Poesia del lavoro: What Work Is
Pubblichiamo un estratto dalla rivista Il Semicerchio. Rivista di Poesia comparata. XLDIII/XLIX (2013/1-2) - Pacini editore.
Upon Banker’s Hill the party’s going strong
Down here below we’re shackled and drawn…
(Bruce Springsteen)
«Quando dico lavoro», scrive Philip Levine, «intendo quel genere brutale di lavoro fisico che molti di noi cercano di evitare, ma che coloro che non hanno doti particolari o una formazione professionale sono spesso costretti ad accettare per guadagnarsi da vivere in una società spietata e competitiva come la nostra». Levine, poeta laureato della Library of Congress nel 2011-12, conosce direttamente il lavoro duro della fabbrica, della Chevrolet Gear e della Axle Factory nella Detroit industriale dove è nato nel 1928. Vicende familiari lo portarono, ancora adolescente, ad alternare la scuola alla catena di montaggio negli anni della Grande Depressione, un’esperienza a cui la sua poesia è rimasta fedele tornando, anche a distanza di tempo, a raccontare il mondo operaio e a prendere posizioni radicali a favore dei meno privilegiati. Il suo celebre volume del 1991, What Work Is, è un testo di riferimento in ogni trattazione del tema del lavoro nella poesia contemporanea, un vero manuale sulla vita e sulla psiche di alcune figure di lavoratori verso cui la voce narrante ci conduce rendendoci partecipi della loro storia. In Fear and Fame, la poesia che apre il libro, si inscena la katàbasis dell’operaio che nel turno di notte discende nel «kingdom of fire», ovvero nelle vasche dove con acidi tossici ripulisce i laminati a caldo: «I would descend / step by step into the dim world/ of the pickling tank and there prepare / the new solutions from the great carboys / of acids lowered to me on ropes – all from a recipe / I shared with nobody…». Questo Orfeo metalmeccanico dai polmoni distrutti dai veleni che respira racconta il rito di vestitura che prepara la sua discesa – pantaloni da lavoro, stivali, guanti ed elmetto di plastica – come fosse un cavaliere medievale: «Half an hour to dress, wide rubber hip boots, / gauntlets to the elbow, a plastic helmet / like a knight’s but with a little glass window / that kept steaming over, and a respirator / to save my smoke-stained lungs». Dopo, «step by step», torna a rivedere le «ordinary blinking lights» senza espiazione né fama, senza nessuno a ricevere il suo messaggio dagli inferi. Porta con sé soltanto un’amarezza che cerca di lavare via bevendo acqua dal rubinetto. Tre sigarette, un panino e poi tutto ricomincia da capo: si alza e indossa di nuovo «the costume / of my trade for the second time that night…».
Altrove nel libro di Levine un padre s’immedesima nel figlio pompiere al lavoro in un incendio, oppure ci viene chiesto, riprendendo note parole di Primo Levi, se l’operaia in Coming Close, da oltre tre ore in piedi davanti a una macchina, può essere considerata una donna: «Is she a woman? Consider the arms as they press / the long brass tube against the buffer […] Consider the fine dusting of dark down / above the upper lip, and the beads / of sweat that run from under the red / kerchief across the brow and are wiped / away with a blackening wrist band / in one odd motion a child must make to say No! No!». Il narrante invita ad avvicinarsi a questa sorta di fotogramma costruito per noi, abbandonare giacca e cravatta per una tuta nera e, turno dopo turno, cinque notti a settimana, ripetere i gesti automatici dell’operaia. La quale, infine, posa la mano sporca sulla camicia bianca del lettore, ora che le parole di Levine hanno messo l’una davanti all’altro, per imprimere il suo marchio di ‘condannata’ all’inferno della catena di montaggio, «to mark / you for your own, now and forever». In Every Blessed Day la voce del poeta si sovrappone a quella di un operaio delle fabbriche di auto di Detroit per ripercorrere nella notte il viaggio verso il posto di lavoro, su un autobus dove non si sa chi va e chi torna, ma dove tutti hanno «hunger / for a different life, a lost life». In un’altra poesia Levine stesso ricorda quando a quattordici anni lavorava in una fabbrica di saponi mentre, nella poesia che titola il libro, entra nei pensieri di un disoccupato in fila per un posto.
Il tema del lavoro attraversa tutta la poesia americana, antropologicamente connesso alla nascita e alla storia degli Stati Uniti. Quando nel 1621 i Padri Pellegrini del Mayflower celebrarono il primo Thanksgiving, resero grazie alla fatica della coltivazione della terra che aveva dato loro i frutti per la sopravvivenza. Sia nella tradizione anglo-americana che in quella afroamericana è possibile rintracciare gli sviluppi di questo tema che continua ad avere un ruolo centrale in tutta l’età coloniale risuonando, con prospettive, timbri e sfumature diversi, nei sofferti work song degli schiavi neri come nella più classica ed eurocentrica poesia del New England. L’esaltazione e la celebrazione del lavoro manuale nella letteratura americana degli esordi raggiunge nell’Ottocento con Walt Whitman gli esiti più alti. Testi come I Hear America Singing sono inni all’operosità e a quel vitalismo che nella sua visione facevano grande gli Stati Uniti e scandivano il tempo nell’immenso spazio americano. Ma se l’America di Whitman canta al ritmo dell’opera del carpentiere e del meccanico, del muratore e del marinaio, dell’artigiano e del boscaiolo, della sarta e della lavandaia, la poesia del Novecento ha via via smorzato questo coro di fervori ed entusiasmi presentando il lato oscuro e il declino del continente – dalle inquiete campagne di Robert Frost alle poesie di protesta degli afroamericani, dai versi nati nelle fabbriche di Detroit fino all’attuale denuncia delle lunghe file di disoccupati vittime della crisi economica del XXI secolo.
Abbiamo chiesto a tre poeti contemporanei, il cui prestigio è legato anche ai loro versi engagé, di contribuire al tema di questo numero. In The Sanctity, uomini al lavoro nella moderna costruzione di un edificio ricordano al narratore di C.K. Williams, Premio Pulitzer nel 1999, il tempo in cui anche lui faceva lavori simili cercando di capire come riconciliare il lato dolce e la rabbia dei suoi più anziani colleghi. Per Yusef Komunyakaa, Premio Pulitzer 1996, il lavoro è uno dei temi su cui si regge la sua scrittura – il lavoro manuale e fisico degli afroamericani e delle categorie subalterne osservate da bambino nella sua città d’origine, Bougalusa, vicino a New Orleans, economicamente dominata dall’industria del legno e della carta. In quell’ambiente esotico e torrido, carico di tensioni, irrompe il suono delle sirene delle segherie, si profilano le sagome delle macchine e delle seghe elettriche e matura la rabbia dei moderni schiavi. Pubblichiamo una sua poesia inedita, Ironwork, e la prefazione a un’antologia sul lavoro del carpentiere, Honor Thy Hands: Carpentry and Poetry, che Komunyakaa sta curando per la rivista The American Reader. Infine, dal volume Place (2012) di Jorie Graham, uscito in Italia per Mondadori col titolo Il posto (2014), presentiamo Employment, una poesia sulla disoccupazione e la ricerca di lavoro all’epoca degli Edge Funds. Nell’ottobre del 2011 l’autrice ha inviato questa poesia a Occupy Wall Street nella terza settimana d’occupazione, contribuendo in questa forma alla protesta e all’antologia che da lì a poco sarebbe nata, The Occupy Wall Street Poetry Anthology, che tuttora continua a vivere online. Accostiamo questo testo a What Work Is di Philip Levine, il quale, una ventina di anni prima, aveva ugualmente ritratto le lunghe fila di disoccupati davanti agli sportelli di un ufficio di collocazione.
C.K. WILLIAMS
The Sanctity
for Nick and Arlene de Credico
The men working on the building going up here have got these great,
little motorized wheelbarrows that’re supposed to be for lugging bricks and mortar
but that they seem to spend most of their time barrel-assing up the street in,
racing each other or trying to con the local secretaries into taking rides in the bucket.
I used to work on jobs like that and now when I pass by the skeleton of the girders
and the tangled heaps of translucent brick wrappings, I remember the guys I was with then
and how hard they were to know. Some of them would be so good to be with at work,
slamming things around, playing practical jokes, laughing all the time, but they could be miserable,
touchy and sullen, always ready to imagine an insult or get into a fight anywhere else.
If something went wrong, if a compressor blew or a truck backed over somebody,
they’d be the first ones to risk their lives dragging you out
but later you’d see them and they’d be drunk, looking for trouble, almost murderous,
and it would be frightening trying to figure out which person they really were.
Once I went home to dinner with a carpenter who’d taken me under his wing
and was keeping everyone off my back while he helped me. He was beautiful but at his house, he sulked.
After dinner, he and the kids and I were watching television while his wife washed the dishes
and his mother, who lived with them, sat at the table holding a big cantaloupe in her lap,
fondling it and staring at it with the kind of intensity people usually only look into fires with.
The wife kept trying to take it away from her but the old lady squawked
and my friend said, “Leave her alone, will you?” “But she’s doing it on purpose,” the wife said.
I was watching. The mother put both her hands on it then, with her thumbs spread,
as though the melon were a head and her thumbs were covering the eyes and she was aiming it like a gun or a camera.
Suddenly the wife muttered, “You bitch!” ran over to the bookshelf, took a book down – A History of Revolutions – rattled through the pages and triumphantly handed it to her husband.
A photograph: someone who’s been garroted and the executioner, standing behind him in a business hat,
has his thumbs just like that over the person’s eyes, straightening the head,
so that you thought the thumbs were going to move away because they were only pointing
the person at something they wanted him to see and the one with the hands was going to say,
“Look!
Right there!”
“I told you,” the wife said. “I swear to god she’s trying to drive me crazy.”
I didn’t know what it all meant but my friend went wild, started breaking things, I went home
and when I saw him the next morning at breakfast he acted as though nothing had happened.
We used to eat at the Westfield truck stop, but I remember Fritz’s, The Victory, The Eagle,
and I think I’ve never had as much contentment as I did then, before work, the light just up,
everyone sipping their coffee out of the heavy white cups and teasing the middle-aged waitresses
who always acted vaguely in love with whoever was on jobs around there right then
besides the regular farmers on their way back from the markets and the long-haul truckers.
Listen: sometimes when you go to speak about life it’s as though your mouth’s full of nails
but other times it’s so easy that it’s ridiculous to even bother.
The eggs and the toast could fly out of the plates and it wouldn’t matter
and the bubbles in the level could blow sky-high and it still wouldn’t.
Listen to the back-hoes gearing up and the shouts and somebody cracking his sledge into the mortar pan.
Listen again. He’ll do it all day if you want him to. Listen again.
(from With Ignorance, 1977)
Sacralità
a Nick e Arlene de Credito
Gli uomini al lavoro che qui tirano su quell’edificio hanno queste fantastiche
carrioline a motore fatte apposta per trasportare mattoni e calcina
ma sembra che il tempo per lo più lo passino a scapicollarsi giù per la strada,
a rincorrersi o cercare di convincere le segretarie del posto a fare un giro nel cassone.
Lavori così li ho fatti anch’io e ora quando passo dallo scheletro di travi
e dai cumuli aggrovigliati degli imballaggi trasparenti di mattoni, mi tornano a mente i tizi con me allora
e com’era difficile conoscerli. Con alcuni di loro era bello lavorare,
sbattere in giro le cose, scherzare, ridere tutto il giorno, ma potevano essere sgradevoli,
irascibili e risentiti, sempre pronti a immaginare un insulto o fare a botte in qualsiasi altra parte.
Se qualcosa andava storto, se scoppiava un compressore o un camion rinculava su qualcuno
erano i primi a rischiare la vita per tirarti fuori
ma poi li vedevi e erano sbronzi, in cerca di guai, feroci quasi,
e sarebbe stato terrificante tentare di capire chi fossero davvero.
Una volta sono andato a cena da un carpentiere che m’aveva preso sotto l’ala
e mi lasciavano tutti in pace mentre mi aiutava. Bella persona, ma a casa sua sclerava.
Dopo cena, lui e i ragazzi e io davanti alla televisione mentre la moglie lavava i piatti
e sua madre, in casa con loro, era seduta a tavola con un grosso melone in collo,
e lo cullava fissandolo con quell’intensità solita della gente davanti al fuoco.
La moglie tentava e ritentava di tirarglielo via ma la vecchia strideva lamentosa
e il mio amico fece, “Ma lasciala stare!”, “Ma lo fa apposta”, fece la moglie.
Io stavo a guardare. Allora la madre ci mise sopra tutte e due le mani, pollici stesi,
come se il melone fosse una testa e i pollici coprivano gli occhi e lo puntava come un fucile
o una macchina fotografica.
“Stronza!”, borbottò la moglie all’improvviso, corse verso lo scaffale, tirò giù un libro –
Storia delle rivoluzioni – sfogliò rumorosamente le pagine e lo passò trionfante al marito.
Una fotografia: qualcuno è stato strangolato e il boia, dietro di lui in piedi con un cappello da lavoro,
ha i pollici proprio in quel modo sugli occhi della persona, gli raddrizza la testa,
così da far pensare che i pollici stiano per spostarsi perché erano lì solo a puntare
la persona verso qualcosa che volevano vedesse e quello con le mani stava per dire, “Guarda!
Laggiù!”
“Te l’ho detto”, fece la moglie, “giuro su Dio che fa di tutto per farmi impazzire”.
Non avevo idea cosa volesse dire ma il mio amico andò fuori di sé, cominciò a rompere cose, tornai a casa
e quando la mattina dopo lo vidi a colazione faceva come se non fosse successo nulla.
Di solito si mangiava alla stazione di servizio dei camion, ma mi ricordo di Fritz’s, The Victory, The Eagle,
e penso di non essere mai stato tanto appagato quanto allora, prima del lavoro, la luce appena nata,
tutti a sorseggiare il caffè nelle pesanti tazze bianche e prendere in giro la cameriera di mezza età
che fingeva sempre d’essere vagamente innamorata di chiunque allora trovava lavoro da quelle parti
oltre ai soliti contadini di ritorno dai mercati e ai camionisti dei grandi percorsi.
Ascolta: a volte quando ti trovi a parlare della vita è come se la bocca fosse piena di chiodi
ma altre volte è così facile che è ridicolo perfino disturbarsi.
Le uova e il toast potrebbero volar via dai piatti e non importerebbe
e le bolle nella livella potrebbero gonfiarsi fino al cielo e sarebbe lo stesso.
Ascolta lo scavatore che prende i giri e le grida e qualcuno che fa crepitare il martello nel secchio di calcina.
Ascolta ancora. Lo farà tutto il giorno se tu vuoi. Ascolta ancora.
YUSEF KOMUNYAKAA
from Honor Thy Hands: Carpentry and Poetry
The hands exist in collaboration with the tongue – touch and language – one informs the other. Because we touch we want to speak, to name. Because we speak we’ve learned to build beyond instinct and toward the imagination, in a refined collaboration, one that includes apprenticeship. The hands have always converged with language. Perhaps such musing verges on the conceptual, but for me the relationship between poetry and carpentry is personal. My great-grandfather and my father were both carpenters, and there my earliest memories reside. As a boy, I would observe my father intently drawing, rendering the shape of his imagination onto a sheet of paper – a meditation over days or weeks – and then he would slowly, carefully build the structure with wood and sweat, hammer and saw, and solitary dreaming. He had first constructed work sheds, and then he built fully conceived birdhouses that he’d post on fifteen-foot poles. I thought of them as back yard totems. They were always painted white and trimmed with greens and blues. And in spring I’d watch mockingbirds move into the houses, carrying twigs and bits of straw in their beaks. In retrospect, this ritual emulates the careful construction of a poem, or work of outsider folk art. In my late thirties, after returning to the South, I’d realized that the image of my father’s hands constructing those birdhouses had been imprinted in my psyche. The construction was never casual, but rather an acquisition of beauty, even in the most trying moment. Perhaps this was how my father “weathered the storms” of the Deep South, how he remained true to himself and to a spirit of creativity. Perhaps each birdhouse was a meditation on extended possibility, a deliberation that required vision and patience in the execution. “Some folks could never make a good carpenter,” he said to me. “Too much hurry in their blood. They try to get a week-long job done in one day.” Later, he’d expand his art as he taught himself to work with the same integrity on a much larger scale; he’d construct real houses in the same manner – always with a keen awareness of precision. As a finishing carpenter, he’d mastered precision, and if a doorjamb or a window frame were not perfect, plumb, square, he’d dismantle it.
Isn’t that how we poets make poems? We measure the music of a line. We shape. We cut. We revise. We re-see. Even the improvisational verse is worked, polished, finished. It becomes. As a grown man at times, in a reverie, I am still five trying to hold a plank as my father saws. Through the hands, memory awakens, and it is here in the body that poetry and carpentry are inherently connected. I knew this long before I’d read these lines from Pablo Neruda’s “Ars Poetica”:
When I cut into the board
of my choice
with the sputtering points of my saw:
from the plank come my verses,
like chips freed from the block,
sweet-smelling, swarthy, remote,
while the poem lays down its deck
and its hull, calculates list,
lifts up its bulk by the road
and the ocean inhabits it.
Naturally, the poet is in awe of the maker of things; he or she may even possess reverence for one who strives to locate symmetry in durability. We poets praise things that last; we are members of the tribe that questions obsolescence. Oftentimes, a beautiful tool is used to create an object embodying such refinement, which becomes an ode, a gesture where the maker brings the idea of harmony into existence.
The Carpentry and Poetry Anthology I’m editing (a work that nears completion) celebrates the makers and the made-ness of things, and thus celebrates the cultural imagination, tradition, and the worker. By making we bring the imagination to life. Thus the objects are homages to humanity and they are sacred. These poems embrace history – both cultural and personal. And they remind us of what we inherit, through tradition, apprenticeship, and through the material world. Carpentry, as these poems teach us, embodies the emotional: celebration, contemplation, mystery, and grief. It is an art that is solitary and communal, one that transcends time and outlives us.
Ironwork
Strip the beached leviathan to ropy
muscle, bone, & ribbed heft,
unlatching everything that holds
the whole floating machine
struck dead by hunger at the shoreline.
Measure the bodacious shape
down to its last cubic foot
of oily silence, how its curved ribs
could hold three or four big men
if the dream of space is true.
Raise something new in the name
of this being showing us how
to tool a ship or submarine,
the blown song of wet stardust
pluming out of a blowhole.
From timbers curving into a boat
to raised arches of a cathedral,
& then to the steel cross-work
up there where it must tremble
to hold itself together down here.
One big embrace peaks & stops
in midair. Small things fit together
when a man loves his hands so much
we have to talk him down rung-by-rung
till his steel-toed boots touch the ground.
(inedito per gentile concessione dell’autore)
Fatto di ferro
Spoglia il leviatano in secca fino al
muscolo fibroso, osso & nervo possente,
strappa ogni cosa che lo frena
macchina galleggiante tutta
colpita a morte da fameliche catene a riva.
Misura la sua sfacciata forma
fino al suo ultimo piede cubico
di viscoso silenzio, le costole ricurve
che tengono tre o quattro grossi uomini
se è vero il sogno dello spazio.
Innalza qualcosa di nuovo in nome
di questo essere per mostrarci come
si fa una nave o un sottomarino,
un canto di molle polvere di stelle
soffiato nell'aria da uno sfiatatorio.
Da legni che s’incurvano in una nave
agli archi innalzati di una cattedrale,
& poi all'opera incrociata dell'acciaio
lassù dove tutto deve vibrare
perché tutto quaggiù stia unito..
Un grande abbraccio s'innalza e si ferma
a mezz'aria. Piccole cose si accordano
quando un uomo ama tanto le sue mani
che dobbiamo riportarlo giù piolo dopo piolo
finché i suoi scarponi ferrati non toccano terra.
JORIE GRAHAM
Employment
Listen the voice is American it would reach you it has wiring in its swan’s neck
where it is
always turning
round to see behind itself as it has no past to speak of except some nocturnal
journals written in woods where the fight has just taken place or is about to
take place
for place
the pupils have firelight in them where the man a surveyor or a tracker still has
no idea what
is coming
the wall-to-wall cars on the 405 for the ride home from the cubicle or the corner
office – how big
the difference – or the waiting all day again in line till your number is
called it will be
called which means
exactly nothing as no one will say to you as was promised by all eternity “ah son, do you know where you came from, tell me, tell me your story as you have come to this
Station” – no, they
did away with
the stations
and the jobs
the way of
life
and your number, how you hold it, its promise on its paper,
if numbers could breathe each one of these would be an
exhalation, the last breath of something
and then there you have it: stilled: the exactness: the number: your
number. That is why they
can use it. Because it was living
and now is
stilled. The transition from one state to the
other – they
give, you
receive – provides its shape.
A number is always hovering over something beneath it. It is
invisible, but you can feel it. To make a sum
you summon a crowd. A large number is a form
of mob. The larger the number the more
terrifying.
They are getting very large now.
The thing to do right
away
is to start counting, to say it is my
turn, mine to step into
the stream of blood
for the interview,
to say I
can do it, to say I
am not
one, and then say two, three, four and feel
the blood take you in from above, a legion
single file heading out in formation
across a desert that will not count.
(da Place, 2012)
Lavoro
Ascolta la voce è americana ti raggiunge ha fili elettrici nel collo di cigno
sempre rivolto
all’indietro
per vedere dietro di sé – non ha un passato di cui parlare eccetto qualche diario
notturno scritto ini boschi dove la battaglia ha appena avuto luogo o sta per
avere luogo
per il luogo
arde fuoco nelle pupille dove l’uomo un perito un braccatore ancora non ha
nessun’idea di quel
che arriverà…
il tappeto di macchine sulla 405 per tornare a casa dal comparto dall’ufficio
ad angolo – grande
la differenza – o l’attesa ancora tutto un giorno in fila finché il tuo numero non è
chiamato sarà
chiamato il che vuol dire
esattamente nulla perché nessuno ti dirà come promesso dall’eternità “ah figlio, sai
da dove sei venuto, dimmi, dimmi la tua storia ora che sei giunto a questa
Stazione” – no,
hanno eliminato
le stazioni
e i lavori
lo stile di
vita
e il numero, come lo tieni stretto, la sua promessa di carta,
se i numeri potessero respirare sarebbero ognuno un’
esalazione, l’ultimo respiro di qualcosa
e poi ecco il risultato: annientato: l’esattezza: il numero: il tuo
numero. Ecco perché loro
lo possono usare. Perché era vivo
e ora è
annientato. Il passaggio da uno stato all’
altro – loro
danno, tu
ricevi – fornisce la sua forma.
Un numero volteggia sempre su qualcosa sotto qualcosa. E’
invisibile, ma tu lo senti. Per fare una somma
si assomma una folla. Un numero grande è una forma
di ressa. Più grande il numero più
fa paura.
Oggi diventa sempre più grande.
La cosa da fare
immediatamente
è cominciare a contare, dire tocca a me
ora, a me entrare
nella fiumana di sangue
per il colloquio,
dire io
posso farlo, dire io
non sono
uno, e poi dire due, tre, quattro e sentirti
visto dall’alto in questa fiumana, una legione
in fila indiana che procede in formazione
attraverso un deserto che non terrà il conto.
PHILIP LEVINE
What work is
We stand in the rain in a long line
waiting at Ford Highland Park. For work.
You know what work is – if you're
old enough to read this you know what
work is, although you may not do it.
Forget you. This is about waiting,
shifting from one foot to another.
Feeling the light rain falling like mist
into your hair, blurring your vision
until you think you see your own brother
ahead of you, maybe ten places.
You rub your glasses with your fingers,
and of course it's someone else's brother,
narrower across the shoulders than
yours but with the same sad slouch, the grin
that does not hide the stubbornness,
the sad refusal to give in to
rain, to the hours wasted waiting,
to the knowledge that somewhere ahead
a man is waiting who will say, "No,
we're not hiring today," for any
reason he wants. You love your brother,
now suddenly you can hardly stand
the love flooding you for your brother,
who's not beside you or behind or
ahead because he's home trying to
sleep off a miserable night shift
at Cadillac so he can get up
before noon to study his German.
Works eight hours a night so he can sing
Wagner, the opera you hate most,
the worst music ever invented.
How long has it been since you told him
you loved him, held his wide shoulders,
opened your eyes wide and said those words,
and maybe kissed his cheek? You've never
done something so simple, so obvious,
not because you're too young or too dumb,
not because you're jealous or even mean
or incapable of crying in
the presence of another man, no,
just because you don't know what work is.
(da What Work Is, 1991)
Cos’ è il lavoro
In piedi nella pioggia in una lunga fila
in attesa a Ford Highland Park. Di lavoro.
Sai cos’è il lavoro – se sei
grande abbastanza da leggere qui sai cosa
è il lavoro, anche se forse non lavori.
Lasciamo perdere te. Qui si parla d’attesa,
cambiando posa da un piede all’altro.
Di pioggia sottile che senti cadere come nebbia
sui capelli, che ti offusca la vista
finché ti sembra di vedere tuo fratello
davanti a te, frse dieci posti avanti.
Ti pulisci gli occhiali con le dita,
e ovviamente è il fratello di qualcun altro,
con spalle più strette del tuo
ma con la stessa aria dinoccolata e triste, la smorfia
che non nasconde la determinazione,
il triste rifiuto di cedere alla
pioggia, alle ore buttate nell’attesa,
alla certezza che in un punto più avanti
un uomo ti aspetta e dirà, “No,
niente assunzioni oggi”, per una qualsiasi
sua ragione. Vuoi bene a tuo fratello,
ora all’improvviso puoi a mala pena sopportare
il bene che ti inonda per tuo fratello,
che non è accano a te o dietro o
davanti perché è a casa a cercare di
smaltire nel sonno un terribile turno di notte
alla Cadillac così può alzarsi
prima di mezzogiorno per studiare il suo tedesco.
Otto ore a notte di lavoro così può cantare
Wagner, l’opera che odi di più,
la peggiore musica mai inventata.
Quanto tempo è passato da quando gli hai detto
che gli vuoi bene, abbracciato le sue spalle larghe,
con occhi ben aperti gli hai detto quelle parole,
e magari dato un bacio sulla guancia? Non hai mai
fatto una cosa così semplice, così ovvia,
non perché sei troppo giovane o troppo stupido,
non perché sei geloso o nemmeno cattivo
o incapace di piangere davanti
a un altro uomo, no,
solo perché tu non sai cos’è il lavoro.
Traduzioni di Antonella Francini