Il felice niente di Patrizia Cavalli

19 Agosto 2024

Il volume einaudiano Il mio felice niente. 1974-2020 (Einaudi, 2024, da un verso di Vita meravigliosa, l’ultima raccolta dell’autrice) che antologizza ampiamente l’intero percorso poetico di Patrizia Cavalli, è preceduto da una lucida e partecipata prefazione del curatore Emanuele Dattilo in cui si trova un proponimento che mi sento di condividere in toto: “Deve esistere un modo per parlare di Patrizia Cavalli senza cedere alla sua tentazione, senza ricorrere né alle distanze critiche né alle prossimità amicali, e dunque per uscire dall’equivoco del personaggio, su cui troppi si soffermano”. 

Infatti, una poesia così radicalmente focalizzata sull’io, su un quasi ininterrotto “discorso amoroso”, sulla quotidianità e la corporeità, ricca inoltre di caustiche pointes epigrammatiche, ha alimentato nel tempo un filone di articoli e interviste tra il glam e il confidenziale in cui momenti di vita quotidiana, intimità, insofferenze caratteriali, persino bollettini clinici venivano fatti specchiare – e non era difficile – nelle poesie. Si creava così un singolare cortocircuito tautologico che si appagava del fatto che la poesia trovasse riscontri nella vita e viceversa (ancora Dattilo: “La grande tentazione, se si parla della poesia di Patrizia Cavalli, è parlare di Patrizia Cavalli”).

Tutto ciò non aggiungeva molto all’intendimento di una delle pronunce realmente inconfondibili della lirica italiana dell’ultimo mezzo secolo. Infatti, benché onnipresente sulla scena, la voce che dice io riusciva sempre, con colpi d’ala spesso geniali, a creare uno scarto tra la gravezza (o anche l’esaltazione) della quotidianità e una diversa dimensione delle cose, che è appunto la poesia. 

Dattilo suggerisce, invece, un’altra strada per entrare nell’universo della Cavalli, ossia indagare la lingua della sua poesia, nella quale si ritrovano corpo, immaginazione, sensi, carattere; e questa lingua avrebbe i caratteri dell’“esattezza”, dell’“inclinazione estatica” – per la sua capacità di aprire l’io a tutto ciò che di bene o di male, di gioioso o doloroso, cade sotto il suo sguardo – della capacità di “ricreare il mondo” (“ricreazione” che raramente è fenomenologica, poiché l’io vi partecipa sempre), infine dell’“innocenza”, intesa, sembra di capire, come sorgiva naturalezza, o capacità della lingua stessa di nominare le cose in maniera diretta, senza ricorrere a perifrasi o a stereotipi. 

Categorie che, alla prova (precisando che l’esemplificazione che segue è di chi scrive), si rivelano funzionali a cogliere molti elementi della poesia di Patrizia Cavalli. 

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Esattezza: 

Fra tutte le distanze la migliore possibile / è quella di un tavolo di normale grandezza, / di ristorante per esempio o di cucina, / dove possibilmente io possa raggiungerti / ma in verità non lo farò. / E fuori la stessa luce di ieri, lo stesso azzurro (da Il cielo, p. 42).

Inclinazione estatica:

Com’era dolce immaginarmi albero! / Mi ero quasi in un punto radicata / e lì crescevo in lentezza sovrana. / Io ricevevo brezza e tramontana, / carezze o scuotimenti, che importava? / Non ero io a me stessa gioia né tormento, / io non potevo togliermi al mio centro, / io senza decisioni o movimento, / se mi muovevo era per il vento (da Sempre aperto teatro, p. 125).

Ricreare il mondo:

In un punto del loro acuto svolgersi / s’empivano di verde gli occhi del gatto, / specchio brevissimo e attento / degli alberi e dell’erba. E ripeteva il gesto / senza saperne lo splendore (da Le mie poesie non cambieranno il mondo, p. 8).

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Immobile nel centro delle cose / senza gerarchia nella materia / tutta materia dolce in varie forme / ognuna forte nobile e assoluta / cedevolmente appaio alla natura, / io senza proprietà, di nuovo sua (da Sempre aperto teatro, p. 139).

“Innocenza”

L’educazione permette di mangiare / con educazione e permette / altre cose; ma se vuoi volare / le ali si hanno o non si hanno (da Le mie poesie non cambieranno il mondo, p. 16)

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È tutto così semplice, sì, era così semplice, / è tale l’evidenza che quasi non ci credo. / A questo serve il corpo: mi tocchi o non mi tocchi, / mi abbracci o mi allontani. Il resto è per i pazzi (da Pigre verità e pigra sorte, p. 195)

Viene voglia di integrare la efficace “griglia” di Dattilo con una ulteriore suggestione: quando le poesie di Cavalli si concentrano espressivamente e si riducono alla misura brevissima, ecco che ci sembra di uscire di colpo dalla contemporaneità per ritrovarci di fronte a folgoranti epigrammi da antologia Palatina se non addirittura da lirica greca arcaica:

Riderò sparlerò / racconterò bugie. / E domani l’avrò già dimenticato. (da Le mie poesie non cambieranno il mondo, p. 15)

O gloria del mattino! / E parola sia con parola. (da L’io singolare proprio mio, p. 102)

Queste lesbiche artistiche / devote alla magrezza! / Ma ingràssati, ingràssati, / ti tengo meglio stretta. (da Sempre aperto teatro, p. 147)

Prendimi adesso tra le tue braccia / adesso sciolta da me raccoglimi / non per ridarmi forza / ma perché io possa arrendermi. (da Pigre divinità e pigra sorte, p. 165)

Avere sottomano un libro che delinea un itinerario di tutta la poesia della Cavalli (itinerario reso purtroppo definitivo dalla scomparsa dell’autrice nel 2022) porta inevitabilmente la tentazione di voltarsi indietro e di provare a vedere come questa poesia si è fatta strada in un panorama poetico che, soprattutto agli esordi, era particolarmente affollato. 

La prima raccolta, Le mie poesie non cambieranno il mondo, risale infatti al 1974. 

In che scenario, dunque, si calava quell’autrice ventiseienne e quel suo primo libro, così fortemente sostenuto – come ricorda Dattilo – da Elsa Morante, che proprio nello stesso anno pubblicava La storia?  

In una delle antologie importanti di quel periodo (Poesia degli anni Settanta, a cura di Antonio Porta. Prefazione di Enzo Siciliano, Feltrinelli 1979) il prefatore registrava un “pullulare di nomi” che si affacciavano alla ribalta e un gran fervore di “letture pubbliche, festivals, spettacoli” di poesia. Un fervore che Siciliano osserva con una certa diffidenza: «In questo prodursi di poesia incontriamo un frenetico crescere ed erompere dell’esistenza […] Questa poesia tutta rigoglio esistenziale, che suggerisce idee di stile più che essere uno stile, presume di coincidere, nella totalità, con la vita in maiuscolo […] Nato dalla irreversibile crisi delle ideologie, finisce per trasformarsi in un linguaggio istintuale, o in un linguaggio “privato”».

Legati a una valutazione negativa di questa “crisi delle ideologie” (che quando si trasferiva dalla politica alla poesia significava soprattutto la crisi delle “avanguardie” e delle poetiche fortemente strutturate) Porta e Siciliano non antologizzano Patrizia Cavalli e nemmeno la citano. 

Tornando su quegli anni a distanza di molto tempo, Gianluigi Simonetti (“Le parole e le cose”, 1 giugno 2012) ci illumina indirettamente sulle ragioni della mancata iniziale ricezione da parte di questo settore importante e militante della critica:

«A metà degli anni Settanta diventò chiaro che si stava ricominciando da un grado zero dell’autocoscienza storica (…). Niente più impegno né avanguardia. Cioè niente rapporto dialettico tra poesia e storia, fra evoluzione o mutamento delle forme letterarie e processo storico».

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In questo “ricominciare da zero”, senza “impegno né avanguardia” Simonetti individua due posizioni, che chiama “euforica” e “disforica”. La seconda (incarnata, tra gli altri da poeti come Raboni, Valduga, Giudici, Fortini, Sanguineti) consisterebbe in una “nevrosi della fine” [della poesia] che conduce alla malinconia e a uno stile “postumo” rispetto alla modernità: una sorta di neo-manierismo. 

Per contro, la posizione “euforica”, che è quella della Cavalli (oltre che – con diverse gradazioni – di Alda Merini e Dario Bellezza, ma anche di Milo De Angelis, Conte, Mussapi) consisterebbe «nel ripristino a diverso titolo del mito della poesia come emergenza emotiva, comunicazione spontanea antecedente a qualsiasi stilizzazione – idea per cui in poesia è sempre possibile, e anzi si deve, ricominciare ogni volta da capo. La lirica in particolare viene qui intesa come bisogno insopprimibile, istinto primario sottratto al divenire storico

Ad ogni modo, la Cavalli procedeva nella sua scrittura; i suoi libri venivano pubblicati e soprattutto letti e trovava spazio nelle grandi antologie, per esempio nel Meridiano (1996) Poeti italiani del secondo Novecento. 1945-1995, a cura di Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi. Restava tuttavia una poesia di difficile catalogazione. Nel citato Meridiano Cavalli era rubricata in una sezione dal titolo non proprio illuminante: “Il pubblico della poesia” (insieme a Bellezza, Viviani, Cucchi, De Angelis, Conte, Lamarque, Zeichen). Puntuale e perspicuo, invece, il “medaglione” critico che le dedica Giovanardi, che parla di «Una fisionomia particolarissima: affatto immune sia da tentazioni sperimentali che da travestimenti mistico-analogici (e quindi lontanissima dall’epigonismo avanguardistico come dal neo-orfismo lussureggiante degli anni Settanta), la sua poesia pare resuscitare, più nelle intenzioni e nella poetica che nel disporsi della scrittura, l’immaginario crepuscolare. La dimensione del quotidiano eletta a luogo privilegiato di ispirazione, l’andamento colloquiale del discorso, il pullulare di oggetti “umili”, l’uso della rima con funzioni prevalentemente ironiche, e infine un certo protagonismo di un io che insieme si esalta, si compiange e si prende in giro». Giovanardi relativizza però questo presunto “crepuscolarismo”: «un soggetto effusivo e a suo modo arreso, sostanziato del proprio sentire più che dal proprio percepire, e comunque abissalmente distante dalle riduzioni oggettivizzanti e autoironiche del crepuscolarismo».

Sulla stessa linea, esprime un giudizio senza riserve positivo anche Cesare Segre, uno dei critici più selettivi, parco di parole e abituato a pesarle: «Il tratto distintivo di Patrizia Cavalli […] è un neocrepuscolarismo ironico, che dissacra ogni pretesa oracolare […]. Lo “sguardo a distanza” frena i rischi di effusività; l’io si osserva dall’esterno e osserva la propria finzione» (in Leggere il mondo, v. 8, Bruno Mondadori 2001).

Molto interessante, infine, il breve ma denso studio che, prendendo spunto dalla raccolta Datura (2013), ha dedicato alla Cavalli Mario Buonfiglio (in “Il Segnale”, 96), con un interessante focus sua versificazione, che oscilla tra misure regolari e dissonanze ritmiche e cerca di liberarsi – spesso non riuscendovi – dall’“endacasillabare” classico. Buonfiglio acutamente riallaccia la lirica della Cavalli – definendola “quasi filosofica” – a un filone che conduce da Cavalcanti ai razionalisti del Seicento, in virtù del fatto che questa poesia, anche quando parla dell’io, è ben lontana dalla psicologia, in quanto le dinamiche del sentimento sono spesso ricondotte ad azioni, immagini concrete, corporeità. 

Sulla scorta di questa sia pure sommaria storicizzazione critica, invitiamo i lettori a percorrere liberamente le circa 250 pagine del volume con la ragionevole sicurezza che andranno incontro al piacere di una continua scoperta. 

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Mario Barenghi | Patrizia Cavalli, con passi giapponesi
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Enrico Palandri | Patrizia Cavalli: dove arriva la poesia

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