A che punto è la scena? / Premi Ubu, politiche e mondi possibili
Fine dell’anno. Tempo di bilanci. Anche nel periodo che stiamo vivendo, stretto fra l’impossibilità della rimozione di quanto accaduto e l’altrettanto comprensibile esigenza di andare avanti; nel permanere di uno schiacciamento sul presente che impedisce di affrontare un passato ancora in fase di elaborazione e però, perciò, pure di costruire un domani possibile.
Sarà rischioso, tendenzioso, vano, ma è un esercizio di analisi dell’accaduto – e, perciò, anche un po’ di immaginazione del futuro – quanto mai necessario. Anche perché a fine anno si affastellano occasioni di questo tipo, fuori e dentro casa, in teatro come altrove: dall’orizzonte imminente della domanda ministeriale per il nuovo triennio Fus, all’ormai fittissima moltiplicazione di premi che in Italia costella la chiusura dell’anno solare. Fra questi, il più storico e forse celebre: il Premio Ubu voluto da Franco Quadri, la cui 43a edizione, doppia stagione 2020-21, si è svolta il 13 dicembre al Cocoricò di Riccione e in diretta su Radio3.
Che senso ha, dopo anni come questi – trafitti da difficoltà personali e collettive enormi –, dare riconoscimenti di questo tipo? Com’è possibile impegnarsi in un simile proposito, con tutto quello che è successo e sta succedendo? Pensare al miglior spettacolo, testo, regia, quando fuori è tutto in un disequilibrio talmente temporaneo da parer posticcio, sempre a un passo dal crollo?
Chi scrive – va detto subito – fa parte di un Comitato di gestione del Premio, assieme a Lorenzo Donati, Laura Gemini, Maddalena Giovannelli, Graziano Graziani, Leonardo Mello e Rossella Menna. Che senso poteva avere realizzare questa edizione, ce lo siamo chiesti tanto. Ma, alla fine, abbiamo ritenuto, a fronte di un anno saltato nel 2020, di doverci almeno provare, per tentare di fare i conti – con tutti i limiti del caso – con quello che sta capitando.
L’esito di quest’impresa, sostenuta dall’Associazione UbuperFQ, da chi ci lavora e da più di 60 critici-referendari/e, è come sempre sotto gli occhi di tutti. Nelle sue luci come nelle sue ombre, dà da discutere, da pensare; o, meglio, in particolare per quanto riguarda quest’anno doppio e strano, da ripensare.
Ma questo non è un intervento sui Premi Ubu o sui loro risultati, sul loro presente passato futuro. Non è un rendez-vous esaustivo, né potrebbe esserlo, per via della ovvia parzialità, in tanti sensi, di chi scrive. Vuole solo essere la condivisione di alcuni ragionamenti stimolati da questa e altre occasioni di riflessione, in un modo o nell’altro sempre cartine tornasole importanti che permettono di intercettare alcuni fenomeni in essere, utili da osservare e discutere assieme.
Anche adesso, nonostante tutto, mi pare siano venute alla luce tendenze significative dello strano tempo che stiamo vivendo, nonché dei modi in cui lo si sta pubblicamente affrontando. Da un punto di vista preciso, sostanziale per quel che mi riguarda: quello delle politiche culturali-teatrali messe in atto in campo istituzionale, al fine di favorire la tanto anelata ‘ripresa’ delle attività di spettacolo.
Per questo, verranno citati solo alcuni riconoscimenti, di carattere non convenzionalmente ‘artistico’ (i migliori spettacoli, regie, drammaturgie varie, etc.) ma curatoriale/organizzativo. È anche perché questo tipo di segnalazioni consentono un confronto diretto, nel merito, con le progettualità in corso e – quasi sempre in contrappunto – col modo in cui vengono interpretate, accolte, più o meno sostenute all’interno del sistema. In pratica, è come mettere due mondi (e due politiche) a confronto: il teatro che si fa, che si è fatto, con le sue spinte, istanze ed esigenze; e il teatro che verrà, per come sarà normato, sostenuto e indirizzato.
Altri teatri di questi tempi
Un primo elemento di interesse proviene dai Premi Ubu “speciali”, come di consueto principale bacino di proposte innovative o anche disallineate.
Nel 2020-21 sono stati attribuiti a Now/Everywhere, una delle prime rassegne di spettacolo dal vivo in digitale, organizzata durante il primo lockdown da Amat, il circuito marchigiano diretto da Gilberto Santini; al Gruppo di Lavoro Artistico (Gla), con cui nella stagione scorsa il Metastasio di Prato, al tempo guidato da Franco D'Ippolito, ha voluto continuare a operare, seppur a porte chiuse; Lingua Madre – Capsule per il futuro, un progetto avviato in condizioni simili al Lac di Lugano su idea di Paola Tripoli e Carmelo Rifici; Politico Poetico, con cui il Teatro dell'Argine ha ripensato il proprio lavoro con centinaia di adolescenti del territorio bolognese; Indifferita di Frosini/Timpano, programmazione teatrale quotidianana su YouTube che è stata una delle primissime reazioni allo scoppio della pandemia nel marzo 2020; e, infine, Radio India, generata da un percorso di abitazione dell'omonimo teatro romano, con cui gli artisti residenti hanno riconfigurato le proprie attività in un particolare palinsesto radiofonico, sempre al fine, da un lato, di continuare a operare e, dall’altro, di mantenere un rapporto col pubblico.
C’è di tutto. Da un Teatro Nazionale, ancora in cerca di un direttore, che stava sperimentando una peculiare modalità di lavoro, a un Circuito multidisciplinare, fra i pochi che da tempo non si occupa più soltanto di programmazione in termini tradizionali; da uno dei Tric più sensibili alla ricerca fino alle compagnie, che sorprende conquistino il loro primo Ubu, non in categorie di carattere convenzionalmente ‘artistico’, ma per attività che trascendono di molto il concetto tradizionale di “impresa di produzione” e sfumano, fatalmente, verso orizzonti curatoriali e relazionali.
Che cos’hanno in comune questi progetti, dalle provenienze, modalità e finalità così diverse? Tutti, nel pieno dell’incertezza che ci ha travolti, in quella ‘disperazione’ – come l’ha chiamata Daniele Timpano – inattesa e totale, professionale come personale, hanno provato a ripensarsi, radicalmente, rispetto a quello che si poteva fare; hanno voluto continuare a lavorare; a riunire comunque comunità possibili, tanto nella produzione quanto nella fruizione. Cioè, nonostante tutto, a fare teatro.
Sono tanti, sei Premi speciali, anche se la stagione Ubu stavolta è doppia, coprendo due anni. Ma forse, si potrebbe dire, sono appena abbastanza. Perché, a fronte della chiusura dei teatri, ci sono anche altri – non moltissimi, ma ci sono – che da Sud a Nord, dalle periferie ai centri, hanno battuto simili piste alternative, sempre in maniera del tutto spontanea e non obbligata. Molti non sono censiti dai vari riconoscimenti di fine stagione, altri lo sono in categorie diverse.
Chi o cosa gliel’ha fatto fare, sarebbe una domanda giusta. Visto, peraltro, che l’elargizione del Fus “a fondo perduto” nei due anni passati non imponeva alcun indirizzo nell’utilizzo dei fondi né tantomeno – se non tardivamente e in minimissima parte – una qualche forma di loro ridistribuzione (sui lavoratori, sui territori, nei diversi anfratti del sistema).
Una risposta, del tutto arbitraria, fra le molte: pur potendo restare in attesa di tempi migliori, può essere stata la pratica di un’azione volta a prefigurare altri teatri (e mondi) possibili, che molti di loro stavano in verità già testando fin da prima.
Così si concludeva l’intervento – letto solo in parte – di Radio India alla serata di premiazione degli Ubu: “Possiamo e dobbiamo fare in modo che, per chi venga dopo, possa essere così, non vi pare?”
Colpisce, a fronte di questi sforzi, non solo che abbiano ottenuto riconoscimenti tutto sommato limitati all’eccezionalità che li ha stimolati. Stupisce soprattutto – stando ai Decreti che hanno cominciato a circolare quest’autunno – che, a quanto pare, tutte queste spinte abbiano trovato riscontro quasi nullo nelle ottiche delle prossime politiche teatrali nazionali, che paiono a prima vista recepire poco sia i contenuti di queste (e altre) proposte di ripensamento, sia, in generale, la necessità stessa di un cambio di passo.
Tenendo conto che il punto non è solo o tanto, per esempio, la questione della pandemia, del digitale, men che mai del nuovo. Qui si tratta invece di percorsi che mettono a fuoco temi di ben più ampia portata, decisamente critici e/o in crisi fin da prima. Tanto per fare qualche esempio: dalle modalità possibili di lavoro in un teatro pubblico alla necessità di discutere la ridistribuzione delle risorse. “Solo accettando il fallimento in cui siamo sprofondati potremo muovere ipotesi di prossime realtà”, si legge nella comunicazione che lanciava il progetto Lingua madre.
La situazione che stiamo vivendo – come in altri settori di lavoro e di vita – ha contribuito ‘solo’ a illuminare problemi del genere più chiaramente. E si poteva – si può ancora? – utilizzare il tempo sospeso per immaginare, di conseguenza, una politica teatrale nazionale differente. Per ora, così non è stato.
Ci sarebbe un’ulteriore tendenza da osservare, sempre non nuova, affiorata in questi ultimi mesi e complementare: il Premio ‘in emergenza’ assegnato a Kilowatt Festival (ma l’inventario delle zone teatrali attualmente a rischio potrebbe ampliarsi, disegnando un arco che va da Kronoteatro di Albenga a Primavera dei Teatri, quest’anno saltato, passando da Sardegna Teatro). Ma si aprirebbe un’altra storia, che ha bisogno di tempo e spazio per essere adeguatamente approfondita.
In generale, colpisce che soggetti così – evidentemente, purtroppo solo in apparenza – consolidati, seguiti, apprezzati, con tanto di finanziamento ministeriale, possano da un momento all’altro trovarsi a fare i conti con la possibilità stessa della loro esistenza. Senza che nessuno dica nulla – a parte gli operatori stessi –, vegli su ciò che accade o chieda conto di cosa sta succedendo, dopo anni di investimenti di soldi pubblici, nostri.
Il tema dei rapporti fra centro e margini è sconcertante in generale. Ma diventa incandescente in tempi duri come questi e i prossimi: in cui, più e oltre che il solo sostegno economico (comunque fondamentale), darebbe sicurezza, e quindi forse la forza di andare avanti – non dico addirittura, in caso, di ripensarsi guardando al futuro –, prima di tutto un sostegno di tipo politico trasversale, capace di garantire quantomeno di attraversare insieme la fase attuale.
Un confronto con lo sguardo
Più che “non tornare alla normalità, perché la normalità era un problema” – come recitava un pensiero condiviso globalmente durante il primo lockdown –, mi pare che ci stiamo tornando di corsa, il prima possibile, nel bene e nel male. Dimenticando, rimuovendo, azzerando, sia la tragedia che ci ha colpiti come persone e come collettività, sia le più o meno forti esperienze di ripensamento che si stavano testando, talvolta fin da prima; che stiamo passando sopra all’accaduto, mancando il confronto con il cambiamento; finendo col ricalcare modelli già da tempo chiaramente esauriti e problematici. A che fine, poi? Per ripartire? Ma da cosa, e, soprattutto, per andare dove?
Provando a chiudere il cerchio – naturalmente per riaprirlo in altre direzioni possibili – e tornando al contesto di partenza dei ‘bilanci di fine anno’, dei premi e dei riconoscimenti, si tratta di domande che hanno strettamente a che fare con un ‘convitato di pietra’ ancora non nominato.
Il Premio Ubu è particolare, unico nel suo genere: Quadri l’ha voluto affidare a un’ampissima compagine di critici, osservatori, studiosi (al momento circa 70), di diversa provenienza, formazione, visione. Funziona come un referendum, cioè ciascuno dei votanti ha in prima battuta la possibilità di esprimere del tutto liberamente le proprie segnalazioni (si possono leggere qui); mentre arrivano alla finale le realtà che a questo livello raccolgono più preferenze.
È questa la sua peculiarità, che può piacere o meno, e soprattutto dar da pensare; che sa generare al tempo stesso criticità e aperture, oltre il Novecento in cui il Premio è nato, in un tempo in cui i meccanismi democratici di rappresentanza sono fortemente in discussione e l’intensità dei rapporti genera bolle micro-comunitarie sempre più difficilmente in dialogo. Ma è proprio per questo che l’Ubu è e rimane uno dei pochi momenti di confronto trasversali nel sistema teatrale italiano; che bene o male riesce a restituire in qualche modo una cartografia del presente; e che, non da ultimo, rende anche un’immagine della critica che si pensa e si fa.
I ragionamenti condivisi in questo articolo, in verità, hanno a che fare anche con questo: con il senso, il ruolo, l’azione della critica in un tempo così particolare (ma, in verità, anche queste sono domande affioranti ben da prima).
Perché qualunque tentativo di analisi del passato, a partire dal presente, per guardare al futuro, qualsiasi possibilità di saggiare lo stato di un ambiente conduce necessariamente, per vie dirette, a un indispensabile confronto con gli sguardi che lo osservano. I vari Premi che costellano le nostre stagioni, più o meno graditi, hanno anche questo pregio. Ma, appunto, pongono una questione forte, a cui non ci si può sottrarre: su com’è cambiata la funzione critica; su cos’è stato fatto, anche qui, in particolare negli ultimi due anni, ai fini del ripensamento di un mestiere già in crisi; su che stiamo guardando, e come; su cosa stiamo facendo e cosa, invece, potremmo fare, di più e meglio, per costruire assieme mondi diversi e possibili.