Città in scena / I teatri di Napoli
Una volta Antonio Latella, durante un incontro pubblico al teatro Nest di San Giovanni a Teduccio in occasione dell’allestimento di MA, a proposito di Napoli disse: «È l’unica città italiana che potrebbe essere veramente la città europea del teatro, ma non ha le teste per poterlo diventare. Un giorno, probabilmente, i figli uccideranno sia i padri che le madri e avranno la forza per ricominciare e, da quello che vedo, qualcosa si sta già muovendo».
Era giugno 2015, si veniva da Natale in casa Cupiello che a trent’anni dalla morte di Eduardo, ha (ri)aperto il discorso sulla necessità di considerare la tradizione (trado) anche nella sua sana accezione di “tradire”; si trattava di uno dei primissimi incontri pubblici al Nest che oggi è uno dei luoghi di riferimento del panorama teatrale napoletano; il Teatro Mercadante – che mentre scrivo è chiuso da oltre un mese per inagibilità – era appena rientrato nella fortunata cerchia dei teatri nazionali voluta dalla riforma Franceschini.
Quella chiacchierata con Antonio Latella, attuale direttore della Biennale di Venezia, fu molto significativa, non solo perché il regista non ritornava da molto tempo nella città dove tutto per lui è cominciato, ma soprattutto perché guardare Napoli – specialmente la Napoli teatrale – con un piede fuori, dopo essersi invischiati dentro, nelle sue cavità porose e completamente permeabili, permette di avere una visione lucida della situazione.
Oggi, a distanza di due anni, le parole di Latella sono più che mai attuali. Napoli è vitale, attiva, una fucina vulcanica di creatività e di visioni (e talvolta di produzioni) non assolutamente supportate dal punto di vista strutturale che implodono o prendono vita altrove o finiscono in un sottobosco fertile ma spesso nascosto. Allo stesso tempo, buona parte dei protagonisti della scena teatrale contemporanea nazionale sono da collocare in queste latitudini. Stiamo parlando di una città/universo/mondo – per dirla con parole di Enzo Moscato, oggi uno dei più importanti, prolifici e altrettanto maltrattati drammaturghi e autori di teatro viventi in Italia – che da sempre alimenta la scena artistica (non solo teatrale) e la produzione d’immaginari che hanno il potere di varcare confini locali e nazionali.
Proveremo a tracciare qualche tratto estemporaneo della Napoli teatrale, e lo faremo, per semplificazione, attraversando alcuni spunti e argomenti che sembrano più urgenti e esemplificativi di un contesto evidentemente molto più complesso.
Il decentramento dello Stabile, teatri off e nuove realtà in città
Uno dei primi dati di cui tenere conto riguarda una sorta di spaccatura che nella città si è consumata – verrebbe da dire definitivamente – tra la scena ufficiale e quella off. Non si tratta di una novità, poiché Napoli da sempre si caratterizza come una città che pullula di spazi teatrali autonomi e non sovvenzionati – pensiamo a tutte le esperienze nate a partire dagli anni ‘60 in luoghi come le cantine e i sottoscala come Spazio Libero o Sala Assoli nei Quartieri Spagnoli che è poi diventata uno dei luoghi di riferimento della scena contemporanea della città e non solo. Lo Stabile di Napoli, nonostante sia uno dei più antichi d’Italia (fu costruito nel 1777) ha una vita relativamente giovane, poiché la sua riapertura (post danni bellici e terremoto del 1980) risale solo alla metà degli anni ’90. La differenza da registrare è questa: se le varie direzioni artistiche susseguitesi prima dell’insediamento di De Fusco hanno in qualche modo sempre assorbito le forze propulsive che si muovevano in città (pensiamo alla sala del Ridotto, storicamente dedicata alle urgenze del contemporaneo) e simultaneamente avuto cura del patrimonio artistico teatrale napoletano (pensiamo ad autori come Enzo Moscato, negli anni passati prodotto anche dallo Stabile), negli ultimi anni, e paradossalmente ancor più dopo la nomina a nazionale, il Mercadante appare sostanzialmente scollato dalla città teatrale reale e legato – come gran parte degli stabili nazionali – a meccanismi e logiche produttive mirati a mantenere lo status quo piuttosto che la tanto decantata formazione del pubblico.
D’altro canto, per gli attori e gli artisti, lo Stabile garantisce (almeno su carta, e talvolta neanche, poiché il ritardo nei pagamenti sia degli attori sia delle maestranze è all’ordine del giorno) un minimo di solidità; da qui il consumarsi di una ferita e una divisione doppia, tra chi si barcamena in progetti di spessore ma senza una produzione alle spalle e lavora allo Stabile per necessità, chi per scelta non vi mette piede e così via. Una situazione piuttosto anomala, complicatasi ulteriormente in queste settimane in cui il Mercadante è stato chiuso per inagibilità: tale rimarrà fino al prossimo settembre, come comunicato «con rammarico» dal direttore artistico in una lettera distribuita agli spettatori alla prima della Morte di Danton di Martone avvenuta al Politeama anziché al Mercadante lo scorso aprile. In attesa di vedere cosa riserva il futuro, sembra auspicabile – e anche probabile – un cambio al timone, oltre che una presa di posizione delle istituzioni (il CdA dello Stabile è diviso tra Comune e Regione) che per ora mantengono un imbarazzante silenzio.
Dall’altra parte abbiamo luoghi teatrali non istituzionali, un corpus vivo e cangiante di spazi – alcuni dei quali più “stabili” degli altri – che da sempre mantengono viva la scena underground in città. Ad alcuni questi, soprattutto quelli storici, va riconosciuto il merito di alimentare l’attenzione nei confronti di realtà teatrali contemporanee che vengono anche al di fuori di Napoli, pensiamo a Sala Ichos, a San Giovanni a Teduccio, nella parte orientale della città, che rischia ogni anno la chiusura e resiste con le sue forze. Un altro luogo indipendente e rilevante – soprattutto per la sua capacità pluriproduttiva – è il teatro Elicantropo gestito dal regista Carlo Cerciello e l’attrice Imma Villa. In quei pochi metri di palco dalla forma anomala ricavato da un ex monastero nel cuore del centro storico di Napoli, sono nati lavori come il recente Scannasurice, ripresa del primo testo di Enzo Moscato che ha riscosso favore di critica e di pubblico a livello nazionale. Il caso Elicantropo è significativo anche perché si mantiene soprattutto grazie alla scuola permanente di teatro, da anni una delle più richieste a Napoli e da fuori regione.
Mentre lo Stabile arranca, oltre ai luoghi off in città si registrano altre importanti novità.
La prima è il teatro Bellini, teatro privato (oggi Centro di produzione) dei fratelli Russo che negli ultimi anni hanno dato una veste nuova all’eredità paterna, tanto che il Bellini – con la sua sala grande che ospita le voci più importanti della scena italiana e la sala del Ridotto dedicata alle nuove realtà italiane e napoletane (la prossima stagione prevede un progetto di speciale di riscritture di Shakespeare che coinvolge il Nest, Punta Corsara, ma anche Serena Sinigaglia, Michele Santeramo, Edoardo Erba, Andrea De Rosa, Fabrizio Sinisi, Teatri Uniti), la capacità d’intercettare un pubblico giovane e trasversale – ha praticamente sostituito la funzione dello Stabile. Un’altra realtà notevole è il Nest, Napoli Est Teatro, ricavato dall’ex palestra abbandonata di una scuola di San Giovanni a Teduccio da un collettivo di attori e registi locali come Giuseppe Miale Di Mauro, Francesco Di Leva, Adriano Pantaleo. Oltre ad aver avviato, in questi pochi anni di attività, un ottimo lavoro pubblico in una zona complicata come quella di San Giovanni, il Nest ospita una stagione più che valida, così come alcuni esperimenti co-produttivi, come il recente adattamento eduardiano de Il Sindaco del Rione Sanità con la regia di Mario Martone.
Beni comuni e arti performative
Occorre ora fare un discorso a parte per un fenomeno tutto napoletano – ma, al contempo, profondamente europeo – che è anche una delle tappe più interessanti di questa piccola mappatura. Napoli appare oggi – ma questa è la sua natura – una sorta di ossimoro. Potenziale capitale nazionale di produzione culturale – fosse solo per l’impressionante stratificazione e quantità d’influssi, contaminazioni, identità che si sono avvicendate e mescolate, nel corso dei secoli, tra il tufo poroso e i basoli arrotondati delle sue strade – mentre dall’altro lato sembra una città sospesa in una bolla, anarchica, bloccata, per certi versi implosa, se pensiamo anche solo al cattivo uso delle risorse pubbliche del suo teatro Stabile e al rimpallo di responsabilità tra le varie forze politiche (Comune/ Regione) riguardo questa questione. Eppure, paradossalmente proprio in questi ultimi anni registriamo la comparsa di processi produttivi altri – completamente anomali e non strutturati e che riguardano non solo la produzione teatrale ma in generale tutto il comparto artistico e delle arti performative – che s’inseriscono nel più ampio contesto di «uso comune e civico degli spazi» sancito da una delibera comunale dello scorso gennaio 2016. Ad aprire la fila è stato l’ex Asilo Filangieri, ex sede del Forum delle Culture (mai partito) occupato circa cinque anni fa da un collettivo di lavoratrici e lavoratori «dell’immateriale» che diedero vita un esperimento ancora oggi in corso d’opera.
L’occupazione dell’Asilo s’inserisce in un periodo storico fiorente di occupazioni da parte di lavoratori dello spettacolo in tutt’Italia, mirate a sperimentare nuove formule del processo artistico produttivo, iniziate con l’esperienza del Teatro Valle a Roma e proseguite con Macao di Milano, la Cavallerizza di Torino, il teatro Garibaldi di Palermo etc. L’idea di supportare lo sviluppo indipendente del settore culturale a partire da processi di scambio e condivisione dal basso di artisti e cittadini è proiettata a livello europeo con una rete di centri culturali di cui lo stesso Asilo fa parte. Oggi – mentre scrivo Macao è all’asta – l’Asilo è l’unico luogo rimasto ancora attivo, proveniente da quel periodo di sperimentazioni in Italia. Dopo l’Asilo, in città altri spazi abbandonati sono stati “liberati” e restituiti alla cittadinanza, e molti di questi ospitano laboratori e singoli spettacoli. Con un forte nucleo di artisti, performer e studiosi e semplici curiosi al suo interno, oggi l’Asilo è uno dei luoghi di produzione culturale più interessanti della città poiché attraversato da un pubblico trasversale e trans generazionale, una comunità di persone che vedono, praticano, studiano il teatro e le arti performative sul contemporaneo in forme diverse e con modalità di accesso orizzontale e dal basso. Da circa tre anni l’Asilo ospita la Scuola elementare di teatro diretta da Davide Iodice, oltre singoli workshop e laboratori e incontri con registi, drammaturghi e danzatori e danzatrici da ogni parte d’Italia. In questo spazio sono nati lavori come il recente Requiem a Pulcinella (che sarà riproposto anche al Napoli teatro Festival), una notevolissima scrittura sulla terra dei fuochi di Damiano Rossi nata appunto all’interno della Scuola elementare di Davide Iodice.
Sempre all’Asilo è nato Aiace, nuova produzione di stabilemobile compagnia di Antonio Latella in coproduzione con l’Asilo, diretto da Linda Dalisi. Il lavoro ha debuttato al Festival Primavera dei Teatri di Castrovillari e proviene dall’esperienza di un laboratorio permanente che la regista e drammaturga conduce da anni con ragazzi napoletani e migranti (in collaborazione anche con Interno5, altro luogo vitale del mondo teatrale partenopeo). In una situazione nazionale e locale di totale scollamento tra individui e collettività e collettività e istituzioni – e tenendo conto di quanto invece la pratica e la fruizione teatrale e delle arti performative si basi in primo luogo sul rapporto vitale tra palco e platea e sulla costruzione di un’identità collettiva – a luoghi come l’Asilo va il merito di aver rinsaldato un senso di comunità che in una città come Napoli – divisa in tante piccole isole e famiglie – ogni tanto si perde. A chi, quindi, si domanda dove e se ci siano le nuove scritture/drammaturgie, risponderei provando a guardare la questione da un’altra angolazione: è importante anche capire se c’è una comunità pronta a ricevere queste eventuali scritture, una collettività che basa la sua vita quotidiana anche sull’arte e il teatro e sulla sua dirompente – e spesso dimenticata – potenzialità di raccontare, esperire, problematizzare la realtà circostante.
In chiusura di questa instabile mappatura prodotta, tra l’altro, alla vigilia della nuova edizione del Napoli Teatro Festival – nato, in origine, su modello di Edimburgo e Avignone, come un’invasione sistematica del teatro in tutti i luoghi della città e progressivamente rinchiusosi in spazi canonicamente teatrali – un’ultima breve nota proprio sui festival. In attesa di vedere come sarà il prossimo Teatro Festival che quest’anno ha visto un cambio nella direzione – dal regista di spettacoli/ grandi opere Franco Dragone a Ruggero Cappuccio, sicuramente più addentro al tessuto della città – segnaliamo, intanto, Efestoval, “Festival dei Vulcani”, ideato e diretto da Mimmo Borrelli, drammaturgo e attore di Torregaveta. Dopo soli due anni di vita, questo festival appare come un progetto più che valido per la proposta artistica, il legame col territorio – zona Flegrea, a pochi chilometri da Napoli, dove non c’è un solo teatro, difatti gli spettacoli vanno in scena in luoghi recuperati ad hoc – e l’attenzione mirata alla creazione e la formazione di un pubblico.
Quest’istantanea appena scattata è ancora fresca. Una volta che l’immagine si sarà impressa sul foglio e si sarà asciugata, allora sarà già passata. Prendiamola così.