Los Angeles di Barcellona
Succede che si viaggi, che si abbia voglia ogni tanto di cercare un giardino più verde. Da quando la rucola al suo apparire copiosa sulle nostre tavole diversi anni fa si è insinuata, per lo più nella modalità di letto, nella nostra vita trascinandosi dietro prima i pomodori pachino, poi l’aceto balsamico, e poi i birrifici regionali, e i masterchef, e i vini docg e, giù giù, i voli low-cost, le piste ciclabili, il car-sharing, e insomma tutta l’omologazione degli stili di vita della società italiana, che è liquida, non legge e non ha laureati, il desiderio di spostarsi un po’ più in là può essere in certi momenti anche impellente.
E quando uno esce di casa per qualche giorno spera di trovare un giardino un po’ diverso, un po’ più verde, appunto, ma non è così facile, poiché sembra che il maglio cosmico del marketing abbia ridotto in poltiglia ogni folklore. Sono ancora pieni di energia i versi secchi e importanti di qualche anno fa del Cielo di Patrizia Cavalli “Ah, come è misero il destino dei viaggi / Dei milanesi in terre d’oltremare / O in mezzo al mare! Ormai lo so, / lo vedo bene, la gente in viaggio / non mi piace.”
Ma tant’è che si viaggia, ci si muove, e proprio durante uno di questi pacchetti-all-inclusive-con-trivago-e-selfie qualche giorno fa a Barcellona verso sera, l’ora delle ombre lunghe, come si dice, mi è capitato di vedere la massa delle persone attraversata da un gruppo di uomini e donne vestiti in abiti eleganti, giacche e camicie, tailleur, tutti ricoperti di fango color ruggine e gli occhi bendati.
Disposti in ordine sparso camminavano lentamente, molto lentamente e fendevano la folla che si ammassava attorno a loro e li accompagnava, li fotografava, e tutti bisbigliavano tra loro e si chiedevano che cosa stesse accadendo. Nessuno capiva. Gli uomini e le donne camminavano, muti e rigidi, ma fermi come i guerrieri cinesi di terracotta dell’esercito di Xian. La gente era imbarazzata, non sapeva se ridere, divertirsi o inquietarsi, alcuni guardavano intorno a quel manipolo di terrecotte semoventi alla ricerca delle camere da presa di un possibile surreale set cinematografico o televisivo, ma niente.
C’erano solo quegli uomini e quelle donne. In silenzio. Era chiaramente una performance, ma di chi non era dato saperlo.
Il giorno dopo, all’ora del pranzo, in una piccola piazza minore piena di gente e bambini, succede ancora che il silenzio domini la scena. Una voce molto energica, maschile, piena, vigorosa, ma anche capace di sfumature sui toni alti, precede un ragazzo, scalzo, con i jeans larghi appena arrotolati e un camicione molto grande verde, i capelli neri un po’ lunghi sulla fronte, che cammina rasente al muro, molto lentamente, ricorda il passo che si tiene nelle processioni, la mano destra è tesa in modo pudico, così che non sembri una vera richiesta di elemosina.
Suona la sua voce, nient’altro. L’ovale bianco del viso glabro è illuminato intensamente dal sole, non può avere più di diciott’anni. Un cenno lievissimo di insistenza nella sua richiesta, poco più che un’allusione, ma poi continua, lento e sfuma. Un angelo. La piazzetta poco lontano dal Palau de la Musica alla sua apparizione si ferma, imbambolata e “negata” per un po’ di secondi, poi tutto viene repentinamente inghiottito e la festa del viavai ricomincia. Quel canto ha imposto, a tutto, un silenzio, ha rotto il rumore della città. Insomma l'idea (antica) che siano le assenze a muovere il mondo, i manque, i silenzi tra una nota e l'altra, è apparsa corposamente probabile. Due episodi di silenzio, uno positivo, completamente strutturato e pensato, l’altro “negativo”, brado, libero, indocumentabile. Per un momento era come se la città mostrasse la sua “corda pazza”.
Ora concretamente non so che farmene di questa idea, non potrei in nessun modo trasformarla in comportamento, non saprei generalizzarla, ma quei due silenzi, quegli angeli passati di lì è come se avessero prodotto un'istanza su cui lavorare. I francesi per ricordarti che si deve morire usano dire proprio così: “un ange passe”. Nella fissità dei luoghi, in una città che mi è nota, è comparsa l’unicità dell’happening spontaneo, il sorprendente della dinamica umana, che è inesauribile. Lo sfregarsi delle due pietre focaie dell’avvenuto e del possibile ha agito una volta di più, e si è formato un nuovo che non c’era. Los angeles di Barcellona.
Ho un esercizio del mondo basso e relativo. Come molti. Quasi tutti. Le giornate scorrono tra incombenze approssimative come fare la spesa e assunti mentali routinari quasi scanditi dall’orologio, alle dieci rifletto genericamente sul mondo attraverso un quotidiano, alle due penso al film che vorrei vedere la sera, il resto è lavoro, non sempre esaltante ed emozionante, la sera… dormo. Le cose grandi mi toccano, naturalmente, e succede a chiunque intessa relazioni e intraprenda attività. Le idee forti e le meditazioni cruciali fanno parte della vita quotidiana, lì per lì magari non le riconosciamo e ci pare di non pensarle, ma esse si insinuano nella nostra giornata perché sono essenze che abbiamo e con cui facciamo i conti. E io sono quello che sono per quelle mie (nostre) essenze.
E questa è la dura fatica della complessità della vita. Cambia l’angolatura di osservazione se hai in mente strutture di pensiero più o meno articolate, ma, per dire, il godimento fisico o la ebbrezza negativa del dolore si assomigliano, eccome. Siamo “bassi” e “relativi”, ma non privi di reattività e le emozioni potenti lavorano in noi con la medesima virulenza e dolcezza. Quando le persone si scambiano per strada, in autobus, in treno i loro discorsi è come se scoperchiassero le loro nature, un tradire o forse tagliare quel diaframma che separa l’esistenza effettiva dall’immagine che invece la loro esteriorità suggerisce. Il silenzio le premierebbe, le conserverebbe sul piedistallo ologrammatico su cui ciascuno di noi vedendole le pone. Il silenzio è il raggio a infrarosso che proietta ciascuno di noi sugli schermi degli altri.
C’è uno sfondo antropologico in cui tutto avviene nel quale, pare, dal neolitico in qua abbiamo ancora a che fare con caratteristiche del vivere che sono sempre le stesse, «dominio maschile, esito bellico e militare dei conflitti intraspecifici, dieta carnea, relazioni apotropaiche con i defunti, culto di divinità e/o potenze extracorporee» secondo la stupenda sintesi proposta da Giovanni Leghissa nell’ultimo numero di “aut-aut” dedicato a La condizione post-umana.
Ma quei silenzi di Barcellona, quegli angeles, mostrano la loro potenza nel momento in cui ci rinviano alla nostra incompiutezza, alla nostra irrisolutezza, alla nostra perfettibilità inesausta, a un bisogno di progressione infinita. Qui i discorsi si farebbero molto complicati, sistemi etici da chiamare in causa, sostenibilità economico-ambientali, filosofie, da cui potremmo essere indotti a sbandare in altre direzioni. Ciò che conta, mi sembra di poter dire, è l’infinito levigare degli uomini su se stessi. A Barcellona o altrove, purché ci sia un angelo che passa.