Una conversazione con Ariella Aïsha Azoulay / Che cosa sta succedendo in Palestina? (2)
Maria Nadotti: Che cosa sta succedendo esattamente in Palestina? I media occidentali, prigionieri di uno schema interpretativo ‘prudente’ e a dir poco obsoleto, ripetono luoghi comuni che non fanno luce sul presente e non si sbilanciano sul futuro.
A.A.A.: Ci sono persone più adatte di me a commentare l’attuale situazione, soprattutto tra i palestinesi: come Lana Tatour, Noura Erakat o Salman Abu Sitta. I palestinesi si stanno ribellando contro il colonialismo sionista nell’intera Palestina. Lottano contro gli stessi meccanismi coloniali, brutali e oppressivi, che per decenni li hanno derubati e sottomessi. Ciò che rende diverso questo momento storico è il supporto globale che stanno ricevendo i palestinesi.
Questo supporto è la testimonianza di fratture sempre più evidenti nel sistema di propaganda israeliano, che per anni è riuscito a imporre la chiave di lettura entro la quale discutere di questo regime di violenza, utilizzando termini come “conflitto” e “due lati” (della questione). Dal 1948 i palestinesi lottano per la loro libertà e per il diritto al ritorno in Palestina, e le loro richieste di oggi non fanno altro che reiterare quelle avanzate fin da quando furono esiliati dal loro paese e caddero vittima della violenza dello stato sionista. Il supporto globale di cui ora godono è la prova che le popolazioni del mondo si oppongono al beneplacito che i loro governi continuano a offrire ai sionisti e contro i palestinesi. Furono i sionisti a colonizzare la Palestina, ma non dobbiamo scordare che ricevettero il supporto di molti poteri imperiali, che avevano interesse a contrapporre i sionisti (all’epoca per la maggior parte ebrei europei) agli arabi e al mondo musulmano.
MN: Si tratterebbe dunque dell’ennesimo capitolo di un conflitto di stampo coloniale, in cui, malgrado tutto, il colonizzato non cede e si permette perfino di non rinunciare in toto alla difesa?
A.A.A.: I colonizzati non si sono mai dati per vinti. Per decenni, milioni di rifugiati palestinesi hanno continuato a trasmettere ai loro discendenti l’attaccamento alla Palestina e un senso di appartenenza all’identità palestinese; mentre i colonizzatori dappertutto si aspettavano che le vecchie generazioni morissero e le nuove dimenticassero, milioni di palestinesi in tutto il mondo non hanno ceduto e non si sono arresi.
MN: In che cosa, a suo parere, la rivolta palestinese in corso differisce dalla prima e dalla seconda Intifada, iniziate rispettivamente nel 1987 e nel 2000, entrambe a seguito di atti di provocazione analoghi a quelli che hanno innescato la rivolta attuale?
A.A.A.: L’immaginario imperialista e la tecnologia violenta dell’archivio ci spingono ingannevolmente a partecipare al processo di frammentazione di qualunque lotta anti-coloniale e anti-imperialista. Era nell’interesse e nelle mire di molti il dipingere la resistenza palestinese come un fenomeno iniziato solo nel 1987, ma in realtà questa è iniziata nel 1948, con i continui tentativi di decine di migliaia di palestinesi di tornare alle loro case. Israele ha intrapreso una guerra contro di loro, li ha chiamati “infiltrati” e li ha giustiziati al confine, ricevendo supporto internazionale per aver “difeso” i “suoi” “confini”. Ho messo apposta ciascuna parola tra virgolette, come opposizione all’imperialistica demarcazione spazio-temporale implicita in esse, che vede il diritto dello stato imperialista di difendere se stesso e i confini imposti ai palestinesi per costringerli fuori dalla loro patria. L’attuale ondata di resistenza accende una speranza di decolonizzazione, ma non c’è motivo di dissociarla dalle sue manifestazioni precedenti, accadute durante gli ultimi 73 anni.
MN: Quali saranno gli effetti e le ripercussioni di questa sollevazione e di quanto sta accadendo, sia nel campo palestinese sia in quello israeliano? Le leadership politiche di entrambi i paesi sembrano in agonia, scavalcate dal basso sia in Israele sia a Gaza e nei Territori occupati.
A.A.A.: Vorrei innanzitutto ricordare che non ci sono due stati, ci sono colonizzati e colonizzatori. I colonizzati sono coscienti della propria posizione e lottano di conseguenza, in reazione alle ingiustizie perpetrate ai loro danni; i colonizzatori sono invece in uno stato mentale di perenne negazione e giustificano la loro violenza genocida, così come la strutturale espropriazione dei beni dei palestinesi, con narrative inventate riguardo allo stato di precarietà in cui si trovano nei confronti di coloro che attaccano e derubano. Ai bambini ebrei, figli dei coloni, viene insegnato che sono ‘israeliani’, senza sapere che quest’identità è parte di un regime di violenza nei confronti dei palestinesi, esercitato proprio dallo stato che di quest’identità li ha investiti.
Questa è la ragione per cui, in risposta alla resistenza palestinese contro i propri colonizzatori, la maggior parte dei cittadini ebrei dello stato, prigionieri da decenni del sistema educativo e mediatico coloniale, che genera e diffonde menzogne sistematiche sul crimine organizzato che è il saccheggio della Palestina, non si unisce al resto del mondo scendendo in piazza a protestare per esprimere il proprio sostegno ai palestinesi sotto attacco. Poiché essere ‘israeliani’ significa un’esistenza votata a rifiutare ai palestinesi il diritto di ritorno, ho smesso di identificarmi con l’identità israeliana assegnatami alla nascita e ho rivendicato quella di discendente dei miei avi in Palestina: gli ebrei palestinesi. In qualità di ebrea palestinese non ho alcun dubbio su quale sia la lettura della situazione attuale: un regime coloniale che utilizza mezzi sempre più violenti per riprodursi.
MN: Nell'attuale sollevazione c'è un elemento che si tende a considerare nuovo: la solidarietà dei palestinesi che vivono in Israele e che sono cittadini dello Stato ebraico. Come interpreta la loro rivolta? La loro ferma reazione a ciò che sta accadendo a Gaza e nei Territori occupati ha qualche possibilità di modificare l'attuale equilibrio politico?
A.A.A.: Questo non è un elemento di novità. I palestinesi non hanno mai creduto alle modalità usate dallo stato israeliano, tese a frammentarli e investirli di identità diverse. Non è facile resistere alla violenza organizzata di uno stato coloniale, ma anche quando i palestinesi non hanno opposto resistenza in modo aperto, ciò non significava che avessero ceduto o si fossero arresi. Prima di riversarsi nuovamente sulle strade per protestare contro l’attacco genocida su Gaza, protestavano per lo sfratto delle famiglie di Sheikh Jarah a Gerusalemme e contro l’invasione della moschea di Al Aqsa.
MN: La cosiddetta soluzione dei due stati è, come lei teorizza da anni, assolutamente impraticabile. Eppure, in Europa e negli Stati Uniti, c’è chi continua a sostenerla, forse per non uscire dall’impasse e lasciare che le cose vadano avanti con la ferocia di sempre. Qual è oggi la sua posizione in proposito e che cosa prevede?
A.A.A.: La “soluzione dei due stati” ha le sue radici nel pensiero imperialista europeo e nelle modalità di governo coloniali che usavano la partizione. Fin dall’inizio del mandato britannico in Palestina (un altro sistema imperialista), gli inglesi hanno studiato un piano per dividere la Palestina e “offrire” terre ai sionisti, terre che non avevano diritto di offrire siccome non appartenevano a loro. Anche se lo stato sionista è emerso da una risoluzione di partizione di questo tipo, la realtà sul campo, creatasi in settantatré anni di colonizzazione della Palestina, è quella che vede un unico stato. Mostrare di supportare la “soluzione dei due stati” significa fondamentalmente una cosa: rubare ancora più tempo, terra e speranze ai palestinesi. La Palestina non ha bisogno di altre soluzioni imperialiste, specialmente non di una visione basata sulla sua frammentazione. I palestinesi stanno chiedendo di essere liberi. La Palestina dovrebbe essere libera dal regime coloniale. Con ogni violento attacco a Gaza, come quello attualmente in corso, è sempre più difficile non associare mentalmente i sionisti con i colonizzatori francesi in Algeria. Ma mentre l’Algeria e la Francia erano geograficamente separate, quello che molti non capiscono è che la Palestina e Israele esistono nella stessa unità territoriale. Quindi continuare a parlare della parcellizzazione di quest’unità in due stati distinti equivale a mantenere vivo l’inganno imperialista.
MN: Oggi lei vive negli Stati Uniti. Che cosa pensa della politica estera del neoeletto presidente Biden nei confronti di Palestina e Israele? C'è un umore 'nuovo' nel Paese rispetto allo scenario mediorientale?
A.A.A.: No. Credo che in Europa e negli Stati Uniti la gente non capisca quanto il supporto di Biden per il diritto dello stato sionista di difendersi sia stato letale. Quest’asserzione imperialista contro i palestinesi è stata usata dal governo israeliano quale un lasciapassare senza limiti per compiere la sua violenza genocida. La gente dovrebbe ricordarsi di questo: Gaza è la più grande prigione a cielo aperto del mondo e, come ha scritto Salman Abu-Sitta, “bombardare due milioni di persone in 360 chilometri quadrati dall’aria, da terra e dal mare è Genocidio.”
(Milano, 21 maggio 2021).
Note bio-bibliografiche:
Ariella Aïsha Azoulay, Professor of Modern Culture and Media and Comparative Literature, saggista e curatrice di archivi e mostre, è una ebrea palestinese nata nella Palestina occupata.
Tra i suoi libri, ricordiamo: Potential History – Unlearning Imperialism (Verso, 2019), Civil Imagination: The Political Ontology of Photography (Verso, 2012), The Civil Contract of Photography (Zone Books, 2008) and From Palestine to Israel: A Photographic Record of Destruction and State Formation, 1947-1950 (Pluto Press 2011). Tra i suoi film: Un-documented: Undoing Imperial Plunder (2019), Civil Alliances, Palestine, 47-48 (2012). Tra le mostre: Errata (Tapiès Foundation, 2019, HKW, Berlin, 2020), e Enough! The Natural Violence of New World Order, (F/Stop photography festival, Leipzig, 2016). Il suo ultimo film è: Un-Documented – Unlearning Imperial Plunder (2019).
La traduzione di questa conversazione è di Irene Gilodi.
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