Inseguendo il fantasma dell'Austria
Nell'estate del disfacimento dell'idea di Europa per come l'avevamo immaginata, mi rifugio da settimane in ciò che fu il cuore del nostro continente prima del doppio suicidio – le due guerre mondiali – che pose fine alla modernità. Nell'estate del 2015 provo a inseguire il fantasma dell'Austria, sempre che io ne sia degno, lo spettro di due autori in particolare: Trakl e Musil.
Nelle notti umide e caldissime di una piccola stanza d'albergo al Lido di Venezia, schiaccio zanzare, sento salire la gommosa putredine dell'acqua nei canali (mi sono convinto faccia bene alla pelle, alla nostra reminiscenza di anfibi), controllo che il gatto bianco con cui spero di aver stretto amicizia si accoccoli sul vano finestra a piano terra della costruzione di fronte, poi mi rigiro nel letto e sfoglio un'altra pagina. Tra qualche minuto crollerò. Il libro che scivola sul pavimento mi risveglierà per un istante. Più spesso L'uomo senza qualità o il volumetto Garzanti con le poesie di Trakl mi ricade sul petto. Apro gli occhi senza mettere a fuoco niente. È l'ultimo cerchio del sasso scagliato in uno stagno nero, già si richiude e io precipito in un sonno di catrame fino alle sei del mattino. Al risveglio leggo un altro po', mi metto in calzoncini e vado a correre sul lungomare, faccio doccia, colazione, alle nove sono pronto a varcare la soglia nel Palazzo del cinema. Così negli ultimi due mesi.
È per me la terza estate di seguito trascorsa a guardare film dieci ore al giorno. Lavoro come selezionatore alla Mostra del Cinema di Venezia, il che significa che dalla fine di maggio sono qui insieme ai miei colleghi. Si legge nei ritagli di tempo, prima di addormentarsi, subito dopo il risveglio, o ancora tra le sette e le otto di sera, prima di vestirsi e andare a cena, sempre in albergo, o meglio approfittando dell'ora trascorsa circondati dagli oblò della lavanderia a gettoni dove andiamo una volta a settimana.
Da un lato le porte magiche di Malamocco. Sull'altro l'acciaio scintillante di Porto Marghera.
Musil è una compagnia, una sfida e una consolazione dai tempi dell'università. Trakl lo leggo di continuo dagli ultimi quattro o cinque anni. Non conosco il tedesco, allora uso l'originale come un geroglifico, la traduzione a fronte come la soluzione parziale di un problema troppo vasto, e me – i mei nervi, e quel po' di spirito che trattengono – come una malfunzionante stele di Rosetta e un sismografo (anche quello poco affidabile) nel peggiore dei casi.
Il fatto è che la Cacania di Musil, che ho sempre visto come una summa inarrivabile della nostra stupidità di specie organizzata, mi è sembrata in questi mesi sovrapponibile in maniera paurosa alla geografia interiore dell'Unione Europea man mano che il caso Grecia infiammava le pagine dei giornali, i listini di borsa, le discussioni nei bar, gettava un intero paese nel caos e altri diciotto in una farsa da cui tirarsi fuori è impossibile anche a tragedia rimandata.
Un'istituzione che celebra se stessa in modo sempre più vuoto e vanaglorioso mentre la catastrofe incombe: è questa la Cacania di Musil, così come l'Azione Parallela pretende di farsi portatrice di valori quali la pace universale e la solidarietà tra i popoli, ritrovandosi a sua insaputa tra le braccia della Prima guerra mondiale. Mentre tornavo per l'ennesima volta sulle avventure di Ulrich e Diotima, del capo sezione Tuzzi e di Gerda Fischel, di Moosbrugger internato nel manicomio criminale e – sul capo opposto – della meravigliosa Agathe, e mi inoltravo (senza capire come al solito se andassi scendendo o salendo i gradini di una scala gigantesca e invisibile) tra le prime stanze del Regno Millenario, pensavo stupefatto che a nessun continente come all'Europa è stato dato di pensare se stesso in termini così comicamente umani (cos'è, da Cervantes a Flaubert a Musil, questo lungo discorso sulla stupidità, se non una pietosa constatazione dei nostri limiti?) e insieme così vertiginosi (la messa in tensione di quegli stessi limiti fa scoccare certe volte una scintilla in grado di trascendere la scimmia alfabetizzata in cui ci rinchiudiamo, trasformandoci in dei veri mostri o, finalmente, in esseri colmi di amore e comprensione, e anche su questo la grande letteratura europea è stata in grado di non chiudere gli occhi, o forse di aprirne miracolosamente un terzo).
Se Musil concepì il suo capolavoro dopo la fine della guerra, Georg Trakl "anticipava le catastrofi mondiali". Le sue poesie anteriori al 1914 (Trakl morì suicida nel novembre di quell'anno, dopo aver partecipato alla battaglia Grodek) continuano a essere per me uno dei grandi misteri della letteratura mondiale. In apparenza semplici, hanno doppi e tripli fondi che si estendono nascosti per chilometri. A volte, leggendolo, ho la sensazione di aggirarmi in una di quelle case di Lovecraft dove, aperta la porta di una cantina, ci si ritrova dentro un mondo sotterraneo molto più vasto di quello che dovrebbe contenerlo. Solo che il mondo di Trakl è sotterraneo, cosmico e interiore al tempo stesso. Mentre canta semplicemente di villaggi, covoni di grano che riposano nei campi, cascine, mosto a fermentare all'ombra di modeste case rurali, corvi che solcano l'azzurro profondo del cielo, il risultato è che tu vedi un mostro. Non la guerra di trincea e la macelleria meccanica che Trakl all'epoca non sapeva di dover vedere coi suoi occhi, ma una sorta di equivalente mistico. Il quale contiene anche dell'altro.
Se ci pensate, l'esito è molto più grandioso – per quanto più discreto – rispetto a ciò che, pochi anni dopo, seppero fare i maestri del cinema espressionista tedesco. C'è un libro di Siegfried Kracauer (Da Caligari a Hitler) che lo racconta bene. Lang, Murnau, Wegener, Lubitsch, Wiene videro il nazismo prima che arrivasse. Solo che mentre il loro potere profetico fu giocato su equivalenti diretti – il golem, Nosferatu, Faust... mostruosità immaginarie per mostruosità reali prossime venture – in Trakl l'equivalente è rovesciato. Pace per guerra. Idillio per catastrofe. Cieli azzurri per terra insanguinata. Canti d'uccelli per silenzio finale. Con il risultato che, mentre leggi le più belle delle sue composizioni, ti sembra che quella tragedia storica che lui vede senza ancora sapere precisamente di che si tratti, sia legata a una tragedia più vasta, una malattia dello spirito (di un genius loci grande quanto un continente) e della creazione per come l'abbiamo decifrata. E, insieme alla sua ineluttabilità (Gavrilo Princip quale agente della somma degli eventi accumulati per generazioni di europei), ti lascia intravedere ciò che sarebbe il vero antidoto di questo male, la sua cura reale e irraggiungibile.
Così, nelle ultime settimane, mentre sfogliavo giornali e blateravo coi miei amici di Grecia e di Merkel e di Tsipras e di Schäuble, mentre dalla putredine dei canali del Lido veniva fuori un insetto che sollevava una minuscola goccia in cui si rifletteva una scaglia di luce subito disfatta nel niente arroventato, sentivo pure, confusamente, che sotto la paccottiglia di menzogne bassi istinti retorica e stupidità con cui affondavano le speranze di una comunità dove valesse la pena di vivere, c'era un pericolo più antico e devastante, e, poco lontano, l'antidoto che è stato dato solo a noi di immaginare, ma su cui ancora ("ed è tardi, sempre più tardi") non riusciamo ad allungare le dita.