Costruire sicurezze, demolire certezze

21 Luglio 2014

“Ci sono luoghi come le strade secondarie male illuminate, dove l'atmosfera stessa può istigare a delinquere anche una persona di buon senso”, fa dire Irvine Welsh all'odiato capo ispettore Toal nel romanzo Il lercio. Questa frase sintetizza esattamente le teorie su cui si fonda la progettazione securitaria: la configurazione di un luogo può favorire l'insorgere di comportamenti criminali.

 

 

A partire dal 1972, Oscar Newman grazie a questo assunto diffuse la propria teoria del Defensible Space (successivamente ribattezzata CPTED – Crime Through Environmental Design – nome “scippato” al criminologo Charles Jeffery) in tutto il mondo e nei paesi anglosassoni in particolare. E proprio in Inghilterra le polemiche riguardanti alcune soluzioni utilizzate per dissuadere lo stazionamento dei vagabondi – anticamera del degrado urbano, secondo alcuni – hanno suscitato nuovo interesse sulla relazione tra spazio urbano e sicurezza. O per meglio dire, sicurezza percepita. Perché è scientificamente provato che a fronte di un decremento dei crimini, non sempre corrisponda una sensazione di maggiore sicurezza.

 

 

Qualcuno ricorderà di certo come, qualche anno fa in occasione delle elezioni politiche, in Italia la sicurezza divenne un mantra da utilizzare come clava verso gli avversari politici e come spauracchio per i cittadini ipersensibilizzati. I telegiornali parlavano delle città italiane come territori di violenza e paura e iniziarono a comparire Assessorati per la Sicurezza Urbana e task force apposite. Erano gli anni in cui Antonio Albanese inventava il personaggio del Ministro della Paura – “una società senza paura è come una casa senza fondamenta” – e in cui, però, i crimini più efferati accadevano in villette di località amene e non nei bui meandri della periferia degradata.

 

Fino a oggi il tema è stato ulteriormente sviluppato e la progettazione securitaria, negli Stati Uniti e nel Nord Europa in particolare, prevede delle figure e un protocollo chiaro e collaudato che garantiscono la riuscita, o il fallimento, di un intervento architettonico. A Manchester, per esempio, un'impresa di costruzioni che vuole edificare almeno 6 unità abitative deve rivolgersi alla società Design for Security, una struttura che fa riferimento alla polizia locale, per fare “revisionare” il progetto secondo il Crime Impact Statement. Il risultato è un certificato che garantisce l'aumento del costo per metro quadro (anche se di poco, assicurano) e l'abbassamento del premio assicurativo.

 

E, chissà?, un reale innalzamento della qualità della vita. In questa maniera, ALO (Architectural Liason Officer) e CPDA (Crime Prevention Design Advisor) sono i soggetti, tutti provenienti dalla polizia o ad essa collegati, con cui i progettisti devono confrontarsi affinché le loro proposte abbiano un riscontro positivo nell'opinione pubblica e una spendibilità sul mercato. Curiosamente, l'aspetto che non viene minimamente considerato in queste monolitiche teorie securitarie – per cui il risultato non può non essere conseguito se si mettono in pratica tutte le osservazioni – è il potere attrattivo del dissuasore, il fascino esercitato dalla trasgressione, non necessariamente criminale.

 

Quando i committenti del Phaeno Center di Wolfsburg imposero a Zaha Hadid di utilizzare un ghiaino speciale a prova di skateboard per ricoprire lo spazio sottostante il volume del museo e la corte anteriore, mai si sarebbero aspettati che una multinazionale come la Red Bull finanziasse un contest di skaters da tenersi propri in quegli spazi. O, come racconta benissimo il film Panic Room, che proprio la panic room realizzata per proteggere le protagoniste dai ladri sia l'oggetto di desiderio dei malviventi.

 

 

 

E mentre gli architetti devono sottoporsi alla correzione dei propri lavori per ottenere il “bollino blu” affinché possano realizzare la propria architettura (perché non si sta parlando solo di edilizia), gli artisti giocano con il tema cercando le falle nei sistemi di sicurezza urbana. Un esempio lampante è quello dell'olandese Sander Veenhof che nel 2009 realizza un sistema di “de-sorveglianza” – utilizzando l'impossibilità di una videocamera di Rotterdam di registrare un determinato colore blu – per creare un momento di happening in cui a ciascun utente viene fornito un indumento blu per poter scomparire dall'inquadratura.

 

 

La visione delle persone de-sorvegliate, sparite dall'immagine, mostra una realtà che non esiste ma è in corso, e smaterializza le paure (per esempio la visione di una donna in burka blu) che quotidianamente alimentiamo. Anche Desiree Palmen gioca la carta della sparizione dalle telecamere a circuito chiuso, mediante un camouflage camaleontico che contribuisce a integrare la propria figura con la realtà circostante.

 

   

 

I designer cercano, invece, di indorare la pillola mascherando i dispositivi di sicurezza o fornendo loro un'aria amichevole e familiare. Dissuasori scultorei a prova di autobomba, recinzioni metalliche con punte sagomate, materiali di rivestimento per scongiurare le effrazioni negli edifici, sedie antiscippo vennero messi in rassegna al MoMa di New York da Paola Antonelli nella mostra “ Safe: design takes on risk” nel 2005.

 

 

E in Italia? Il tema viene affrontato quasi sempre in chiave politica e, forse per questo motivo, in maniera poco lucida e sistematica. Prima che la gestione della sicurezza urbana venisse delegata a dispositivi occasionali – il muro di via Anelli a Padova, i braccioli nelle panchine a Bergamo o la rimozione delle stesse a Trieste – una riflessione seria era stata avviata dalla Regione Emilia Romagna con l'iniziativa “Città sicure” nel lontano 1994. Questo progetto, di chiara natura politica, si prefiggeva di “passare da un confronto sui dati di attività delle diverse agenzie formalmente preposte (polizie nazionali e locali, ministero dell’interno e prefetture), a un confronto sulle condizioni, sui problemi, e sulle priorità del governo della sicurezza in territori determinati”.

 

 

I documenti e i progetti proposti, con una forte inclinazione sociologica, fornivano nuove indicazioni sulle modalità di indagine e lettura del territorio e, seppur empiriche e non scientificamente codificate, davano avvio al dibattito sull'insicurezza urbana in Italia e, soprattutto, introducevano il tema della percezione dell'insicurezza. Forse non è un caso se una delle iniziative più recenti sulla sicurezza urbana parta proprio dall'Emilia. Sicuramente_Bologna – il cui team è composto da diverserighestudio, viapiranesi, Asspi Bologna, Frog marketing e Schiavina – prevede una serie di azioni finalizzate all'intervento sull'area della Bolognina, assunta come caso studio al fine di avviare processi virtuosi di rinnovamento urbano.

 

“Sviluppare un processo partecipato di dialogo aperto tra cittadini e pubblica amministrazione sui temi della sicurezza negli spazi pubblici” è alla base della strategia progettuale che si avvale di incontri, dibattiti e di un concorso di idee quali frammenti per costruire un percorso condiviso. La differenza sostanziale dall'approccio anglosassone è evidente – meno interventista e dogmatico, più riflessivo e partecipativo – ma resta sempre il dubbio se tutto non sia minato dalla convinzione di fondo che ossessiona noi architetti, ovvero la possibilità di potere risolvere tutto attraverso il progetto. Forse decostruendo questa certezza e riassemblandola in altro modo senza paura di fallire, sarà veramente possibile affrontare il tema della sicurezza senza pregiudizi, facili equazioni o risposte precostituite.

 

Oscar Newman e i suoi dannosissimi epigoni hanno avuto molta fortuna: non possiamo fare altro che augurarci che l'approccio bolognese non tradisca le aspettative lasciandoci in balia di sindaci-sceriffo o di governatori-poliziotto.

Cioè, in fin dei conti, in balia di noi stessi.

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