ricco.
Nell'«Appendice alle pagine sparse» del II volume delle Opere Complete del 2017/18, hai scelto di inserire la tesi di laurea di Levi e altri scritti «professionali». Che cosa dicono in più al lettore di Levi scrittore? Ci permettono di comprendere meglio il suo stile e il suo registro di scrittura?
Probabilmente sì. Era anche una curiosità, un dettaglio importante della sua storia di scrittore e uomo, dove chimica e scrittura si intrecciano. Anche questo aspetto attende una nuova messa a punto. C’è ancora molto da dire su Levi chimico e scrittore. Ho da anni in cantiere uno studio sulla sua “forma mentis”. Chissà se la finirò. La faranno altri, probabilmente. Il testimone è passato ai giovani critici.
Negli Archivi pubblici e privati che hai potuto studiare hai trovato qualcosa di nuovo? C'è qualche carteggio che ancora non può essere pubblicato e perché?
I carteggi, come si sa, sono una cosa molto personale. Le cose dette in pubblico sono diverse da quelle dette in privato, ad amici e famigliari. Ci vuole cautela, ma vedrai che prima o poi, nei decenni a venire, le lettere usciranno. E sono straordinarie. Intanto c’è un carteggio che può essere pubblicato e su cui non ho ancora lavorato in profondità; l’ho usato con parsimonia per non dispiacere alla famiglia che non amava anticipazioni da epistolari. È quello con Hans Readt, il suo traduttore tedesco. Volevo pubblicarlo in “Riga” rifatto e ristampato, ma non ho avuto il permesso della famiglia. È una vera miniera di osservazioni che servono a leggere il suo primo libro e altro ancora. Poi quello con Hety: è formidabile. Usciranno, vedrai.
Se tu avessi potuto lavorare senza vincoli editoriali e non solo, che tipo di pubblicazione avresti voluto per Primo Levi?
Per Levi ci vuole un lavoro in progress. Ma credo che avendoci dedicato tempo ed energie per 25 anni, di essere contento così. Due edizioni delle opere nell’arco di questo tempo. Ho detto molto. Poi c’è il mio libro di 700 pagine su di lui, di cui alcune parti, le note ai diversi libri, le ho riscritte per le Opere complete ampliandole. Certo se avessi accesso all’archivio famigliare, altre cose salterebbero fuori. Ma credo di aver detto abbastanza. La vicinanza agli scritti di Primo Levi non è facile e neppure salutare: muove problemi molto difficili e a tratti persino angosciosi. Si scende all’Inferno con lui, e poi bisogna anche risalire. Ho cercato di lavorare alle sue opere nei mesi con più luce, per non restare preso dal male che lui stesso affronta.
Il 2019 è il centenario della nascita di Primo Levi. Hai in mente un tuo lavoro per celebrarlo e per diffonderne l'Opera? Nel 2015 è stato pubblicato in Italia, dall'Editore Guanda un tuo libro dal titolo: Primo Levi di fronte e di profilo. Si tratta di un libro di grande interesse dove racconti, tra l'altro, il tuo rapporto con lo scrittore, l'opera e con l'uomo Primo Levi. A mio parere è un libro importante per leggere con uno sguardo «umanistico» e non solo critico Levi. Si tratta anche di un «libro/macchina» e rileggendolo il pensiero corre a George Perec, (quello di La vita, istruzioni per l'uso). Hai in mente qualcosa d'altro?
Questo libro ha circolato in alcune migliaia di copie; oggi, mi ha detto giusto ieri l’editore, vende 100 copie al mese. Per me sarebbe giusto che uscisse un’edizione tascabile o in brossura meno costosa, per gli studenti, per chi lo usa nelle scuole, come i professori. Ho fatti dei corsi per loro. Si tratta, come dici tu citando Perec, di una enciclopedia; ho già aggiunto varie cose come un piccolo saggio sul rapporto Roth e Levi, le loro interviste; e poi ho già pubblicato altre piccole cose, come i “Levi Papers” sulle aggiunte alla edizione del 1947 di Se questo è un uomo viste dal punto di vista lessicale, riflettendo su quei foglietti che Levi ha inserito nel volume edito da De Silva e che ha dato a Einaudi sottraendolo alla moglie Lucia cui era pure dedicato – una dedica a matita del 1947, forse non aveva più copie, le aveva tutte regalate, o forse no. La vorrei pubblicare in inglese ora. La traduzione del mio libro in inglese è in via di realizzazione. Vorrei far leggere il mio lavoro nei paesi anglosassoni, dove l’opera è stata tradotta, seppure non tutta e non completa come in Opere complete, ma oggi è la lingua che tutti leggono in ogni parte del mondo. Vorrei che Levi venisse capito come uno scrittore politico. Vediamo cosa si può fare. Il centenario è una bella occasione, si vedrà meglio il lavoro fatto sin qui, lo si può diffondere.
Come ti ha cambiato, se ti ha cambiato, lo studio delle opere e degli scritti di Levi? Tu eri già uno scrittore affermato, un critico d'arte e di letteratura, un giornalista di cultura e d'opinione importante. Avvicinarti così intensamente e per tanti anni a Levi come ha trasformato il tuo modo di pensare e di scrivere?
Sono trenta anni che lo leggo e rileggo, e non finisco mai di imparare. È stato un maestro di pensiero e d’intelligenza. Il Levi che più mi piace è quello de L’altrui mestiere, il curioso, l’enciclopedico, il linguista, lo studioso di giochi, un vero eccentrico quale Primo Levi era in tutti i sensi, un outsider vero. Del resto l’amore per lui è nato da quel libro, non da Se questo è un uomo, che ho letto a scuola, alle superiori, spinto da un professore che era stato deportato come giovane soldato in Germania; allora Levi era uno scrittore antifascista, e tale è stato in un periodo complesso della storia recente del nostro paese, gli anni Settanta, attraversato dallo stragismo fascista, dalla strategia della tensione con le bombe nelle banche e sui treni. Quel libro degli anni Ottanta, il suo meno letto insieme alla antologia personale La ricerca delle radici, mi ha fatto vedere un autore sotto una luce diversa. L’altro era già entrato nel mio bagaglio culturale, poi tutto per me è cambiato con gli scritti giornalistici raccolti nel libro. Vorrei che si capissero le innumerevoli facce del poliedro Levi, uno scrittore ancora tutto da scoprire. A me ha dato molto, tanta allegria e molta curiosità, pensieri profondi sull’umano e sul nostro futuro prossimo e venturo.
Questa intervista è già apparsa, in diversa forma, in francese.