Un libro di James Nestor / L’arte di respirare
Forse qualche anno fa un libro con un titolo asciutto come L’arte di respirare non avrebbe fatto scalpore negli USA e non sarebbe nemmeno stato tradotto in trenta lingue nel giro di tre mesi. Per mancanza di attualità, il libro del giornalista James Nestor sarebbe probabilmente rimasto un gioiello di nicchia. C’è voluta una pandemia, che ha tolto il fiato a miliardi di persone, per rendere pubblico un dato: qualcosa di così essenziale nella nostra vita come il respiro ci mancava già da prima, e da molto tempo. Già dall’età di quattro, cinque anni respiriamo in modo contratto e adrenalinico, come se stessimo lottando continuamente contro qualcosa. E se durante la pandemia chi se lo poteva permettere ha iniziato a osservare alcune delle proprie abitudini corporee, ora nella fase post-pandemica siamo di nuovo persi. Nel soggiorno riempito di piante esotiche continuiamo a fare i pendolari tra smart e non-smart-work, e abbiamo già dimenticato la pasta-madre nel frigo. Non l’abbiamo più nutrita ogni giorno e si è sciupata, l’aria non la gonfia più. E anche nei nostri polmoni ne entra poca di aria; respiriamo con solo il trenta per cento del loro potenziale. Tratteniamo il respiro senza accorgercene mentre attraversiamo strade trafficate o quando siamo immersi tra scempi architettonici. Rimaniamo con il fiato sospeso durante i 50 minuti del documentario Cow-spiracy, dopo il quale non riusciamo più a mandare giù un pezzettino di carne.
E se respirassimo così superficialmente per evitare a livello inconscio che il malvagio e il brutto possano entrare dentro di noi? A mancarci sono i respiri calmi e lunghi, dice James Nestor.
La nuova scienza per rieducare a un gesto naturale, la traduzione del titolo in italiano, pone un dilemma da cui l’originale inglese Breath: the new science of a lost art è libero. La parola ri-educazione non entra facilmente nelle nostre corde. Se il gesto è naturale, dove e quando si è incrinato, inceppato, perso? Chi ci insegna quest’arte dimenticata, e come? Ovvio, la insegneranno quelli che l’hanno conservata o perfezionata seguendo discipline antiche, di solito religiose, e nuove, di solito scientifiche. Le 300 pagine del libro di James Nestor ci accompagnano nel viaggio di esplorazione storica e geografica delle abitudini e tecniche del respiro. Nestor ci spiega la pratica millenaria dello yoga e del buddismo tibetano. Veniamo a conoscenza di studi sulle apnee notturne, i russamenti, sul danno che può provocare la sola respirazione con la bocca anziché con il naso. Quando leggiamo di esperimenti in cui per diversi anni alle scimmie veniva ostruito il naso, in modo da studiare le devastanti deformazioni fisiche e comportamentali a seguire, anche il nostro respiro si blocca. Non solo le scimmie sono empatiche, come dimostra la scoperta dei neuroni specchio, ma la reazione spontanea del nostro respiro prova che alla radice lo siamo anche noi.
Nestor descrive la respirazione “extra”, le iperventilazioni di varie scuole, inclusa quella dello psicologo cecoslovacco Stanislav Grof emigrato negli Stati Uniti (in una conversazione privata, Grof mi ha raccontato che ancora oggi non riesce a passare in aereo sopra la Russia perché questo gli provoca un attacco di panico).
Nel capitolo “meno”, è illustrato il metodo di respirazione dell’ucraino Buteyko, che sperimenta la riduzione del volume dei respiri. Si torna poi in Oriente arrivando alla respirazione tibetana del fuoco, il Tummo, a cui l’autore dedica ampio spazio. Alla fine del volume troviamo invece un elenco di esercizi da praticare che comprende anche la respirazione quadrata utilizzata dai marines nei loro addestramenti.
Chiunque allora può essere un maestro di respirazione?
L’autore segue una struttura narrativa esplicitamente giornalistica: io, individuo esperto nel mio campo, inizio a esplorare una situazione inusuale, mi imbatto in qualcosa di sconosciuto, descrivo le mie resistenze in modo umoristico e poi – sorpresa! – scopro e riscopro quello che mai avrei immaginato: quel qualcosa non solo cambia la mia vita, ma suscita in me l’irreprimibile desiderio di condividerlo con il resto del mondo. Il lettore di un’altra lingua e cultura rimane un po’ distante; e forse a questa raffica di avventure raccontate avrebbe preferito un saggio o una vera e propria pubblicazione scientifica. Ma il libro di James Nestor, con uno stile di scrittura da moschettiere, pronto a salvarci dalle brutte abitudini di respiro consigliandoci app e siti gratuiti, vuole entusiasmare. E la copertina dell’edizione italiana, con i piccoli cerchi colorati che alludono a un polmone sereno, farà sì che il libro resista prima di essere chiuso definitivamente e subire il gesto definitivo di un'altra arte, questa volta giapponese: l’arte del riordino. L’autore ha sicuramente scoperto un nervo.
Ha re-inventato l’acqua calda, anzi ha re-inventato la pentola a pressione. I riferimenti scientifici e antropologici sono variati e documentati, viene priorizzata una visione rigorosamente legata a una concezione di causa effetto, anche quando è evidente che una pratica di respirazione emerge da un contesto culturale, sociologico e religioso molto specifico: “Non c’è niente di religioso nella respirazione del Tummo, serviva solo agli eremiti per scaldarsi nei loro rifugi nell’Himalaya”. Allo stesso modo ci si limita a un approccio cognitivo comportamentale quando si parla di fenomeni psichici: per esempio il rifermento alle ricerche di Feinstein sull’ansia, che avrebbe origine nei circuiti somatici e diventerebbe solo di conseguenza un fenomeno psichico. Così mancano le descrizioni delle infinite tecniche di respirazione legate all’immaginazione.
Facciamo pure una lunga digressione. Esiste una tecnica di respirazione nel buddismo tibetano che non sembra avere similitudini in altre culture: si chiama meditazione Tonglen e viene praticata esclusivamente da monaci arrivati a un certo livello di pratica spirituale. Il Tonglen si pone in forte contraddizione con la concezione convenzionale di esercizio di respirazione, non solo nel modo in cui viene eseguito, ma soprattutto in termini di obiettivi. Non è casuale che questa pratica sia rimasta relativamente sconosciuta in Occidente perché non riguarda la salute e il benessere personali. Tong-Len significa: inviare e ricevere. “Tong: inviare, lasciare andare. Len: ricevere, accettare”. L'inalazione e l'espirazione sono associate a determinate nozioni. Quando si inspira si è invitati a immaginare tutto ciò che consideriamo negativo, meschinità, sentimenti di invidia e odio, paure. Quando si espira, si immagina invece tutto ciò che è bello, armonico e curativo, per esempio, un gesto affettuoso o anche solo una barretta di cioccolato. Così a ogni respiro si alternano sentimenti e ricordi sia problematici sia positivi. Passare entro pochi secondi da uno stato emotivo al suo opposto richiede una grande concentrazione, flessibilità e solidità psichica. Ora potreste pensare che, descrivendo il modo di respirare, abbia confuso le cose, dal momento che il vostro insegnante di yoga avrà sempre affermato il contrario: “Espirate tensioni e preoccupazioni, permettete alla luce e ai poteri curativi dell'universo di entrare in voi con il respiro”. Ma in realtà non è così. Il Tonglen non mira al raggiungimento di qualcosa di "benefico" o "che faccia bene". La metafora non è un processo fisiologico di crescita, ma piuttosto un’opus contra naturam. Scrive Trungpa Rinpoche:
“In Tonglen aspiriamo ad affrontare la sofferenza di altri esseri senzienti. Lo intendiamo letteralmente: siamo disposti ad assumercela. In quanto tale, può avere effetti reali, sia sul praticante stesso che sugli altri. C'è una storia su un grande insegnante Kadampa che praticava Tonglen e che ha preso letteralmente il dolore altrui su se stesso: quando qualcuno ha lapidato un cane davanti a casa sua, l'insegnante stesso è rimasto ferito.”
Consideriamo cosa accade psichicamente quando pratichiamo il Tonglen. Prima di inspirare, dobbiamo cercare di determinare cosa consideriamo cattivo e cosa buono. Pertanto, stiamo affilando la nostra coscienza etica ed estetica. Ma questo non significa spazzare via i nostri rifiuti psichici; al contrario, impariamo a riconoscere tutto quello che preferiremmo dimenticare. A livello neurofisiologico l'effetto di un simile esercizio può essere enorme: le tracce di memoria negativa vengono continuamente attivate, poi contrastate da quelle positive. Per ore intere, un respiro dopo l'altro. Nella vita quotidiana, queste polarità non sono mai stimolate in così rapida successione. Nella pratica del Tonglen il nostro respiro le pone vicine, ma differenziate, e ci allena a essere presenti sia nell’una che nell’altra, che diventano in tal modo veicolo di consapevolezza.
Il Tonglen è un'alternanza ritmica: entrambi i lati appaiono come due aspetti dello stesso fenomeno. Inoltre la pratica del Tonglen porta a un confronto con una dimensione collettiva. Solitamente è una meditazione di gruppo e i monaci si concentrano sui grandi temi dell’umanità: guerra, ingiustizie, violenza, inquinamento ambientale e tutte le indicibili sofferenze di uomini e animali. Poi alternano immagini di bellezza, abbondanza, amore e armonia.
È evidente che il Tonglen non arriverà mai negli studi di fitness, yoga o centri benessere (fisico o psichico), perché siamo abituati a un obiettivo di benessere individuale.
Il libro di Nestor sicuramente ci aiuta a esplorare il fenomeno del respiro tra il gesto naturale e un’arte sofisticata. Forse troveremo un nostro modo di respirare più consono leggendo come respirano persone in altre culture e ambienti. Tuttavia il corpo umano vivo non corrisponde alle descrizioni anatomiche della modernità occidentale e lo studio del respiro non si esaurisce in una tecnica di miglioramento del proprio benessere. Sarebbe l’ennesima riduzione di un’espressione culturale complessa a nozione utilitaristica.
Verso la fine del libro Nestor ci svela la sua scoperta del respiro ideale: 5,5 secondi di ispirazione e 5,5 di espirazione. Ci consiglia persino una app gratuita per monitorarlo. Ma come fa a sapere che il nostro obiettivo è imparare il respiro ideale? E se invece volessimo solo conoscerlo con la curiosità di chi scopre un mistero: come quello della nostra calligrafia, che possiamo di certo migliorare, ma non rendere ideale?