Speciale
Lo chansonnier russo / Aleksandr Vertinskij: carteggi di amori sovietico-decadenti
L’epistolario a cui si fa riferimento in queste pagine è un misto d’amore e di politica, dove pure la componente storico-governativa rientra nella categoria degli affetti. Amore di patria, parallelo a quello per una donna (e per le figlie), provato con lo struggimento e la passione di cui soltanto gli emigrati russi sono stati capaci. Colui che sarebbe diventato un idolo dei palcoscenici, prima nella Russia prerivoluzionaria, poi in giro per il mondo sulle scene della diaspora e, infine, su quelle sovietico-staliniane, nacque a Kiev nel lontano 1889. Il destino gli riservò un’infanzia difficile, figlio illegittimo di una coppia clandestina (ben nota e chiacchierata in città), rimase orfano di madre a tre anni. Il padre morì a sua volta di disperazione e il piccolo, separato dalla sorella, fu affidato a una zia molto dura di carattere. Alunno del prestigioso ginnasio kieviano N. 1, compagno di Paustovskij e Bulgakov, ne fu presto espulso per ragioni di cattiva condotta. La severità della matrigna lo spinse alla ribellione fino a portarlo sulla via del teppismo. Fu sorpreso in flagrante furto delle offerte lasciate dai pellegrini al Monastero delle grotte di Kiev e la notizia fece il giro della città. La zia lo picchiò selvaggiamente, ma il ragazzo continuò la sua attività di ladro. Si appassionò alla musica, ascoltando il coro del ginnasio, ma a causa della sua pessima fama non poté entrare a farne parte. Tentò, senza successo, un debutto teatrale e a causa di queste vicende fu cacciato di casa dalla spietata parente. Rischiò di diventare un besprizornik, ragazzo di strada abbandonato. Campò di espedienti, inventandosi i mestieri più diversi: facchino, aiutante tipografo, venditore ambulante. Grazie all’incontro con una vecchia amica di sua madre, docente al ginnasio femminile, il giovane Aleksandr recuperò un certo equilibrio e orientò con maggior consapevolezza la propria passione teatrale. Iniziò a scrivere recensioni che furono apprezzate e gli portarono i primi guadagni. Con questi si comprò un frac e nel 1913 partì per Mosca a cercarvi fortuna. Là ritrovò la sorella, che era stata data per morta, attrice al Teatro delle miniature. Grazie alla sua mediazione si inserì in diversi milieu artistico-letterari e incominciò a farsi conoscere. Il giro bohémien nella Mosca di quegli anni faceva grande uso di cocaina. La sorella di Vertinskij ne rimase vittima e lui decise, per liberarsi dalla dipendenza, di partire volontario su un treno ospedale. La Prima guerra mondiale era in corso.
Non piangete, non ne vale la pena, bambina mia solitaria.
Crocifissa dalla cocaina sui fradici boulevard moscoviti.
Serrate piuttosto il collo con un collare di pelliccia
E andate là, dove nessuno Vi chiederà chi siete. (Cocainetta, 1916)
Tra le molte leggende che lo riguardarono rientra anche quella delle 35.000 fasciature compiute tra il 1914 e il 1916 al servizio del famoso chirurgo Cholin. Rientrato a Mosca tentò la fortuna al Teatro d’arte, ma fu rifiutato da Stanislavskij in persona a causa della sua erre moscia. Ottenne però al Teatro delle miniature di poter debuttare con un numero di sua invenzione: Arietki P’ero (Le ariette di Pierrot). In costume nero da Pierrot triste, con l’immancabile lacrima sul viso, Vertinskij iniziò una carriera travolgente che gli avrebbe portato fama e successo fino alla morte. Ideò un genere assolutamente inedito: la poesia-canzone teatrale, ciò che nei decenni si sarebbe sviluppato per diventare canzone d’autore e avrebbe visto in Russia figure epocali quali Vysockij, Okudžava, Grebenščikov, per citare solo i più grandi. Scriveva versi e melodie, talora musicando componimenti di poeti già famosi del simbolismo e dell’acmeismo: Blok, Achmatova, Esenin, talaltra componendo testi ispirati dalla sua esperienza militare e segnati dalle emozioni della guerra. Il suo primo pubblico erano stati i soldati feriti e mutilati per i quali aveva cantato in concerti improvvisati e che avevano costituito la prima ispirazione per le sue ariette.
Da quei palcoscenici la sua fama volò per Mosca e si diffuse nel resto del Paese. Le sue erano canzoni che riprendevano, con grande auto ironia, temi esotici, decadenti, canzoni che facevano sorridere e sognare, che portavano lontano, con la fantasia e con il cuore. Una delle ariette più famose fu dedicata alla separazione con Vera Cholodnaja, diva del cinema muto russo e grande amore dell’artista, che sarebbe morta di spagnola nel 1919, Lilovyj negr (Un negro lilla).
Vi vidi per un’ultima volta da vicino.
Una voiture vi portava via nel vuoto di una strada.
E vedo in sogno che in una bisca di San Francisco
Un negro lilla porge a voi il manteau. (1916)
Tra le frasi senza senso che Prisypkin, nella Cimice di Majakovskij (1928), pronuncia dopo il risveglio c’è anche un verso citato proprio da questa canzone: “Dove siete ora, chi vi bacia le dita?”, a prova della grande popolarità dell’artista e dei suoi versi, non certo sintonici con lo spirito poetico del vate rivoluzionario. La sua fama imperversava, i suoi concerti erano trionfi. Il suo talento mimico e la sua pronuncia peculiare si aggiungevano alle doti poetiche e musicali e conquistavano le platee. La Rivoluzione colse Vertinskij al colmo del successo. Proprio la sera del fatidico 25 ottobre (7 novembre) 1917 a Mosca si teneva una “beneficiata” per lui, serata d’onore i cui proventi andavano interamente all’artista protagonista. Una sua canzone dello stesso anno (To, čto ja dolžen skazat’ (Ciò che devo dire), dedicata alla tragica morte dei trecento cadetti zaristi che la sera del 28 ottobre 1917 caddero nel tentativo di difesa del Cremlino, gli valse una convocazione alla Čeka, la polizia segreta, e i primi contrasti con il potere sovietico.
Non so perché, e a chi sia stato utile.
Chi li mandò a morire con mano sicura.
E senza pietà, con cattiveria superflua,
Li consegnò al riposo eterno.
La canzone, negli anni, sarebbe diventato un inno pacifista dedicato alle “guerre inutili”, privandola delle sue prime ipotetiche componenti anti bolsceviche. Per due anni Vertinskij continuò le sue fortunate tournée nel sud del Paese, Jekaterinoslav, Odessa, Char’kov, Jalta, Sebastopoli, città in cui l’armata bianca cercava di resistere all’avanzata rossa. Nel 1919, con un falso passaporto greco, emigrò dalla Russia sovietica. Iniziarono decenni di vagabondaggio e trionfi. Costantinopoli fu la prima tappa. La diaspora russa invadeva il mondo e adorava le sue canzoni. Alla Turchia seguirono Romania, Polonia, Austria, Germania, Palestina, Francia (visse per ben dieci anni a Parigi), e poi l’America. Conobbe Marlene Dietrich in Europa, la ritrovò a Hollywood ed ebbero una relazione amorosa. Le avrebbe dedicato canzoni, come sempre, ammantate di passione e ironia.
Non è difficile amarvi,
basta essere coraggiosi,
sopportare tutto, non bramare la battaglia
e non lagnarsi del destino,
Oj, oj, ojjjj!
Bisogna donare rose
Essere perennemente innamorato,
mai triste, mai geloso,
sorridere ed emettere sospiri. (1934)
Più di una volta tentò di chiedere il visto per tornare in Unione Sovietica, ma gli venne rifiutato. La straziante nostalgia che condivideva con il suo pubblico quando intonava canzoni come Čužie goroda (Città estranee) lo divorava.
Voci fortuite hanno portato
Dolci e inutili parole:
“Giardino d’estate, Fontanka, Neva”.
Dove siete dirette, parole di passaggio?!
Qui rumoreggiano città estranee,
e un’acqua estranea gorgoglia
e stelle estranee risplendono. (1936)
Deluso dall’esperienza americana, si rifiutò caparbiamente di imparare l’inglese, fece vela per la Cina. Conduceva una vita lussuosa, era il beniamino di tutte le comunità russe, ma la lontananza dal Paese lo lacerava nonostante gli amori, le conquiste, il successo trionfale che lo accoglieva e accompagnava ovunque.
Si stabilì a Shangai. Le donne continuavano a cadergli ai piedi. Il suo fascino restava leggendario, nonostante il passare degli anni. Del 1940 è una composizione “anti-femminista”, consapevolmente, e ironicamente, maschilista: Bez ženščin (Senza donne), che si sarebbe rivelata fatale, segnale della sua imminente capitolazione all’amore coniugale.
Quanto bene si sta senza donne e senza paroloni,
Senza accenti amari e dolci baci,
Senza quegli occhi cari e troppo onesti
Non soltanto ingannevoli ma anche gelosi.
Quanto bene si sta senza scenate teatrali,
Senza “dignitosi” chiarimenti,
Senza quegl’isterici tradimenti,
Senza quei tardivi pentimenti. (1940)
Quando a Harbin, altra città ampiamente popolata di emigranti russi, arrivarono i giapponesi, molti giovani si rifugiarono dalla Manciuria a Shangai alla ricerca di un lavoro. La città si popolò di una nuova ondata di profughi. La sera di Pasqua del 1940 una diciassettenne fanciulla russa, figlia di un impiegato sovietico della ferrovia cino-orientale, in compagnia di amici, decise di passare la serata al cabaret Renaissance per ascoltare dal vivo lo chansonnier di cui era ammiratrice. Rievoca nelle proprie memorie: “Entra in scena un pianista e accanto a lui compare un uomo in elegante smoking. Vertinskii! Quanto era alto! Un viso non più giovane. I capelli lisci. Profilo da patrizio romano. Gettò uno sguardo alla sala che si era fatta silenziosa e iniziò a cantare”. Fu un incontro fatale.
Gioia mia, nella vostra “lunga” lettera mi interrogate su tante cose. Prima di tutto sull’occhio. L’occhio va bene. L’ho strofinato con l’aglio, come mi avete suggerito. Già la mattina le cose andavano meglio. A proposito della “ragazza del bar”. Mi è piaciuta. Esattamente per quanto tempo può piacere una qualsiasi cosa nella vetrina di un negozio. Fin tanto che non si va al negozio, non la si prende in mano e non ci si convince che è “merce scadente”. Mi piaceva perché non la conoscevo. Poi mi sono reso conto che è volgare, ignorante e “grossolana ragazza da marinai”. Tutto qua. Tra me e lei non c’è stato nulla. Me la ero semplicemente “immaginata”. Poi mi sono convinto che non valeva nulla. In ogni modo, per Vostri eventuali futuri “dubbi”, vi affido quelle parole che Vi dissi ieri in macchina: “Per quanti ‘incontri’ ci possano essere stati nella mia vita, la felicità non l’ho mai conosciuta!” La felicità siete Voi. E Voi soltanto! Se soltanto, un giorno, voi vorrete essere la mia felicità! La felicità arriva dopo. Tardi! Con grande ritardo. Quando già si è smesso di credere in lei. Può manifestarsi e poi scomparire! Anche questo capita.
Perché dovete pensare a ciò che è stato prima di Voi, quando prima di Voi non c’è stato niente.
Voi siete il mio primo amore!
Piccolo angelo dagli occhi verdi, caduto dal cielo nella mia triste vita. Primo e ultimo. Non fatemi più domande.
Nulla c’è stato. Nulla. Tragicamente nulla. Ci sono stato inganni. Falsità. Menzogne. Surrogati. Parodie.
E ora ci siete Voi. E Voi soltanto, Lida.
Meravigliosa e splendente bambina mia.
Fidanzata mia.
Amore mio.
Sandro, (20 maggio 1940)
A proposito delle “ragazze da bar”, giovani russe costrette dall’emigrazione a lavorare come entraineuse nei locali di Shangai per sopravvivere, Vertinskij nel 1938 aveva composto una canzone che non avrebbe mai eseguito.
Sigarette nel sangue. Labbra infantili, minuscole.
Ingoiando quegli aspri veleni,
invano bruciate i vostri deboli polmoni,
vi giocate a dadi la vita, mia cara. (1938)
Si firmava Sandro, non all’italiana, ma alla georgiana, in quanto di quell’origine era la sua fanciulla amata.
Oggi ho pensato a Voi…
A Voi “in generale”, alla Vostra amicizia per me.
Ho pensato a quanto ancora potrà durare la Vostra “resistenza”?
Per quanto tempo ancora la Vostra sottile cara figura potrà reggere sotto il “bombardamento da uragano” dei miei nemici?
Per quanto tempo potrò contare su di Voi? Non lo so.
Una cosa sola posso dire, forse: Voi difendete eroicamente le Vostre idee! Idee che, per certo, sono al di sopra delle vostre possibilità. Perché è difficile e arduo stare dalla parte di chi, per cattiveria e invidia, per squallore e impotenza viene odiato, invidiato, infangato e a cui ci si sottomette con maledizioni!
Talora ho l’impressione che se per un solo secondo chiudessi gli occhi, mi abbandonassi per un solo minuto… Mi farebbero a pezzi… Come i leoni sbranano un domatore in gabbia… Quegli stessi leoni che si erano sottomessi a lui, che lui faceva camminare sulla corda…
Il Vostro coraggio, per certo, lo trovate soltanto nella Vostre origini georgiane.
È difficile, lungo e inutile discutere sul perché la gente mi odi. Per il successo, per la gloria, per l’ironia, per “l’intelligenza superiore”, per l’intuizione, per l’origine “divina”, per il disprezzo, per la magnanimità, per la sincerità, per l’insensata e splendida prodigalità, per “l’auto incendiamento” col sorriso sulle labbra…
Per tutto ciò che loro non sono in grado di fare! Perché non sono come loro! Quanto è strano, triste e doloroso che la Vostra mamma, mamma splendida e come potrebbe essere altrimenti la mamma di una meravigliosa bambina come Voi? Strano che lei, senza sapere, senza chiedere, senza assolutamente interessarsi a me, convinta e severa mi faccia ostruzionismo, veda in me un nemico, una specie di bestia feroce e ladro che tenta di appropriarsi di sua figlia e che lei detesta con tutto il cuore?!
Mentre io sono buono, semplice, generoso, dolce e… infelice… poiché non possiedo la felicità. Nonostante tutto il successo! Ecco tutto.
Sandro
13 giugno 1940
La ventenne Lidija Tsirgvava e il cantante cinquantatreenne si innamorarono e, nonostante gli ostacoli, si sposarono nel 1942. Tutta la Shangai russa partecipò all’evento. La suocera abbandonò le posizioni di ostracismo e la storia d’amore proseguì. Secondo i testimoni e le memorie di entrambi fu sempre lei a essere la più gelosa. Incantata dal talento e dal carisma magnetico dell’artista quanto lui era stato stregato dalla non comune bellezza di lei.
La prima figlia Marianna nacque a Shangai nel 1943. Nello stesso anno, mentre la Russia era in piena guerra patriottica, l’artista indirizzò una lettera a Vjačeslav Molotov, ministro deli esteri sovietico e braccio destro di Stalin.
Stimatissimo Vjačeslav Michajlovič!
Sono consapevole della libertà che mi prendo nel rivolgermi a voi in questo momento, mentre su di voi pesa una così enorme responsabilità, un impegno tanto grande e impegnativo, nel momento in cui la nostra Patria impegna ogni sua forza nella lotta. Ma confido che nel Vostro cuore di grande personaggio di stato e amico del popolo si potrà trovare uno spazio per il dolore altrui e, forse, anche per il mio. Da vent’anni io vivo senza Patria. L’emigrazione è una grande e pesante punizione. Ma a ogni punizione c’è un limite. Persino una condanna a vita talora viene ridotta per buona condotta e pentimento. Questa condanna alla fine diventa insopportabile. Vivere lontano dalla Patria ora che è inondata di sangue, nell’impotenza del non poterle essere d’aiuto, è l’aspetto più terribile.
I patrioti sovietici sacrificano il proprio impegno sovrumano, le proprie vite e i propri ultimi risparmi.
Vi prego, Vjačeslav Michajlovič, di permettermi di scarificare le mie forze, che ancora sono sufficienti, e, se necessario, la mia vita, per la mia Patria.
Sono un artista. Ho più di 50 anni, sono ancora in possesso di tutte le mie risorse e la mia attività ha ancora molto da offrire. In precedenza, ero stata accusato per le atmosfere decadenti delle mie canzoni, ma altro non ero stato che lo specchio e il microfono della mia epoca. E se le mie canzoni sono state così, la colpa non era mia, ma dell’epoca di ristagno prerivoluzionario e della sua corruzione morale. Da tempo le mia canzoni sono cambiate. L’eroica epoca contemporanea mi ispira canzoni nuove e di ben superiore forza. Già ho realizzato qualcosa in questa direzione e le mie nuove canzoni, come sostengono i cittadini sovietici di qua, hanno già un suono ben diverso.
Concedetemi di tornare a casa. Sono cittadino sovietico. Oltre alla mia professione, lavoro alla redazione del giornale sovietico di Shangai “Vita nuova”, scrivo memorie sui miei incontri in emigrazione. Il libro è pressoché finito. L’agenzia TASS lo vuole pubblicare. Ho moglie e suocera. Non le posso abbandonare qui e per questo la mia richiesta comprende noi tre:
me stesso, Aleksandr Vertinskij. Mia moglie, la georgiana Lidija Vladimirovna, di 20 anni. E sua madre, Lidija Platonovana Tsirgvava di 45 anni.
Questo è tutto. Spezzare la famiglia sarebbe molto doloroso.
Lasciateci tornare a casa.
Sarò ancora utile alla Patria. Aiutatemi, Vjačeslav Michajlovič. Scrivo dalla Cina. Il mio indirizzo è noto all’ambasciata di Tokio e al consolato di Shangai.
Vi ringrazio anticipatamente
Spero in una Vostra risposta.
Shangai, 7 marzo 1943.
La richiesta fu accettata e, nel novembre del 1943, la famiglia ormai allargata a quattro, era nata la piccola Marianna, raggiunse Mosca con un viaggio colmo di peripezie. Furono inizialmente alloggiati all’albergo Metropol’, hotel di lusso riservato alle delegazioni straniere e nota base di spionaggio, dove, fruendo di tessere alimentari privilegiate, invitarono amici e conoscenti, rappresentanti del mondo della cultura e del teatro, vecchi e nuovi ammiratori. Tra questi anche Dmitrij Šostakovič con la moglie. Immediatamente ripresero i concerti, anche se con considerevoli tagli al suo repertorio “classico” e aggiunte politicamente corrette di autori sovietici. Oltre alla lettera a Molotov Vertinskij dovette sottoscrivere una specie di auto accusa per le propri scelte giovanili.
Che cosa mi spinse a farlo? Odiavo il potere sovietico? Oh, no! Il potere sovietico non mi aveva fatto nulla di male. Ero seguace di qualche altra fazione politica? La risposta è sempre no. Evidentemente si è trattato di passione per l’avventura, per i viaggi. Indolenza giovanile.
L’anno successivo sarebbe nata Anatstasija, la seconda figlia, assieme alla sorella futura famosa e apprezzata attrice cinematografica degli anni Sessanta e Settanta. Le bambine adoravano il padre ed erano gelosissime di lui.
Bambine mie adorate!
Sento terribilmente la vostra mancanza […] Studiate? Vi comportate bene? Scrivete a papà. Mi farà molto piacere ricevere una vostra lettera… Al mio concerto è venuto il gatto Fedul; se ne è andato dalle isole Curili perché là ci sono pochi topi e a lui il pesce non piace. Adesso canta all’Opera e sua moglie, Fekluša, è diventa ballerina e balla Il lago dei cigni. In estate verranno tutti da noi ad Anapa a fare i bagni di sabbia perché ai gatti l’acqua non piace. Vi mando un bacione grande, piccine mie, gioia e luce della mia vita, e che Dio vi protegga. Il vostro papà Saša. (5 aprile 1950)
5 апреля 1950 г.
Difficile dire se libera scelta o imposizione fu la canzone dedicata a Stalin nel 1945 dal titolo significativo: On (Lui):
In quei neri, gravi anni
Tutte le speranze erano su di lui.
Da quale specie super potente
Lo aveva plasmato la natura? (1945)
In quegli anni molti “insospettabili” intellettuali si univano alle persone comuni nel culto del capo. Non a caso la denuncia chruščeviana del 1956 avrebbe suscitato non poche indignazioni e resistenze. Nel 1946 la famiglia ottenne un appartamento sulla centralissima via Gor’kij. L’incontro con la più autentica realtà sovietica rendeva frenetica l’attività professionale. I concerti erano indispensabili per garantire alla famiglia i mezzi di sussistenza e coprirono tutte le città dell’URSS (furono circa 3000, sempre accompagnato dal pianista Michail Broches), ma, per strano che possa sembrare, non venivano reclamizzati, non ne parlavano i giornali, i dischi non venivano stampati. Vertinskij arrivò ad auto paragonarsi a una casa di tolleranza, che tutti frequentano ma di cui nessuno parla perché è sconveniente.
E poi, finalmente, a Mosca! I concerti qui [Soči, Groznyj, Ordžonikidze] sono grandi successi. “Tutto esaurito” e ovazioni. Persino fiori! Ma la malinconia è terribile. Si mangia bene. La padrona di casa prepara una tale zuppa di granchi che sulla via del ritorno ho deciso di fare tappa qui per poterla far assaggiare a Peka [soprannome affettuoso della moglie legato a ricordi di Harbin]. (29 settembre 1944)
La Russia sovietica ritrovava il proprio passato e il suo idolo mai dimenticato, ma la presenza di chi era nel frattempo diventato l’idolo degli emigranti in terra staliniana restava un enigma. Si dice che lo stesso Stalin amasse ascoltare le canzoni dell’artista e che grazie al suo personale intervento il nome di Vertinskij fosse stato cancellato dalla lista nera ai tempi delle repressioni anti cosmopolitismo volute da Ždanov nell’immediato dopo guerra. Nel 1951, per l’interpretazione del cardinale Birnč nel film La congiura dei condannati a morte, gli fu conferito il premio Stalin, la più alta onorificenza dell’epoca. Si vocifera oggi, e il caso è scoppiato con un articolo giornalistico del 2007, che sia la sua emigrazione “bianca” che la re-emigrazione “rossa” fossero state studiate a tavolino e che l’artista sia stato una spia al servizio del Cremlino in entrambe le circostanze. Troppe coincidenze, troppi privilegi, sostiene l’autore dell’articolo. Molte sdegnate reazioni lo hanno seguito. Molte critiche alle ipotesi “inconsistenti” e “azzardate”. Resta il fatto che nell’ambito dell’emigrazione “bianca” moltissime furono le figure che, in un modo o nell’altro, prestarono “servizio” in veste di informatori e osservatori. Non è questa la sede per approfondire il dibattito. Concludo queste pagine che vogliono rendere omaggio a un eccezionale talento e a un personaggio di portata artistica non comune.
Certamente l’impatto con la più dura realtà sovietica non lo lasciò indifferente.
La realtà mi indispone, ma, in primo luogo, deriva da una serie di cause di grande portata che non dipendono da noi, cause di natura assolutamente personale… Nel nostro Paese c’è molto di inaccettabile. Il popolo è totalmente ignorante (e chi avrebbe potuto istruirlo? E quando se ne sarebbero potuti occupare a fondo?) Inoltre, è terribile il nostro popolo, in quanto capace allo stesso tempo di atti eroici e di delitti. La guerra lo ha dimostrato e la quotidianità lo conferma, ma questo non ne diminuisce affatto la grandezza! Sicuramente mi ripugna la nostra grossolanità, la cafonaggine, la nostra psicologia “a casaccio”, in cui ciascuno pensa esclusivamente al proprio vantaggio e se ne frega degli altri, del suo prossimo che gli sta accanto, ma non dobbiamo dimenticare che siamo uno stato operaio-contadino. (1954)
Gli anni passavano e la fatica si faceva sentire. Nel 1950, da Chabarovsk, scriveva alla moglie:
Sono di pessimo umore. La voce è stanca. Sono turbato e oggi ho concluso il concerto a fatica. Ho bisogno di una pausa. Ho paura di Sachalin [tappa successiva della tournée] E se là perdessi la voce del tutto? Dopodomani mattina ho il volo e la sera già mi toccherà cantare…
Torna in mente una delle sue canzoni più profonde e sentite, scritta nel 1930 per una moglie ideale:
Gli anni passeranno e da tutti voi dimenticato
Invecchiato, penoso e ridicolo,
Inutile per tutti e logorato
Tornerò come sempre a casa.
E dirò con un sorriso
Pietoso e tormentato:
“Buongiorno, passerottino, unico e mio!
Cos’importa se sono stanco e straziato,
Solo, dimenticato e sofferente.
Non piangere, non piangere amore mio,
Non piangere mogliettina mia.
Non si aggiusterà più la nostra vita,
Ma in lei c’è stata primavera”. (1930)
Nel 1953 in una lettera da Leningrado:
Credo di essere un buon marito, visto che ho l’abitudine di conversare con mia moglie ogni giorno, nonostante le distanze. Leningrado non è una città ma il “cadavere imbalsamato di una città”. Palazzi con le finestre cieche… tetre infilate di case. Silenzio. Freddo. Una specie di cripta tombale. Ma quella piazza del Palazzo, attraverso la quale ogni sera vado al concerto, è grandiosa nella sua mortale quiete, ed è bella da piangere. Ricordo sempre i versi di Mandel’štam: “Pietroburgo, non voglio ancora morire”.
Nel 1956 indirizzò un’ulteriore missiva al ministero della cultura.
Da qualche parte, ai piani alti, continuano a far finta che io non sia tornato, che io non viva nel paese. Di me non si dice e non si scrive una parola. […] La gente mi vuole bene (perdonatemi questo azzardo). Per la quarta o quinta volta ho compiuto il giro completo del paese e completo il tremillesimo concerto! Ho 68 anni! Sono al tramonto. […] Non sarebbe giunto il momento di accorgersene? […] Perché non canto alla radio? Forse che Yves Montand, la cui lingua è sconosciuta a tutti, è più sentito e necessario di me? […] Mi amareggia tutto questo. In effetti non chiedo nulla. Semplicemente racconto…
Morì per un attacco cardiaco a Leningrado, la notte dopo un concerto, nell’hotel Astorija il 21 maggio 1957. La moglie, mai risposata, gli sopravvisse di 57 anni e fu, a sua volta, protagonista di diversi film. Fu sepolto, accompagnato da un’immensa folla, nel cimitero Novodevičij di Mosca, dove riposa con la compagna.
Il primo disco sovietico fu pubblicato soltanto nel 1969 e fu seguito da parecchi altri. L’attore e cantautore Vladimir Vysockij, a sua volta idolo del pubblico sovietico negli anni Sessanta-Settanta, interpretò non poche sue romanze, una tra le più famose e profonde, Proščal’nyj užin (cena d’addio), registrata fortuitamente nel 1970 in Armenia a casa dell’allenatore della squadra di calcio Ararat.
Lo so, persino alle navi
È indispensabile un attracco,
Ma non a quelli come noi,
noi vagabondi e artisti! (1939)
Lilovyj negr (Il negro lilla del 1916) rientrò in una serie televisiva di grande successo del 1979: Mesto vstreči izmenit’ nel’zja (impossibile cambiare il luogo d’incontro).
Nel 1994 Boris Grebenščikov, rockettaro e cantautore “sovietico” incise un intero CD di canzoni di Vertinskii, accompagnandole con la chitarra.
In Russia le serate alla memoria, le citazioni, le calunnie, le leggende, le interpretazioni, le parodie continuano e non accennano a diminuire. Il cantautore italiano Alessio Lega, già interprete nella nostra lingua delle poesie-canzoni di Bulat Okudžava, sta lavorando alla versione italiana delle romanze di Vertinskij. Forse presto sarà possibile ascoltarlo e apprezzarlo anche per chi non conosce il russo.